Il canto al buio / ha il medesimo suono. Una permanenza dell’oidos, del potere delle parole, della loro armonia, che non muta con il cambiare degli stati dell’anima. Proprio ne Il sorriso di Godot di Stefano Giovinazzo la struttura non cambia, rimane sempre fedele a se stessa, accompagnando il poeta in un percorso che lo vede in continuo sviluppo, all’estenuante ricerca di un percorso, non più iniziatico, ma di maturazione; di quella maturità che non si configura in una strutturazione della forma, che qui invero rimane asciutta e senza fronzolo alcuno, ma di una mobilità del pensiero, molto spesso feroce, che smembra e mette sempre più in discussione il reale, la vita nella sua piena difficoltà dell’esistere.

   Giovinazzo lo fa con pacatezza d’animo, senza gridare, senza far tremare la parola in un cocente impeto lirico; lo tesse, al contrario, con preordinata freddezza in un sistematico accostamento di parole giuste, quelle necessarie, quelle che servono alla Poesia, senza eccedere, senza abbandonarsi allo sproloquio. La penna diventa così un bisturi, in grado di sezionare la vita e l’esperienza personale nei suoi molteplici istanti. Lo fa da grande osservatore della realtà esistenziale (I buchi del piombo / sul bicchiere di latta. Fisso i resti / come un pendolo in disuso. Mi dissuado dal ticchettio / impetuoso / come una nenia. / Mi sorreggo. / Scuoto la fune / dal marmo / che non cede. / Ma concede. / L’urto violento / le bianche ceramiche / la verginità disfatta. / La polvere attecchisce / sul tappeto / che non scioglie. / Ma accoglie).

    Quella di Giovinazzo è una poesia originale, attuale, che propina una nuova visione del mondo; ciò traspare dai suoi versi apparentemente semplici, come donati al lettore in maniera quasi distratta, buttati lì come stracci imbevuti della pura essenza poetica. Un’essenza che, nella sua fase più alta, travalica gli argini della forma, ne riscrive i contenuti, indugia come un archeologo pronto a disseppellire dalla polvere del tempo antiche rovine, per poi ridonarle al lettore con una luce diversa; ciò che ogni poeta è tenuto a fare in virtù della propria natura. Si afferma più che mai il concetto del nascosto, dell’allusione, di ciò che si cela, sepolto, dietro ogni lemma, ogni virgola o pausa che sia, un’ansa linguistica che diviene, invero, sidereo giaciglio dove riposa l’essenza più pura di chi compone versi (Non ho memoria / del ferro ghiacciato / sui miei polsi. / I segni del vizio / incidono i sogni proibiti. / E perversi. / Lascio cadere / la cenere raccolta / sul parquet testimone / di continue liti sopite. / E drammatiche. / In disparte / le note di un jingle lento / squarciano velleità di ripresa. / L’attesa ostile / inciampa con i nostri segreti. / Nascosti).

   In conclusione, una poesia da vivere fino in fondo, assaporandone le tinte più profonde, godendo la sua coerente ritmicità spezzata, che ben si sposa con gli intenti non solo compositivi ma anche concettuali: una poesia dell’esistenza.

Il sorriso di Godot, Stefano Giovinazzo, Edilet, Roma, 2011. ISBN: 8896517915.

Stefano Giovinazzo è nato a Roma nel 1980. Laureato in Comunicazione, giornalista pubblicista, ha fondato la casa editrice ‘Edizioni della Sera’ e l’agenzia letteraria ‘Studio Garamond’. Attualmente si occupa di ufficio stampa in ambito editoriale. Ha scritto “Dentro un amore” (Perrone editore), “Finché non ti ho trovata” e “Il sorriso di Godot” (Edilet).

Gli articoli di Fabrizio Corselli