Ecco la seconda puntata de La Battaglia di Vauxhall Arches, il quarto capitolo delle avventure di Raistan Van Hoeck e Guillaume de Joie.
Vi ricordiamo che la storia è adatta solo a un pubblico adulto e che il quinto capitolo è dietro l’angolo.
3
Approfittando della confusione e dell’oscurità, Mathusalem, il capo della comunità degli homeless, era riuscito ad avvicinarsi di soppiatto al vampiro e gli aveva conficcato un paletto appuntito nella schiena, tra le scapole. Lo aveva visto irrigidirsi e crollare su un fianco, come fulminato, mentre un silenzio irreale calava sulla galleria, là dove pochi istanti prima c’erano state grida e suoni di morte. Era rimasto a guardarlo per qualche attimo, poi aveva lanciato un urlo selvaggio di trionfo, subito imitato dai sopravvissuti, meno della metà rispetto a quando quell’incubo era iniziato.
Subito dopo, inebriati dalla vittoria, si erano scagliati in massa sul corpo inerme, a terra, e avevano sfogato su di esso la paura e il desiderio di vendetta, usando i paletti a mo’ di pugnali o come semplici bastoni, massacrandolo di colpi sferrati con rabbia. Quelli che avevano perso la loro arma si erano accontentati di violarlo con calci e sputi, fino a quando lo stesso Mathusalem aveva ordinato loro di fermarsi, ansimante.
“Questo è quello che succede a chi crede di poter fare il bello e cattivo tempo sotto gli Archi. Portiamolo in Piazza, per festeggiare. All’alba lo scaricheremo in superficie. Sono proprio curioso di vedere se questi bastardi bruciano davvero al sole. E se non accadrà, ci penseremo noi.”
Alzò le braccia in segno di vittoria, subito imitato dai compagni, che risposero alle sue parole con un ruggito trionfante. Tutti insieme sollevarono il corpo dell’Olandese e lo issarono al di sopra delle proprie teste, trasportandolo come solerti formiche nello spiazzo che avevano scelto come base e lasciandosi dietro una scia di sangue, nero nella semioscurità che gravava su quel luogo dimenticato da dio e dagli uomini.
Quando arrivarono, lo deposero a terra e ripresero ad infierire su di lui, ma fu di nuovo la voce del loro capo a riportarli alla ragione… ammesso che la vita che conducevano gliene avesse lasciato un barlume: “Accendete il Generatore! Stasera abbiamo qualcosa da festeggiare!” Altre urla di trionfo, che si fecero ancora più forti quando il bagliore di una decina di lampadine irruppe a scacciare il buio, illuminando a giorno lo squallore di quel luogo. Quasi in contemporanea, una musica martellante si levò da uno stereo portatile rubato chissà dove e chissà quando e la disgraziata compagine di uomini e donne, giovani e meno giovani, si scatenò in una danza scomposta attorno al corpo martoriato di Raistan, che sembrava essere stato calpestato da un trattore, i vestiti a brandelli e il volto ridotto a una maschera di sangue, seminascosto dai capelli.
Mathusalem si lasciò cadere su una sgangherata sedia di legno ed estrasse da una borsa di plastica una bottiglia, quella delle grandi occasioni, lasciando che l’orgoglio per essere riuscito a proteggere la propria gente lo avvolgesse come una calda coperta, mentre attorno a lui tutti ballavano e ridevano. Sorrise, quando un ragazzino di non più di diciotto anni, il piccoletto che si era offerto come esca, si chinò accanto al vampiro e gli sfilò gli stivali, sollevandoli verso il cielo e urlando di trionfo, supportato dai compagni. L’idea parve piacere anche ad altri, che si buttarono sull’Olandese per rubargli tutto quello che potevano, frugandolo senza delicatezza nelle tasche, esultando ogni volta che trovavano qualcosa di interessante. Il cellulare. Il portafoglio. Chiavi.
“Devono essere di una moto!” strillò felice l’uomo che le aveva trovate, ma subito un altro cercò di strappargliele di mano e scoppiò una rissa che solo la voce imperiosa di Mathusalem riuscì a sedare.
“Basta! Bug, vai tu a cercarla, e portala nel tunnel. Vedremo di usarla nei modi più opportuni. E finitela di litigare!”
I due contendenti si guardarono in cagnesco ancora per qualche istante, poi il ragazzo di nome Bug partì al galoppo verso l’uscita, stringendo nel pugno il prezioso tesoro. Chissà quanti chili di roba buona avrebbero potuto comprarsi, rivendendo la Harley!
Altri tre homeless intanto, già ubriachi, si stavano dando ai selfie accanto al corpo di Raistan, come se fosse un trofeo di caccia, usando il suo telefono. Non soddisfatti del risultato, tuttavia, lo abbrancarono e lo tirarono in piedi, sorreggendolo per le braccia, tirandogli indietro la testa e allontanandogli i capelli dal viso insanguinato, perché fosse perfettamente visibile. “Aprigli la bocca, voglio che si vedano i denti! Spero che tu sia fotogenico, bastardo. Dì cheese…”. Dopo una decina di scatti lo lasciarono ricadere a terra, e altri due uomini gli si avventarono contro per strappargli di dosso la felpa, anche se il paletto ancora conficcato nella sua schiena rendeva l’impresa molto difficile. Mathusalem sorrise di nuovo e bevve l’ennesima sorsata dalla bottiglia di whiskey. Era bello essere vivi.
