Siamo arrivati al terzo appuntamento con il Diario di Viaggio di Manuela Minelli, che ci presenta molteplici aspetti dell’India, privilegiando il contatto con la gente.
Chennai – Entro in un tempio tanto per avere una meta nel caos, un po’ di fresco e un po’ di silenzio e quiete. Non ho scarpe perché si devono lasciare fuori e mi siedo sotto una divinità dal nome scritto in indi, per raccogliere le idee e perché sono sfinita. Un attimo di profonda e spaesata tristezza, nella prima settimana da sola (che poi – imparerò ogni giorno – in India da soli non si è mai) in un paese così diverso dal nostro, ci può stare vero?
Poi succede che arriva una numerosissima famiglia, tutti quanti vestiti di giallo e rosso, evidentemente romanisti, e mi fa un sacco di feste, mi accerchia, vuole assolutamente farsi foto con me, manco fossi Madonna!
L’unico che capisce l’inglese e sa usare i social e ha pure FaceBook, è Vignesh Appu, scugnizzo con gli occhi vispi e nerissimi e l’aria di chi andrà lontano. Diventiamo amici in un nano secondo, chiede e traduce le mie risposte per tutti i membri della famiglia e tutti vogliono farsi le foto con me. Manco fossimo a un matrimonio… ecco qua… con le sorelle e cugine… con i cugini…. con la mamma e la zia… ah c’è pure la nonna! E, dulcis in fundo, con l’orgogliosissimo capo famiglia. Le invierò al piccolo Vignesh che poi provvederà a smistarle a tutti i componenti della sua family.
Grazie famiglia giallorossa per avermi distratta e rallegrata!
Madurai – Sxhuahib ha 22 anni ma ne dimostra di più per maturità, cultura e saggezza. È uno dei ragazzi della regione del Kashmir (sì sì, proprio quella da dove arriva quella lana soffice, sottile e leggera, ma anche caldissima), che in Tamil Nadu, a Madurai, insieme ad altri ragazzi fa parte della cooperativa del mraviglioso negozio Museum Company, esattamente di fronte a una delle quattro entrate della maggiore attrattiva di Madurai, il tempio Meenakshi Amman.
Entro in questo negozio-museo, per curiosare, ma anche per avere un po’ di tregua da un sole che ha raggiunto lo zenit e dal caldo che mi ha appiccicato la t-shirt addosso. Il negozio ha tante stanze, freschissime e suddivise su tre piani, in ognuna delle quali si possono comprare e ammirare un numero infinito di tesori di artigianato tipico del Kashmir: gioielli e bijoux con pietre dure, abiti, stole, sciarpe, calzature, mobili, soprammobili, olii profumati e da massaggio, tappeti, statue di pietra di divinità indiane di ogni grandezza e tante altre meraviglie, con prezzi che variano dall’equivalente di un euro per piccoli souvenir, fino a migliaia di euro per grandi meraviglie, come un dondolo da giardino in legno e madreperla, intagliato a mano con i ghirigori tipici della regione del Kashmir, piuttosto che un enorme tavolo rettangolare in avorio con otto sedie, tutto intarsiato a mano.
I ragazzi sono gentilissimi, mi offrono l’immancabile chai bollente, ma giacchè rifiuto perché se bevo un altro chai bollente mi squaglio come il burro ghee indiano, mi portano una coca cola ghiacciata e mi fanno accomodare e alleggerire del borsone con l’attrezzatura fotografica e altri pacchettini di acquisti precedenti. Mi guidano suadenti e premurosi verso le loro incredibili mercanzie “Solo vedere non per forza comprare” mi tranquillizzano in un italiano improbabile, ben sapendo che nessuno resiste alla tentazione di acquistare qualcosa.
È ora di pranzo e mi invitano a mangiare con loro sulla sommità dell’edificio, all’aperto, ma all’ombra di una tettoia. Mi trattano come fossi l’ospite d’onore, loro mangiano con le mani, come tutti in India, ma a me allungano una forchetta di metallo e, quando voglio aiutare a sparecchiare, mi bloccano e ci pensano loro. Iniziamo a chiacchierare di tante cose, poi gli dico che sono una giornalista e sono in India anche per fare un réportage, mi invitano a salire su una lunga scala di legno auto costruita, ancora più in alto, dove – mi dicono – potrò scattare foto magnifiche per il mio réportage. Insomma… mi pare un po’ pericoloso, che faccio, mi fido? Mi fido e salgo.
