Capitolo 8

Nabir non possedeva molto, a parte un cambio di abiti. Una volta misurate le distanze, toccato il cassettone e aperto l’armadio, aprì la piccola sacca che aveva portato con sé ed estrasse le brache e la casacca pesante che la sua sijia aveva ripiegato e infilato nella sacca. Le depositò nel primo cassetto, ripromettendosi di tenersi sempre pulito e in ordine. Una piccola esplorazione sul ripiano del mobile basso rivelò un catino e una brocca, ora vuota. Avrebbe voluto lavarsi e togliersi di dosso la polvere del viaggio, ma avrebbe aspettato di incontrare Myrrin per chiedergli cosa doveva fare.
L’idea di vivere lì lo spaventava ancora: era solo, in una città sconosciuta, con persone che non conosceva. Cercò di trovare il coraggio, ripensando alle parole di Selia, quel mattino presto. Lo aveva abbracciato e gli aveva promesso che si sarebbero rivisti, prima di quanto pensasse. Lui ne dubitava, ma in quel momento era molto in collera, e aveva risposto alla sua sijia con un mugugno scontento, a nascondere la propria disperazione.
Ora, invece, in mezzo alla stanza che gli avevano assegnato, prese un respiro profondo, sforzandosi di scacciare dal petto timore e disagio. Lo avevano accolto amichevolmente, non lo avevano trattato come un essere inutile e ingombrante. Il lieve tocco di Gyllahesh, quando gli aveva sfiorato la mano, lo aveva riempito di calore. Forse quel cambiamento gli avrebbe fatto bene. Lo sperava, perlomeno.
Era ora di scendere, il silenzio stava diventando opprimente, e lui aveva bisogno di sentire la voce dell’uomo che l’aveva condotto a Omira. Con un sussulto di sorpresa, si rese conto che gli mancava. Dandosi dello stupido, si avvicinò alla porta e l’aprì.

***

Gyllahesh salì nella sua camera dopo aver parlato brevemente con Myrrin e gli altri uomini che mandavano avanti la casa. La loro perplessità nell’apprendere che il giovane Nabir avrebbe vissuto con loro era scemata dopo avere appreso di come il ragazzo fosse stato allevato dalla nonna, della sua vista che peggiorava giorno dopo giorno. Aveva letto nei loro occhi la pietà e la comprensione, sperando che non manifestassero apertamente a Nabir quei sentimenti. Sapeva, benché lo conoscesse così poco, che lui non ne sarebbe stato felice.
Si lavò con l’acqua della brocca che si era portato appresso: avrebbe avuto bisogno di un bagno, ma le notizie correvano in fretta a Omira. Poco dopo il loro arrivo, era arrivato un messaggio da parte di una delle ma-dire dell’esercito, dove chiedeva – o meglio, ordinava – di rendersi disponibile per quel tardo pomeriggio. Solitamente, Gyllahesh non lavorava così: le sue giornate erano piuttosto piene, le donne che richiedevano i suoi servigi potevano aspettare anche qualche giorno, ma, essendo partito in fretta dalla capitale, non aveva avuto modo di avvertire nessuno.
Con un sospiro, sciolse i lacci del kitro e rimase nudo, passandosi la pezzuola umida sulla pelle. La ma-dira si sarebbe accontentata.
Il rumore della porta che si apriva lo fece sussultare, e incontrò lo sguardo spento di Nabir. Doveva aver sbagliato, cosa che comprese vedendolo sbattere le palpebre.
«Gyllahesh?»
«Sì.»
Il ragazzo girò la testa, come se cercasse di vedere attraverso la nebbia che gli velava la vista. «Non è la porta del corridoio.»
Lui sorrise. Non fece alcun gesto per coprirsi, l’altro non poteva vederlo. Eppure, il saperlo lì lo riempì di uno strano calore, riversandosi nell’inguine. Non adesso. Ma perché, poi? Nabir era comunque un maschio. Con un gesto seccato, Gyllahesh prese un telo e se lo drappeggiò sui fianchi, allontanandosi dal cassettone.
«No, Nabir. È la porta che comunica con la mia stanza. Vuoi che chiami qualcuno per aiutarti a scendere?» Si rese conto di avere usato le parole sbagliate, ma la stranezza della situazione lo confondeva. Nabir si irrigidì e fece un passo indietro.
«Me la caverò.» Alzò appena il mento, le narici allargate. Stava annusando? Non c’era che il profumo dell’essenza che aveva versato nel catino, insieme all’acqua. «Aspetti… aspetti qualcuno?»
Gyllahesh si rese conto che il ragazzo sapeva. Sapeva che il suo corpo stava reagendo, e non perché stesse aspettando qualcuno. Non era solo il lieve profumo che aleggiava nell’aria, c’era dell’altro. Scacciò con forza quei pensieri, tanto bizzarri quanto innaturali. Non era come gli uomini Aldair che accompagnavano l’esercito. Lui era un Dikkral, e la natura dei Dikkral non comprendeva desiderare un uomo.
«Una ma-dira dell’esercito. Sarà qui tra poco. Un appuntamento con scarso preavviso, ma tant’è.» Cercò di ridere, ma il volto serio di Nabir lo fece desistere.
«Capisco. Perdona… l’intrusione. Cercherò Myrrin.» Il ragazzo sparì velocemente dietro la porta, chiudendola quasi con delicatezza.
Gyllahesh si passò una mano fra i capelli. Era stanco e non avrebbe voluto passare il resto del pomeriggio a compiacere una donna, ma era la sua arte, e non poteva permettere che lo sguardo deluso di un ragazzino che conosceva da due giorni disturbasse i suoi pensieri. Nemmeno se quel ragazzino accendeva un fuoco dentro di lui ogni volta che vi posava gli occhi.