4
Quando una lampadina esplose con uno scoppio improvviso nessuno ci fece caso. Chi la udì pensò fosse solo un altro suono di giubilo nell’allegra sarabanda che li aveva coinvolti. Un gagliardetto lanciato tra i piedi dei danzatori, un petardo che detonava come un battito di mani infinite volte amplificato. Tre hurrà e un ‘bravo’ per tutti loro! Quando la seconda lampadina incontrò lo stesso destino, seguita da una terza e poi una quarta, a qualcuno venne in mente che forse il generatore non stava funzionando bene, che il sistema si stava sovraccaricando e presto la festa sarebbe finita.
“Vado io” si offrì un individuo grosso e tarchiato, il collo inesistente che sbucava dalle spalle e dal torso, segnato da rivoli di sudore sporco. Mathusalem fu l’unico a plaudire il volontario, mentre un’altra lampadina esplodeva, in una pioggia di schegge di vetro.
“Se si spegne tutto dovremmo anticipare il falò” propose qualcuno, e le sue parole suscitarono un notevole entusiasmo. Ma sì, perché aspettare l’alba quando la notte era ancora così lunga? Le lampadine rimaste sfavillarono improvvisamente, emanando una luce accecante. Tutti applaudirono festosi. “Bravo Rock, l’hai rimessa in moto questa carretta! Riporta il culo qui adesso” gridò una donna talmente macilenta che gli occhi sembravano sul punto di schizzarle dal volto scarno.
Poi, come la luce era aumentata, sciamò progressivamente, fino a spegnersi del tutto. L’oscurità calò sulla piazza, mentre lo stereo continuava a pompare musica lievemente distorta. “Ma che palle, qualcuno ha del fuoco?” si lamentò la donna rinsecchita. “Certo” le rispose una voce accanto al suo orecchio, seguita dal cla-clack di un accendino. Un accendino d’oro, come non poté fare a meno di notare lei quando si voltò verso la fonte della luce. Alzò gli occhi per chiedere al suo sodale dove avesse trovato un aggeggio così lucente, ma la voce le morì sulle labbra screpolate. La fiamma tremula illuminava un volto talmente bello da risultare spaventoso. Alla donna vennero in mente le figure degli angeli sul libro di catechismo di quando era bambina, in un passato sepolto sotto strati infiniti di stracci e degradazione. Che pensiero stronzo, che le saltava in mente, dopo tutto quel tempo! Aprì le labbra per parlare, mentre la mano dell’angelo le si posava sulla guancia. La fiamma si spense e lo schiocco del collo spezzato risuonò nel buio.
Qualcuno gridò udendo il corpo cadere a terra. Qualcun altro cercò di raggiungere il generatore inciampando sul corpo senza vita di Rock. “Porca puttana, fate luce!” ordinò Mathusalem, frugando con gli occhi l’oscurità per capire cosa li stesse minacciando. Possibile che quel cazzo di vampiro si fosse ripreso?
Finalmente la luce di un paio di torce rischiarò lo spiazzo. Il vecchio trasecolò: il corpo del vampiro era scomparso. Ma prima che potesse chiedersi come avesse fatto quel dannato ad alzarsi e andarsene scorse la figura vestita di bianco. “Ma che diavolo? …” berciò.
“Diavolo. Hai detto bene vecchio” osservò tranquillo Guillaume De Joie. Col suo impeccabile soprabito bianco stonava in modo spaventoso con la sporcizia e lo squallore di quello scenario. Certo, il sangue che defluiva dal corpo martoriato di Raistan, gettato di traverso sulla sua spalla, stava inzuppando il tessuto pregiato. Sarebbe stato difficile recuperarlo. Era il genere di cose che faceva infuriare Guillaume. Detestava quando qualcuno osava sgualcire le sue cose. “Il diavolo è venuto a fare la conta dei vostri peccati.”
“È un altro di quei figli di puttana!” gridò il ragazzino che aveva fatto da esca. Senza il proprio fardello Guillaume avrebbe potuto allontanarsi prima che quello finisse la frase. Ma anche con l’Olandese sulle spalle il vampiro si muoveva più velocemente di quanto quella feccia potesse concepire. Ciononostante mantenne un’andatura tale da far sì che potessero inseguirlo.
“Sta andando verso il pozzo. Spingetecelo dentro. Non avrà scampo” ordinò Mathusalem ai suoi luogotenenti. “Non gli permetteremo di portare via la nostra preda. Alla fine di questa notte ne avremo ammazzati due!”