In effetti la vista da quassù toglie il fiato, sovrasta addirittura il tempio Meenakshi Amman e c’è un cielo di un azzurro scintillante e sotto di noi le persone e i tuk tuk e i venditori e i mendicanti e le biciclette e i risciò e tutta Madurai, appaiono lontani. Poi ridiscendo, con due dei padroni di casa che tengono salda la scala.
Posso non acquistare almeno tre sciarpe di cachemire, una tunica e qualche altro piccolo souvenir?
Il principale del negozio mi regala anche un piccolo elefante portafortuna che, una volta a casa, diventerà il portachiavi delle chiavi della mia auto.
Sxhuahib mi avverte che per entrare nel tempio devo lasciare le scarpe e, per non confonderle tra le altre migliaia ammucchiate fuori, posso lasciarle da loro e poi mi appoggia una bellissima stola di seta sulle spalle perché “Non puoi entrare con le braccia scoperte” mi dice. E aggiunge “Se vuoi lascia qui le cose che non ti servono, non le toccherà nessuno”.
Mi fido degli occhi e del sorriso di Sxhuahib e così lascio tutta la mercanzia acquistata, i pacchetti di prima, la borsa e mi avvio.
Pere visitare tutto il Meenakshi Amman ci vuole più di un’ora, si entra scalzi e senza calze, senza macchine fotografiche, né accendini, dopo aver oltrepassato un metal detector, guardie armate ed essere stati perquisiti da agenti-donna per le femmine e guardie coi baffi per i maschi.
Siccome siamo all’antivigilia dell’ultimo dell’anno, fuori dal primo tempio, ma sempre dentro le mura, un uomo sta lavando un elefante per la cerimonia e processione imminenti, quando i pachidermi sacri sfileranno bardati a festa attraverso un bailamme inimmaginabile di colorata umanità sparsa per tutte le strade intorno a tempio.
Dentro il percorso è obbligato e controllato a vista da uomini in divisa e armati di mitra, che talvolta urlano a chi va contro corrente. Il tempio è affollatissimo, ma io tutta questa sacralità non la percepisco affatto, sento invece odori di fritti varii misti a incensi, all’afrore di sudore e di fiori marciti.
Ci sono chioschetti che vendono leccornie fritte e avvolte in foglie di banana e, tra un tempio e l’altro (qui i templi sono fatti di tanti templi, un po’ come le matrjoske) bancarelle di incensi, bijoux , immaginette di mille divinità, incisioni in legno di sandalo, cestini di frutta per le offerte, polveri colorate e ghirlande di fiori da offrire agli dei e con cui segnarsi la zona del terzo occhio. La più quotata tra tutte le divinità (e a mio avviso anche la più simpatica e amichevole) è certamente Ganesh, quello con il faccione da elefante per capirci. In alcune zone del Meenakhsi Amman sono ammesse unicamente le persone di religione indù: io ci ho provato a confondermi con loro, ma mi hanno scoperta subito e riportata nel percorso per turisti, ufff! Intanto famiglie, coppiette di innamorati e pensionati solitari sgranocchiano ciambelle, polpette di latte condensato e noccioline, lakmi, riso e dolcetti fritti avvolti in foglie di banano e si fanno selfie, in un vociare collettivo che rende tutto assai fuorviante e inusuale per chi è cresciuto col silenzio delle chiese cristiane.
Mi viene in mente la scena di Jesus Christ Superstar, quando Ted Neeley urlando caccia via i mercanti dal tempio. Mi aspetto di vedere Ganesh o una delle altre innumerevoli divinità alzarsi dalla sua postazione e cacciare via in malo modo tutta questa massa di venditori e popolo in gita domenicale.
Gli stimoli visivi sono infiniti e non si sa dove guardare. Per terra, sui lastroni di pietra, sono disegnati dei mandala e tutto – travi, soffitti, colonne, edicole e teche che proteggono le divinità – è intagliato, decorato e molto colorato. Esco, perchè non ne posso più di odori forti e rumori. Fuori la temperatura è di 33 gradi. Quella percepita ha un tasso di umidità molto più alto.
Gironzolo nei dintorni del tempio, sempre “scortata” da chi vuole vendermi ghirlande di fiori bianchi, gialli e rossi-polveri colorate-scarpe-borse-scialli-frittelle-chai-spezie-olii-magliette-statuette sacre e non-elefanti di ogni materiale, e altro.