***

Nabir si chiuse la porta alle spalle e vi si addossò. L’imbarazzo gli scaldava in modo sgradevole lo stomaco, dopo aver intravisto Gyllahesh con i suoi occhi deboli. Non era vestito, altrimenti si sarebbe accorto del colore degli abiti. E quel profumo… non solo dell’essenza che permeava l’aria, ma della sua pelle. Non poteva sbagliarsi, i suoi sensi erano così affinati da permettergli di percepire anche il più piccolo cambiamento. L’odore che gli aveva invaso le narici lo aveva fatto fremere, e scappare, prima di rendersi ridicolo. Gyllahesh doveva incontrare una donna, sottostare ai suoi desideri. E lui non era niente, sebbene per un istante avesse desiderato che quel profumo inebriante che si era levato nell’aria fosse dovuto alla sua presenza. Ma lui non era una donna, e ciò che sentiva era sbagliato. Lui era sbagliato.
Stringendo i pugni, frugò dentro di sé per trovare la forza di combattere qualsiasi cosa stesse nascendo. Ciò che provava doveva essere solo dovuto al fatto che Gyllahesh era l’unica persona che conoscesse in quella città sconosciuta. Doveva essere così, non c’erano altre spiegazioni.
Staccandosi dalla porta, sbattendo le palpebre nell’oscurità che stava scendendo veloce, Nabir trovò la maniglia dell’altra porta, quella che dava sul corridoio. Non avrebbe più sbagliato ad aprire degli usci, avrebbe imparato a muoversi con più disinvoltura, senza andare incontro a spiacevoli e imbarazzanti incontri.
Uscì nel corridoio, si chiuse la porta alle spalle e prese a camminare rasente il muro, finché non toccò il corrimano delle scale. Imparava in fretta, si disse, mentre scendeva un gradino alla volta verso l’atrio. Avrebbe trovato Myrrin e gli avrebbe parlato. E avrebbe cercato di scordare Gyllahesh e l’effetto che il suo profumo – e la sua voce e il suo calore –  aveva su di lui.

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