La folla di barboni, animata dal fervore della nuova crociata, si lanciò all’inseguimento. L’eco dei loro passi rimbalzava tra le pareti del tunnel con un frastuono spaventoso. Era come se il dedalo di vicoli e passaggi bui avesse preso vita e si fosse trasformato in una bestia immane e famelica, bramosa di sangue e morte. Il pozzo era un vecchio deposito in disuso da mezzo secolo, uno stanzone un tempo adibito a mattatoio pubblico. In seguito a un cedimento avvenuto chissà quando, era sprofondato di un paio di metri sotto il livello del suolo. Dichiarato inagibile, era accessibile solo da una bocca di lupo alta poco più di un metro, larga il doppio. Il popolo dei bassifondi ci si avventurava di rado. A nessuno piaceva trovarsi senza via d’uscita. Ma quando, in casi come quello, c’era una preda da incalzare e spingere in trappola, il pozzo era l’ideale. Guillaume, avvertendo i suoi inseguitori farsi sempre più vicini, non esitò a lasciar scivolare il corpo di Raistan attraverso la fenditura, accompagnando delicatamente la sua caduta. Subito dopo lo seguì, atterrando sul pavimento coperto da una spanna d’acqua stagnante. Si allontanò dall’ingresso proprio mentre i primi barboni si insinuavano nell’apertura, piombando a loro volta nell’acqua. Le luci giallastre delle lampade si accesero a violare l’oscurità maleodorante del sotterraneo. Puntavano tutte sul vampiro vestito di bianco, che non fece nemmeno il gesto di schermarsi gli occhi, ma rimase a fronteggiare con apparente tranquillità quell’esercito di scontenti che si andava schierando davanti a lui. L’ultimo a scendere fu Mathusalem, sorretto dalle spalle dei suoi robusti tirapiedi. Nessuno aveva osato muovere un dito prima del suo arrivo. Nel silenzio che lo seguì l’unico suono udibile era lo stillicidio di infinite gocce che correvano lungo le tubature arrugginite e piovevano dal basso soffitto nel lago sottostante. In qualsiasi altra circostanza a Guillaume sarebbe sembrato un suono piacevole, confortante.
“Mi fa piacere tu abbia ancora voglia di sorridere, considerato che stai per essere fatto a pezzi.” La voce di Mathusalem, amplificata e resa metallica dallo stanzone, lo riscosse dai suoi pensieri. Si portò la mano alle labbra, sfiorandole appena col dorso delle dita. Non un modo per celare il sorriso, semmai per metterlo in risalto. Il volto del vecchio si contrasse in una smorfia. La bellezza insolente di quel mostro lo rendeva ancora più meritevole di incontrare un destino terribile per mano di tutti loro.
“Chiedo scusa, ma non posso fare a meno di sorridere, vecchio.” La voce dell’uomo in bianco risuonò odiosamente musicale nel vasto ambiente. Forse il bastardo era matto. “Sorrido perché io so tre cose che voi non sapete.” Chiaro che stava prendendo tempo. Poco male. Non aveva scampo.
“Sentiamo, cosa sarebbero queste cose?” domandò Mathusalem, ostentando l’indulgenza del vincitore. Al suo fianco, Sven aveva già srotolato la sua catena e la faceva oscillare oziosamente a mezz’aria. Sarebbe stato un autentico piacere vederla abbattersi sul sorriso di quel damerino azzimato e mandarlo in mille pezzi. Guillaume lo guardò con il candore di uno scolaro negligente che, dimenticata la lezione, sapesse di poter contare solo sulla propria bella faccia e parlantina per evitare una nota.
“Intanto so che il fosfuro di alluminio, a contatto con l’umidità, produce fosfina” annunciò, con gravità. “La fosfina è altamente tossica, sapete? Può uccidere anche a concentrazioni relativamente basse. Per questo viene usata per la disinfestazione dei parassiti…”
“Tutto molto interessante” lo interruppe il vecchio, sputando nell’acqua che arrivava loro alle caviglie. Se non ci fosse stato così umido in quella fogna qualcuno avrebbe già provveduto a lanciare una molotov a quel cazzone e ad arrostirlo. “Ora, hai finito la lezione di scienze o è fosfuro di qualcosa che stai tirando fuori dalla tasca?” Guillaume sollevò la mano che aveva appena estratto dal soprabito e mostrò il cellulare con un sorriso innocente.
“No. Ci mancherebbe. Nella mia tasca non potrei tenerne abbastanza. Senza contare che puzza quanto voi” spiegò, riponendo il cellulare nella tasca. Un clangore metallico risuonò alle spalle degli uomini e delle donne riuniti nel pozzo. D’istinto tutti si voltarono, solo per rendersi conto che l’ingresso era stato chiuso da quello che a prima vista sembrava un pannello di metallo. Qualcuno si arrampicò subito aggrappandosi alle tubature e cercò di rimuoverlo, ma nello stesso momento, dalla parte alta del pannello, iniziarono a rotolare innumerevoli sfere rossastre, che precipitarono sul pavimento circostante. Non appena le prime sfere toccarono l’acqua, un vapore rosato iniziò a sollevarsi in dense nuvole. Qualcuno cominciò a gridare, ma subito la sua voce fu spezzata da una tosse convulsa.
” Ecco la seconda cosa che so, vecchio. Che il furgone del mio amico qui fuori si muove silenzioso come il miele sulla lingua. Sarà per questo che l’antidroga non è ancora riuscita a incastrarlo?”