Provo a prendere un po’ di cash in un Atm (bancomat), ne giro più di uno e… niente non riesco con nessuna delle carte né col bancomat. Torno sconsolata e preoccupata nel negozio di Sxuhaib ed espongo il problema. E succede una cosa che mi lascia commossa e che suggellerà per sempre l’amicizia con questo meraviglioso ragazzo kashmir che non aveva neppure più lo scopo di farmi spendere soldi perché io le mie spese le avevo già fatte.
Chiede un permesso al capo e uno scooter in prestito a uno dei suoi amici e mi dice “vieni con me”. Salgo dietro a lui, ovviamente nessuno dei due ha il casco e lui, intuendo la mia paura su una moto in una città (anzi in un intero Paese) dove tutti guidano come se stesse prendendo fuoco la casa con tutta la famiglia e loro fossero gli unici in grado di spegnere l’incendio, procede con la massima prudenza e delicatezza, evitando buche, pozzanghere di liquidi non meglio identificati, tuk tuk che invece suonano il clacson e ci maledicono.
Visitiamo una dozzina di Atm senza che nessuno si degni di elargirmi una rupia. Sono quasi disperata, “E ora come faccio Sxuhaib? Domani devo partire da qui, mica posso stare senza soldi!” Lui allora ha un’idea, fa una telefonata, poi mi dice, “Tranquilla, non partirai senza soldi”. Stavolta guida più veloce, sfioriamo due tuk tuk e urtiamo lo specchietto di un’auto, svicoliamo rapidi in un traffico che in confronto il Muro Torto nell’ora di punta è il deserto e io mi chiedo come cavolo sono finita in sella a una moto nel traffico folle di una città dall’altra parte del mondo, aggrappata come un’edera rampicante a un ragazzino sconosciuto che dribbla pedoni e cani randagi. Però… ragazzi, mi sto divertendo un mondo, mi sembra di essere tornata pischella, quando ancora i caschi sulle moto non erano contemplati e la bellezza della due ruote era avere il vento nei capelli.
Finalmente arriviamo in una piazza trafficatissima, pullulante di gente e botteghe, lui si infila in un negozio di telefonia e io lo seguo, quindi parla con il tizio dietro alla cassa, mi dice di dargli la carta e mi avverte che il negoziante si prenderà una piccola percentuale, il costo del cambio. Esco dal negozio con un mazzo di rupie, poco più di cento euro, ma sembrano tanti di più.
Abbraccio Sxuhaib e lo ringrazio trenta volte, ha fatto tutto questo per me, è stato davvero grande! Gli chiedo perché, che fino a cinque ore fa neppure mi conosceva. Mi risponde perché ero in difficoltà, perché è giusto aiutare la gente in difficoltà.
Già … che domande…
Ci scambiamo i numeri di telefono e i contatti FaceBook, gli dico se posso offrirgli un aperitivo più tardi, così per ringraziarlo. Mi risponde che deve tornare al lavoro e che casomai… vediamo, ci sentiamo più tardi. In realtà quell’aperitivo non l’abbiamo mai più preso, ma ci scriviamo almeno tre volte alla settimana e… senti Sxuhaib, quando puoi, conosco un posto panoramico sul mare di Ostia-Roma-Italia, dove fanno un aperitivo delizioso, ce lo prendiamo là prossimamente?
Il tuk tuk che mi riporta verso l’albergo mi lascia sul marciapiede opposto, sono sfatta come una pesca matura, ho i capelli da matta e necessito di una doccia. Scendo pago e… ancora una volta, il popolo indiano mi regala emozioni così forti che sento il cuore scoppiarmi. Dunque… sento un frastuono infernale di indian music e una specie di dee jay che grida cose che non capisco, trasmette da una sorta di radio libera in una… boh… chiamiamola postazione all’aperto. È un attimo e una trentina di bambini che aumentano vertiginosamente mi accerchiano gaudenti e il dee jay, al secolo Karl Maxson, mi prende sottobraccio e mi fa delle domande in anglo indi che non capisco. Frastuono, colori, musica alta, veicoli che strombazzano, mamme che mi mettono i pupi in braccio e tutti che vogliono farsi i selfie con me. E questo tutto contemporaneamente. Manco fossi Michael Jackson redivivo o il Papa (che qui pare non sanno chi sia). Il dee jay mi spiega che, essendo quasi Capodanno c’è una festa (e questo l’avevo capito), vuole che salga sul palco, che dica qualcosa e che danzi per loro. Ma è pazzo? Per chi mi ha preso? Non sono mica Jennifer Lopez!
