L’altra sera, mentre stavamo cenando, le risate in tv furono coperte da un brontolio minaccioso. Le porte scorrevoli cominciarono a sbattere nelle loro guide, come se una mano gigantesca cercasse di strapparle via.
Spegnemmo la stufetta a petrolio, che con i primi freddi teniamo accesa durante i pasti. Poi tutto tornò tranquillo. Mi era sembrata una scossa piuttosto forte (in effetti, magnitudo 4,9) ma non accadde nulla, non fu neppure menzionata nelle news. Non un bicchiere da vino nella nostra vetrinetta era caduto (potrà sembrare una preoccupazione da poco, questa, ma non lo è!).

Il Giappone è il paese con il rischio sismico più alto del mondo. Si trova in un punto ballerino della crosta terrestre, con una media di tre eventi sismici al giorno. Le case tradizionali non hanno fondamenta: poggiano su pietre o blocchi di cemento posati sul terreno, in modo da restare in equilibrio (fino a un certo punto) anche se questo si muove. Un po’ come quegli insetti, che spero vi sia capitato di vedere, capaci di “pattinare” con leggerezza sull’interfaccia tra acqua e aria.
La casa tradizionale è fatta di materiali leggeri: stuoie di paglia, pannelli di legno tenero e carta. Le travi sono posate su un incavo alla sommità dei pilastri senza bloccarle, in modo da consentire una certa oscillazione. Come molte discipline giapponesi, l’arte del carpentiere si basa su un concetto chiave: la rigidità è morte.

Tokyo, Pagoda del Tempio Takahata Fudō

Oltre alle case tradizionali, che quasi sempre sono al massimo a due piani, esistono in Giappone strutture in legno che si sviluppano in altezza. Le pagode dei monasteri buddhisti sono a cinque piani (gojū-no-tō) o almeno a tre (sanjū-no-tō) e hanno un pilastro centrale che posa su una base quadrata, in modo da renderlo più stabile.
Queste pagode in origine erano concepite come stupa, reliquiari per contenere le ceneri del Buddha. Nei secoli questa funzione andò perdendosi e la pagoda finì per diventare più che altro un simbolo. Statue di Buddha o reliquie, se ci sono, si trovano nella stanza ricavata nella sua base, al pianterreno… per noi: in giapponese non esiste il concetto di pianterreno, quello a livello del suolo si chiama primo piano (ci ho messo un bel po’ per abituarmi, con i pulsanti degli ascensori).

Ci fu qualcuno che, a un certo punto della storia giapponese, edificò una pagoda per divinizzare se stesso. Nel 1576 il signore della guerra Oda Nobunaga, dopo essersi impadronito di metà del paese, fece costruire un castello chiamato Azuchi. La torre centrale, un edificio in legno a sette piani laccato a colori vivaci (il settimo era rivestito d’oro), da lui fu chiamata tenshu, “padrone del cielo”.
Il castello di fuoco, come lo chiamo io, fu ridotto in cenere solo tre anni dopo essere stato completato, come il suo edificatore. Sic transit gloria mundi. Il termine tenshu però rimase e sul modello di Azuchi sorsero molti castelli, ciascuno con la sua bella torre/pagoda.
La maggior parte fu demolita in seguito per ordine degli Shogun, che non desideravano lasciare troppa indipendenza ai loro vassalli. Qualcuna sopravvisse fino alla seconda guerra mondiale, per essere distrutta dai raid aerei degli alleati. Ben poche crollarono per un terremoto: chi le aveva costruite, il suo mestiere lo faceva proprio bene.

tenshū del castello di Azuchi (ricostruzione)

Non so un granché sull’architettura contemporanea giapponese. Immagino però che, in molti casi, non abbia fatto altro che applicare i segreti dei carpentieri alla tecnologia. I risultati sono impressionanti: come nel caso della Tokyo Skytree (albero del cielo), una torre per le telecomunicazioni. Con i sui 634 metri è a oggi la seconda struttura più alta del mondo, dopo un grattacielo a Dubai. Ha due terrazze panoramiche cui si può accedere in ascensore. A sere alterne viene illuminata con due colori diversi, azzurro e viola.
Non ci sono mai salita e non lo farò, perché soffro di vertigini.