La gente di Vauxhall era in preda al panico. Mentre il fumo si alzava sempre più alto, infrangendosi contro il soffitto, gli homeless si accalcavano verso la stretta uscita, calpestandosi a vicenda per guadagnarla, i volti congestionati, gli occhi fuori dalle orbite. Chi riusciva a salire tempestava di pugni il pannello, probabilmente la paratia del furgone che era stata aperta per lasciar cadere il suo carico mortale. Tutto inutile. Sembrava saldato all’asfalto. Mentre la sua gente agonizzava intorno a lui, Mathusalem cercò la figura del vampiro in bianco. Ed eccolo, assiso sopra un cassone di metallo, col suo compare accasciato ai piedi, intento a godersi lo spettacolo. Sembrava circondato da uno sciame di piccole luci bianche, pulsanti come lucciole. Il vecchio fu scosso da un accesso di tosse e vomitò sangue.
“La terza cosa che so è che noi non abbiamo bisogno di respirare” udì la voce melodiosa raggiungerlo nella cacofonia di grida e rantoli e lamenti di morte. “Voi, sfortunatamente, sì.”
Mathusalem cadde a faccia in giù nell’acqua sporca, scosso da convulsioni. Poi rimase immobile. Guillaume si chinò a sfiorare i capelli di Raistan, una massa arruffata e incrostata di sangue. Ancora qualche momento e avrebbe potuto portarlo a casa.
5
L’acqua aveva assunto una colorazione rosso cupo, per effetto del fosfuro e del sangue. Guillaume guadò il passaggio, raggiungendo la pila di cadaveri ammucchiati contro la parete. Senza batter ciglio iniziò a scalarla, finché un paio di braccia non si allungarono attraverso l’apertura per aiutarlo. In un attimo fu all’aperto. Davanti a lui il Chimico indossava ancora la maschera antigas che lo faceva sembrare una sorta di alieno dagli occhi smisurati. Senza una parola lo aiutò ad adagiare Raistan. Guillaume represse un ruggito, constatando le condizioni in cui versava. Se fosse stato presente non avrebbe mai permesso che lo riducessero così. Se fosse stato presente non avrebbero nemmeno potuto toccarlo.
“Devo portarlo a casa” disse semplicemente.
L’uomo con la maschera annuì e lo aiutò a sistemarlo meglio sul furgone. Guillaume se lo accomodò tra le braccia cercando di ridurre il più possibile gli urti. All’improvviso era diventato di importanza primaria maneggiare con la massima cautela quel corpo devastato.
Il Chimico li scortò fino all’auto parcheggiata. Non avrebbe potuto portarli a casa. C’era ancora parecchio da fare per lui e Guillaume lo sapeva. Dopo la fosfina sarebbe venuto l’acido che avrebbe fatto sparire i patetici resti di quel l’eccidio e avrebbe reso il pozzo più pulito di quanto non fosse da decenni. Il vampiro non poté fare a meno di lanciare un’occhiata colma di disgusto e ammirazione a un tempo verso quell’umano che sembrava non provare il minimo rimorso nel compiere azioni talmente nefande da far vacillare perfino un mostro come lui. Ma quella totale mancanza di empatia serviva ai suoi scopi in modo eccellente, inutile essere ipocriti. Inoltre non faceva che ribadire quanto spaventosi potessero essere i mortali.
Giunti alla macchina trasportarono Raistan da un mezzo all’altro. Mentre Guillaume lo sistemava sul sedile, il Chimico si liberò finalmente della maschera e si passò la mano tra i capelli. Guillaume si era sempre chiesto se il loro insolito colore bianco striato di azzurro fosse frutto di una scelta consapevole o solo il risultato di uno dei tanti esperimenti portati avanti dall’uomo.
“Devo tornare al pozzo. L’alba è vicina.” Perfino la voce del Chimico risuonava aliena, incolore come i suoi capelli e le sue iridi talmente chiare da apparire bianche.
“Vuoi essere pagato subito o…” cominciò Guillaume, ma l’altro lo interruppe alzando la mano. I suoi movimenti erano leggermente rallentati, come spesso accadeva ai fruitori abituali di Metanfetamina. “Verrò a cercarti a lavoro finito. Adesso pensa al tuo amico” sentenziò, con quella sua voce priva di emozione.
Guillaume pensò che alla luce dei lampioni appariva più pallido di quanto dovesse apparire lui stesso. “Dammi solo un assaggio” aggiunse un attimo dopo l’uomo. Guillaume fece un cenno di assenso. Era il minimo che potesse aspettarsi. Si portò il dito indice alle labbra e incise la pelle con la punta di un canino. Poi lo porse al Chimico. Egli rimase per un istante a contemplare la goccia color rubino con quegli occhi appannati. Poi afferrò la mano del vampiro, l’avvicinò al volto e prese il dito tra le labbra. Serrò gli occhi e tutto il suo volto si contrasse in una smorfia di doloroso piacere, un’estasi che durò un istante, ma il riflesso della quale rimase nei suoi occhi anche una volta che si fu staccato. Ora le sue labbra macchiate di scarlatto erano l’unica nota di colore nel suo volto esangue. “A presto” lo salutò Guillaume. E quel saluto aveva tutto il sapore di una promessa.