Comunque è impossibile sottrarsi e allora salgo, o meglio, vengo fatta salire, prendo il microfono e improvviso un breve discorso che comprende Happy New year almeno sei volte, e quanto sono carini gentili e che sono orgogliosa e felice e molto partecipe di cotanta gioia e che meravigliosa e colorata gioventù e vabbè s’è fatta una certa… quindi ancora grazie per l’immeritata accoglienza e tanti baci ai numerosi pupi e Peace and Love e Happy New Year, Thank you e bye bye!
Scendo scortata come Laura Pausini e tutti vogliono toccarmi – e poi ‘sta fissa dei selfie… Tutti mi presentano sorelle, mamme, figli, nipoti, nonne, zie e cognate. Ormai ho due guardie del corpo che tengono a bada un sacco di mani. Il dee jay mi offre un cono di sola crema molle e stucchevole (mi spedirà al bagno in dieci secondi? Che faccio lo mangio, o me lo faccio distrattamente cadere a terra e… ooops che peccato è caduto! E no, che poi certamente me lo va a riprendere…) e mi invita a presenziare alla gara della pertica, in cui dei baldi concorrenti a torso nudo, in una sfida molto partecipata e molto orgogliosamente maschia, devono arrivare a conquistare una pallina gialla che sta in cima alla pertica, vincendo così 6000 rupie (circa 70 euro). Ma hanno un handicap: vengono innaffiati continuamente e quindi pertica e corpi diventano molto scivolosi. Il dee jay mi chiede se voglio essere io a consegnare il premio (oddio… anche la madrina no!). Tra una manche e l’altra di questo Giochi senza frontiere indiano, ricominciano tutti a invitarmi a ballare. Ma io senza le altre ragazze dico che non voglio, solo che nessuna si decide, sono tutte timide e vergognose (deve essere sconveniente per una femmina ballare…) ma alla fine mi si affiancano una nonna (del dee jay) e due bambine. Mi concentro sulle bimbe evitando i ragazzetti sguaiati e improvvisiamo una Bollywood Dance che ci sta tutta!
Ora, io lo so che voi non ci credete, non ci crederei neppure io se non l’avessi vissuto, ma vi giuro che è andata esattamente così!
Alla fine ho distribuito gli ormai famosi pastelli colorati che mi ero portata da Roma e ho chiacchierato con un gruppo di sorelle dell’importanza dello studio per poter essere donne indipendenti in futuro (Indira, esci da questo corpo!).
Dopo un qualcosa che ha tutta l’aria un comizio politico, due poliziotti intimano la chiusura della festa con quel… solito garbo tipico dei poliziotti indiani. Peccato perché io che son festaiola e sto in crisi d’astinenza, cominciavo proprio a divertirmi, sigh!
Il dee jay Karl Maxson mi invita a casa sua a conoscere la famiglia. Temo voglia chiedermi in moglie davanti ai parenti, ma potrei essere sua madre, e così ci avviamo in moto mentre gli amici lo fotografano come fosse un eroe nazionale. Dopo le presentazioni, un po’ di convenevoli e un bicchiere di aranciata che mi lascia la lingua arancione, vedo un quadretto con una Madonna col Bambino che protegge tutta la casa e chiedo, con discrezione. Sì, sono cattolici, orgogliosamente cattolici, e io penso che è proprio bello che in un Paese possano convivere indù, sikh, atei, cattolici, buddisti e tutta un’altra serie di religioni e fare festa all together. Io, commossa, regalo alla mamma (ha 8 anni meno di me, ma ne dimostra di più) la mia stola arancione come l’aranciata di prima, facendomi promettere che ci faranno un giro pure le altre figlie che la guardano con interesse. Saluti commossi e il dee jay Karl mi riaccompagna sotto l’albergo. Che dire? Gli occhi e i sorrisi di tutti loro, dei bambini soprattutto, mi ripagano delle innumerevoli problematiche che incontro ogni giorno.
Dalla vostra Bollywood Star per oggi è tutto.
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