“Cha no yu e i fiori sdraiati sul tatami… rappresenta per me un modo semplice di affrontare la vita. Il riferimento alla cerimonia del tè, da cui il titolo, intende raccogliere, da un’antica tradizione zen di origine cinese, la bellezza della sobrietà in contrapposizione al lusso e all’apparenza”.
Così si esprime la poetessa nella “Nota dell’autore”.
Nei confronti di Tissot io non parlerei proprio di contrapposizione, bensì di contrappunto, di riequilibratura armonica e tematica: una tessitura lieve e impalpabile che fa degli stati dell’essere la propria cifra sonora; così, muovendosi su scale ascendenti e discendenti, il sabi (la quiete, la pace) si alterna al wabi (la solitudine melanconica), il mono no aware (la caducità delle cose) allo yugen (il mistero insondabile) in una fitta trapunta di parole e temi stagionali che coesistono e divengono simbiotici con le immagini espresse nel mutuo rapporto con l’effetto del riverbero: un addossarsi delle parole e delle figure che si rimandano tra loro dal punto di vista semantico (al cimitero – / tra le tombe e i cipressi / penso alla vita). La poesia di Tissot è come un fiore di pesco fra i cui rami s’innervano piccoli germogli pronti a sbocciare, e che alimentano nel lettore il senso di meraviglia, la bellezza nello scorgere fra il fitto fogliame un frutto, quello stesso stupor poetico che si scorge negli interstizi delle parole (cade una foglia – / si posa sul selciato / e si addormenta).
Il principio di aderenza ai canoni universali dello haiku in Tissot è molto forte, ma la poetessa fa di più, osa. Lei contravviene, consapevolmente, alla regola dell’impersonalità che presuppone il soggetto pensante e l’oggetto pensato come un tutt’uno, fuso con la Natura, e da essa stessa emergente (in maniera velata, e mediata attraverso il “vuoto” che richiede l’uso limitato dei pronomi personali). La poetessa invece statuisce, sin dalle prime pagine, o meglio afferma, l’uso di questa variante tale da imprimere una straordinaria carica lirica, intimistica, allo spazio concentrato dei relativi ku (“versi”, intesi come unità di espressione). Pertanto quella gabbia versificatoria, ben nota per la sua struttura di diciassette sillabe, funge da cassa di risonanza, rendendo lo haiku non solo un luogo sicuro per il poeta (choros apemon), ma anche un luogo dove esprimere il sé oltre i limiti formali, vestendosi della capacità naturale di vibrare nella mente e nel cuore di chi legge. Un’epifania che ha il tempo di una folgorazione (vetri appannati – / guardo i fiocchi di neve / cadere a terra; esempio di grande potenza espressiva).
La divisione dell’opera nelle quattro sezioni dedicate alle relative stagioni suggella il percorso rituale che Tissot si prefigge di condurre, prendendo spunto dalla cerimonialità e dalla spiritualità del Cha no yu (“cerimonia del tè”): elementi che contrassegnano l’architettura dell’intera opera e che la innalzano a un rango molto più alto; medesimo è il senso di elevazione dello spirito (a piene mani / raccolgo le ciliegie – / vecchi ricordi).
In conclusione, un’opera intensa, bella da leggere, che richiede molta riflessione, ma soprattutto da gustare profondamente, sorseggiandola parola dopo parola come lo si fa con un tè pregiato.
Cha no yu e i fiori sdraiati sul tatami, di Antonella Tissot, è pubblicato da Compagnia della stampa, Massetti Rodella Editori.
Dopo gli studi classici, Antonella Tissot si laurea in Psicologia. È psicoterapeuta, Neuropsicologa e Formatrice all’Università Bicocca di Milano. Tra i suoi interessi il giardino e l’arpa celtica che suona con il gruppo Arpeincoro. Ha effettuato numerose pubblicazioni nel suo settore e, da qualche tempo, si dedica alla poesia apprezzando la metrica giapponese dell’haiku. È stata premiata al Concorso La Mole di Torino (2013) e ha conseguito un terzo posto con le raccolte di poesie Viaggio con sosta (2014) e Il piacere di quando si scollina (2017). Tra i suoi scritti ricordiamo i racconti Quasi come una vita (Sensoinverso, 2013) e Mi sono scordata di fare colazione ( Nulla Die, 2016).
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