Per prima cosa sarebbe stato necessario togliere il paletto dal cuore. Perché era lì che doveva essersi conficcato. Era probabile che la punta del bastone lo avesse trafitto, causando la perdita istantanea dei sensi, ma senza attraversarlo, con conseguenze ben più definitive. Guillaume aveva sperimentato sulla propria pelle la sgradevolissima sensazione di venire trapassato da parte a parte e inchiodato come una farfalla a una parete. Era un lento morire vivendo, ammesso si potesse parlare di vita, nel loro caso. Si rimaneva coscienti, ma impossibilitati a muovere un muscolo, consapevoli che un minimo movimento avrebbe potuto ridurti in polvere. Nel frattempo, chiunque ti avesse ridotto così poteva averti alla propria mercé, uno stato, questo, che faceva impazzire il vampiro più ancora dell’impalamento vero e proprio. I pochi che nel corso dei secoli avevano osato avvicinarsi abbastanza a lui da potergli fare una cosa simile se ne erano pentiti amaramente, una volta che si era liberato.
Dopo aver disteso Raistan sul pavimento tagliò accuratamente i brandelli d’abiti che ancora gli pendevano addosso, ormai un tutt’uno con la carne maciullata. La vista di quelle membra vigorose, delle quali aveva imparato ad apprezzare la forza e la bellezza nei loro frequenti e appassionati amplessi, ora ferite e violate, rinfocolò la sua furia. Quella stessa furia che era divampata in lui quando, ormai un’eternità prima nel corso di quella notte spaventosa, aveva avvertito che qualcosa stava accadendo al suo compagno. Sì, non c’era altro modo di definire l’Olandese, nonostante Guillaume avrebbe preferito bruciare all’inferno piuttosto che ammetterlo. Tutto il sangue che si erano scambiati in quegli ultimi giorni, in quelle ultime notti, era il veicolo di un legame che travalicava se stesso. Da quanto tempo non si sentiva così intimamente legato a qualcuno da poterne percepire i pensieri e le emozioni anche quando era distante? Che la sua scelta fisse caduta su quel bestione zotico e privo di alcun raziocinio non gli faceva onore. Ma Guillaume non aveva mai pensato di brillare di saggezza in certi frangenti.
6
Probabilmente aveva percepito il pericolo prima ancora di Raistan. Un attimo prima era nella quiete confortevole del cottage, gli occhi fissi sullo schermo del laptop che non leggevano una riga. L’uscita teatrale dell’Olandese lo aveva infastidito più di quanto avrebbe mai ammesso. Sarebbe tornato. Dopotutto quella era casa sua. Avrebbe bofonchiato tra sé, sbattuto un po’ di cose, giusto per ribadire la propria presenza. Guillaume lo avrebbe lasciato fare. Avrebbe finto di ignorarlo. Poi sarebbe andato a cercarlo e gli avrebbe proposto di strappare quella fottuta camicia di Gucci. Avrebbero fatto l’amore. Si sarebbero scambiati il sangue fino a ubriacarsi l’uno dell’altro, fino a dimenticare tutto il resto.
Poi aveva sentito quello sgradevole formicolio alla nuca, seguito da un senso crescente di oppressione al petto. Aveva avvertito una rabbia che non riconosceva come propria, accompagnata dall’ebbrezza della caccia. Ma non era stato questo a metterlo in allarme. Il sangue di Raistan che era passato in lui giustificava quel transfert. Era normale che lui percepisse le emozioni più violente dell’Olandese, perfino a distanza. Assurdo quanto quello stupido bestione gli fosse entrato dentro! Ma c’era qualcosa di sbagliato in quella caccia, qualcosa che faceva trillare un fastidioso campanello d’allarme nella mente di Guillaume. Il dolore lo aveva investito con tale violenza da costringerlo a balzare in piedi scaraventando la sedia a terra. Per un attimo ogni singola fibra del suo corpo aveva gridato, preda di una sofferenza cieca e sorda. Non aveva esitato un istante. Aveva afferrato il soprabito e si era scagliato fuori dalla porta, sulle tracce di Raistan, muovendosi con tutta la velocità che il suo stato gli consentiva, mentre il suo corpo e la mente seguitavano ad essere attraversati da staffilate di dolore che mordevano la carne e ottenebravano i pensieri impedendogli di pensare lucidamente.
Raistan. Raistan. Raistan. Quella sirena d’allarme ululava nella sua testa, rimandandogli immagini dell’Olandese, del suo volto contratto dall’ira e dal terrore, delle sue membra straziate. Tutto il resto si annullava in quell’urgenza, ogni razionalità, ogni riflessione ponderata. Aveva dovuto fare violenza su se stesso per obbligarsi alla prudenza, per imporsi la freddezza necessaria per escogitare un piano che gli permettesse di salvare Raistan senza ficcarsi a sua volta in una trappola mortale. Eppure chiunque lo conoscesse un po’ sarebbe stato pronto a scommettere sul suo distacco e la capacità di non lasciarsi mai coinvolgere. C’era voluto un umano mostruoso come il Chimico per ricordargli la sua disumanità.