Tokyo SkyTree

Costruire torri e grattacieli in un paese come il Giappone, sembra una sfida o una scommessa: una dimostrazione del fatto che con gli eventi sismici si può convivere, sia pure con qualche eccezione. Ci ricordiamo tutti le immagini del grande terremoto del Tohoku (11 marzo 2011). A fare danni e vittime però, fu più che altro la grande onda di tsunami. Se l’epicentro fosse stato nella baia di Tokyo, quanti grattacieli sarebbero rimasti in piedi? Meglio non pensarci.
Quasi un secolo fa, il 1’ settembre 1923, le cose andarono molto peggio.

Terremoto del Kantō

Il grande terremoto del Kantō fece 170.000 morti, dieci volte di più rispetto a quello del Tohoku. A devastare Tokyo furono gli incendi sviluppatisi in seguito al sisma. Era ora di pranzo: in ogni casa c’era una stufa accesa in quel momento. Le case tradizionali sono fatte di materiali che prendono fuoco facilmente. Ecco perché abbiamo spento subito la stufa, l’altra sera.
Quel giorno la gente corse fuori dalle case, le stufe si rovesciarono e il fuoco divampò ovunque, attizzato dal soffio di un tifone in arrivo. L’asfalto delle strade, vanto di una città che voleva credersi moderna, si sciolse intrappolando quelli che scappavano. Un vortice di fuoco creato dal vento, incenerì 38.000 persone che si erano rifugiate in un’area ritenuta sicura. Insomma, un inferno.

Il pescegatto Namazu

Con questi precedenti di catastrofi, ci potrebbe aspettare che la mitologia giapponese sia popolata da mostri sotterranei cattivissimi, ma non è così. C’è solo un gigantesco pescegatto chiamato Namazu, adagiato su fondo del mare. Il dio Kashima lo tiene a bada con una pietra (secondo altre versioni della leggenda, con una spada) ma a volte si addormenta o si distrae, e il pesce ne approfitta per agitare la coda: così nascono terremoti e tsunami.
Spero che questo dio Kashima resti ben sveglio. La moka me la sono portata dall’Italia, magari gli faccio un caffè.

Vi ricordiamo i precedenti articoli della serie “Tokyo solo andata”, di Grazia Maria Francese, la nostra corrispondente dal Giappone:
Diario di viaggio: Tokyo solo andata: QUI.
Tokyo solo andata: tonari-san, i vicini di casa: QUI.

Grazia Maria Francese, studiosa appassionata di lingua e cultura nipponiche, ha scritto romanzi storici che rivelano il suo profondo interesse: vi presentiamo “Mille rimpianti – Verso il Japòn”.

Nel Giappone del sedicesimo secolo, l’erede della casata Oda riceve dal padre una missione impossibile: unificare il paese. Nobunaga però continua a vivere da scapestrato, senza curarsene, finché gli intrighi del fratello e la minaccia di nemici esterni lo costringono a difendersi. Diventato famoso grazie all’inaspettata vittoria riportata contro gli Imagawa, Nobunaga poco a poco si immedesima con il compito che gli tocca. Oltre a diventare uno stratega eccezionale deve però costringersi a essere sempre più spietato, estirpando dal proprio animo ogni traccia di umanità.
Nel frattempo, nell’Italia della Controriforma, Alessandro Valignano viene avviato agli studi dal padre, un nobile abruzzese. L’amore per Francesca, un’apprendista cortigiana di Venezia, lo travolge in complicazioni che lo fanno finire in carcere. Carlo Borromeo interviene a liberarlo, ma la condizione è che Alessandro entri in un ordine religioso: la Compagnia di Gesù.
L’uomo del Rinascimento e il samurai s’incamminano verso un incontro che cambierà il destino di entrambi oltre che dei cristiani giapponesi, sempre più numerosi in un paese ancora dilaniato dalla guerra.

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Credits: le immagini -tranne la fotografia della Pagoda del Tempio Takahata Fudō, scattata da Grazia Maria Francese- sono state reperite sul sito di Wikimedia.