Avrebbe preferito portare Raistan a casa propria, ma le sue condizioni non lo avevano reso possibile. Difficile trasportare un corpo di due metri maciullato e attraversato da un paletto in un super attico nel cuore di Belgravia senza dare nell’occhio. No, il cottage era più discreto.
Ancora una volta il Chimico si era rivelato provvidenziale. Aveva supplito alla mancanza di una vasca da bagno concedendo in prestito a Guillaume un pezzo del suo armamentario. Mentre apriva sul pavimento del salotto quella che a prima vista sembrava una piccola piscina in plastica con supporti in alluminio, il vampiro non poté fare a meno di pensare con raccapriccio a quale utilizzo ne facesse il mortale. Lui ci depose il corpo martoriato di Raistan, libero dagli abiti. L’Olandese era troppo alto e grosso per poter stare disteso in quello spazio angusto, ma flettendogli le ginocchia e mettendolo sul fianco Guillaume riuscì a sistemarlo in modo che tutto il suo corpo aderisse al fondo. Ciò fatto si dedicò al dannato paletto. Per prima cosa si aprì il polso con i denti e irrorò i contorni della ferita col proprio sangue. Il suo potere rigenerante avrebbe dovuto impedire ai tessuti di cedere del tutto una volta che il paletto fosse stato rimosso. O almeno questa era la sua speranza. Quando estrasse il legno dalla schiena dell’Olandese lo fece con lentezza, mantenendo la stessa inclinazione per non squarciare il cuore. Solo quando ebbe portato a termine la delicata operazione e il sangue di Raistan eruppe dalla ferita mescolandosi al suo si concesse di sbattere le palpebre.
Un problema era risolto. Restava quello, non indifferente, di un Olandese di due metri privo di sensi rannicchiato sul fondo di una vasca di plastica. Guillaume non aveva dubbi che le ferite inflitte a quel corpo si sarebbero rimarginate, e in un tempo molto breve. Ma sarebbe stato necessario valutare gli effetti sulla mente di Raistan. Da quello che aveva potuto apprendere attraverso il suo sangue, non era nuovo a situazioni di pericolo estremo. Data la sua innata abilità a cacciarsi in guai più grossi di lui, aveva del miracoloso che non avesse ancora incontrato la morte ultima. Ma l’aveva sfiorata, e in più di un’occasione, e le conseguenze di quelle circostanze emergevano ancora nel suo instabile amico. La rabbia tornò a lambire Guillaume deformando i suoi lineamenti perfetti in un ghigno orribile. Rabbia verso gli umani che avevano osato infierire con tanta ferocia, rabbia contro se stesso per aver permesso che succedesse. Certo, il primo colpevole era Raistan, dannato bestione cocciuto e squilibrato! In quel momento tuttavia Guillaume riusciva solo a pensare con pietà e qualcosa di fastidiosamente simile all’affetto al corpo straziato che giaceva nella vasca.
Con un sospiro si accinse a ripulirlo dal sangue rappreso e dal lerciume che lo ricopriva. Non ricordava di essersi mai preso cura in quel modo di qualcuno. Un’esperienza della quale avrebbe fatto volentieri a meno e che cozzava violentemente con la sua indole solitaria ed egoista. Quale demone dell’Inferno gli aveva impedito di uccidere Raistan Van Hoeck la sera stessa in cui lo aveva incontrato e berselo come era opportuno per una vittima così succulenta? Doveva essere impazzito. Se uno qualunque dei suoi nemici avesse potuto vederlo in quel momento… Fortunatamente nessun nemico gli era sopravvissuto. Indugiò con le dita tra i capelli di Raistan per un istante prima di procedere.
“Che diavolo mi combini, eh, Raggio di sole? Pensi che non abbia niente di meglio da fare che salvarti il culo? Guarda come sei conciato…”
Decise di sfruttare al meglio la funzione della vasca riempiendola di acqua tiepida. Avrebbe dovuto fare un sacco di viaggi avanti e indietro dalla cucina, ma non sopportava di vederlo ridotto in quel modo, oltre a non riuscire a rendersi conto appieno dell’entità delle ferite. Forse, una volta pulito, la situazione gli sarebbe apparsa meno grave di quello che sembrava al momento. Accidenti alla sua fantasia morbosa che gli stava regalando immagini spaventose di quello che l’olandese doveva aver passato prima di perdere i sensi… d’altronde gli bastava ripensare alle sensazioni orribili che aveva provato in prima persona, provenienti da lui, per rabbrividire. Sperava solo che non avesse pensato di essere stato abbandonato. Non da lui.
Si mise al lavoro, svuotando un secchio dopo l’altro nella piccola piscina, borbottando e imprecando tra sé e sé, fino a quando il corpo di Raistan non giacque in una trentina di centimetri di acqua, sufficienti a lavarlo. Notò che il liquido si stava arrossando, nonostante fossero passati solo pochi minuti, e imprecò di nuovo. Usando una salvietta, si diede a detergere quel corpo straziato parlandogli in continuazione, alternando incoraggiamenti, minacce e persino preghiere, quando si accorse che non dava segni di ripresa. La pelle delle braccia, del viso e del torace era un disastro di lacerazioni e lividi, che spiccavano in maniera orribile nel candore dell’epidermide. Bastardi.
Quando ritenne che fosse il meglio che riusciva a ottenere, sollevò Raistan tra le braccia e lo depose sul telo che aveva disteso sul pavimento, avvolgendolo come in un bozzolo di morbida spugna nera.
“Adesso ce ne andiamo a letto, io e te, Raggio di sole. Ti farai una bella bevuta e domani ti sentirai molto meglio. Ho un’altra bellissima camicia che ti piacerà di sicuro. Te la lascerò strappare, anche fare a brandelli, se vorrai, ma devi ritornare da me, capito,cheri? Non accetterò un no come risposta, e nemmeno questo silenzio così irritante. Non è da te. Forza, andiamo.”
Con gli occhi fissi sul viso del compagno, lo trasportò in camera e lo adagiò tra le lenzuola, liberandolo dal drappo ormai umido, poi si allungò al suo fianco, spogliandosi. Senza indugiare oltre, si incise un polso con i denti e avvicinò lo squarcio alle labbra di Raistan, socchiudendogli la bocca per permettere al sangue di defluirvi all’interno.
Succhia, coraggio… bevi… non rimanere lì inerte come un morto…
Usò l’altra mano per premere al di sopra della ferita e aumentare il flusso in uscita, senza mai distogliere gli occhi dal suo volto, grigiastro e deturpato da innumerevoli ferite. Con sollievo le vide a poco a poco restringersi fino a scomparire, lasciando soltanto quel colorito malsano, che gli faceva venire voglia di urlare. Anche le lesioni sul corpo si stavano rimarginando. Bene. E allora perché non si svegliava?
“Dove sei, Olandese? Dove sei? Coraggio, ci sono io, qui con te. Non ti lascerò, ma tu non devi lasciare me, è chiaro? Hai ragione, sai. A non voler essere morto. Allora non esserlo. Vivi. Vivi per me. Stupido bestione, non ci provare. Ti farò molto male, se non ti svegli. Tu non sai ancora quello di cui sono capace, Raggio di sole. Non mettermi alla prova. Apri questi dannati occhi, cazzo!”
Gli sottrasse il polso e lo schiaffeggiò con violenza, più spaventato di quanto non avrebbe mai ammesso, nemmeno con se stesso.
Ed ecco che qualcosa successe. Il corpo di Raistan fu attraversato da una specie di brivido prolungato e le palpebre si sollevarono di scatto, rivelando pupille prima dilatate che poi si restrinsero fino ad assumere la caratteristica forma ad ago. Guillaume non fece in tempo a sorridere per il sollievo, che l’Olandese saltò a sedere con una rapidità che fece trasalire anche lui, contraendo il volto in una smorfia di terrore e sofferenza. Rinculò contro la testiera, guardandolo ad occhi sgranati, scoprendo i denti in un ringhio e Guillaume seppe che, se non si fosse mosso con la massima cautela, lo avrebbe attaccato. Non fece nulla, tranne alzare le mani in un gesto accomodante e sorridergli.
“Calma, Raggio di sole. Calma. Sei a casa. Sei con me. È finita. Vedi che sei a casa?”
Per un attimo, il tempo sembrò essersi fermato. Raistan continuava a ringhiargli, rannicchiato su se stesso con le braccia incrociate sul petto e le mani artigliate alle spalle, il volto che esprimeva soltanto terrore e confusione, mentre Guillaume gli parlava come avrebbe fatto con un bambino spaventato… come aveva fatto con Eloisa, tanti anni prima.
A poco a poco, gli occhi dell’Olandese persero quel velo di irrealtà che avevano conservato fino a quel momento e il suo corpo si afflosciò, senza abbandonare la posizione di estrema difesa che aveva assunto. Le mani, tuttavia, lasciarono le spalle e strisciarono sul viso fino a coprire gli occhi, per poi fermarsi tra i capelli bagnati, mentre la testa si appoggiava sulle ginocchia sollevate, come se pesasse una tonnellata.
“Ehi, Olandese… va tutto bene, cheri.”
“No. Sto per mettermi a piangere, e non voglio che tu mi veda. Lasciami solo. Vai via. Ti prego” gli rispose, con voce rauca e tremante.
Guillaume allungò una mano e gli sfiorò la testa, ma Raistan si scostò con un sibilo, come se lo avesse ustionato.
Il francese lasciò ricadere la mano. Aveva fatto tutto quello che poteva per Raistan. Lo aveva salvato, innanzitutto. Lo aveva lavato e accudito. E nutrito, naturalmente.
“Sta bene. Sarò nella stanza a fianco” annunciò, guardando la propria mano a mezz’aria, detestando vederla così vuota. “Se hai bisogno non devi far altro che chiamarmi.” In realtà non ne avrebbe avuto nemmeno bisogno. Gli sarebbe bastato desiderarlo e lui si sarebbe materializzato al suo fianco. Già. Ma prima Raistan doveva fare i conti con i propri fantasmi, e Guillaume sapeva quanto potessero essere spaventosi e forti, quanto solitaria fosse la battaglia. Si avvio alla porta camminando a ritroso. “Mi dispiace” bisbigliò.
Sarebbe stata una notte molto lunga.
7
Appena il francese fu uscito dalla stanza, Raistan permise a se stesso di lasciarsi andare. Si premette entrambe le mani sulla bocca e lasciò che quel pianto che gli serrava la gola trovasse sfogo in qualche modo.
Immagini sconnesse degli eventi che avevano preceduto la perdita dei sensi gli sfrecciavano davanti, assieme alle sensazioni che li avevano accompagnati. E c’era altro. Vedeva se stesso disteso sul terreno con quel branco di animali ad infierire sul suo corpo, come se una parte di sé fosse rimasta vigile anche dopo, e non riusciva ad impedirsi di sussultare a ogni colpo, come se li stesse ricevendo un’altra volta. Non c’era un singolo punto che non gli facesse male. Portò una mano alla schiena e trasalì per il dolore. Bastardi… maledetti… li avrebbe… no. Non avrebbe fatto proprio niente. Aveva chiuso con gli umani. Non voleva mai più provare qualcosa di simile al terrore di quella sera. Il panico che gli serrava la gola. La sensazione di essere in trappola. L’odio. Luiperò non doveva saperlo. Se ne sarebbe andato. Che se ne faceva di carne avariata? Non c’era posto per la compassione, tra di loro. Non voleva la sua pietà. Non voleva che cambiasse il modo che aveva di guardarlo. E non voleva restare di nuovo da solo. Se fosse accaduto, si sarebbe raggomitolato su quel letto e non si sarebbe alzato mai più, ne era certo.
Raggiunse le sigarette sul comodino con la mano che tremava in modo incontrollabile. L’accendino gli cadde tre volte, prima di riuscire ad accendersene una. La prima boccata gli diede una vertigine spaventosa e si sentì sul punto di vomitare, ma non voleva che accadesse nemmeno quello. Lo avrebbe sentito e sarebbe venuto a vedere cosa stava succedendo e lui non era ancora pronto a mostrargli il suo volto.
Controllo… controllati.
Si alzò dal letto, ma dovette tenersi alla parete per non crollare a terra come un sacco, con ogni muscolo che gridava vendetta. Era come avere sassi che premevano da sotto la pelle. Bubboni infetti. Ed era così debole… così debole… sarebbe bastata la spinta di un bambino per farlo finire a gambe all’aria. Barcollò fino al bagno, con la sensazione che le pareti si allontanassero per poi tornare ad incombergli addosso; sarebbe stato saggio tornare a letto e rimanere immobile, ma gli sembrava di sentirsi addosso l’odore degli Archi. Il tanfo di umido e di sporcizia. Il sangue. E la benzina. La benzina delle… delle…
“Ahhh, cazzo…” balbettò, poi entrò nella doccia, ruotando la maniglia quasi del tutto dalla parte del caldo. Bruciava. Bruciava come fuoco sulla pelle irritata, ma lo faceva sentire un po’ più pulito.
Non sapeva quanto tempo fosse passato quando finalmente lasciò il suo rifugio liquido. Doveva raggiungerlo. Dimostrargli che era sempre lo stesso e che niente era cambiato. Che valeva ancora la pena stare con lui. Tornò in camera, aprì l’armadio e ne trasse i primi vestiti che gli capitarono in mano, indossandoli senza quasi rendersi conto delle proprie azioni, poi prese un lungo, inutile respiro e uscì nel soggiorno, il volto atteggiato nella solita espressione impassibile.
Controllo.
Il francese era ancora alla scrivania, esattamente dove lo aveva lasciato. Raistan provò una bizzarra sensazione e per un attimo non seppe dire se si fosse trattato soltanto di un sogno orribile o della realtà. Andò a sedersi sul divano fissando il nulla davanti a sé, le dita intrecciate che avrebbero voluto torcersi come serpenti. Impose il controllo anche a loro.
“Che cosa stai facendo, fiorellino?” gli chiese. Parlare. Parlare sembrava una buona idea, anche se aveva la gola in fiamme.
Nulla. Guillaume non stava facendo nulla. Da quando lo aveva lasciato si era limitato a fissare il monitor senza nemmeno registrare cosa vi apparisse. Solo ora che la voce dell’Olandese lo aveva distolto da quel nulla si rendeva conto di quanto esso fosse spaventoso.
“Aspettavo” udì la propria voce rispondere, con calma ultraterrena. Sollevò lo sguardo a incontrare quello di Raistan. Si costrinse perfino a sorridere, per dimostrargli quanto fosse felice di vederlo. Lo era davvero, e allora cos’era quella paura che gli mordeva le viscere e lo rendeva ancora dolorosamente consapevole di poter provare qualcosa? “Ti senti meglio? Vuoi bere?” domandò, senza cambiare posizione, seduto rigido davanti al tavolo, la schiena innaturalmente eretta.
“Sto bene” rispose Raistan, con un po’ troppa fretta perché fosse vero. Distolse lo sguardo da quello di Guillaume perché non lo vedesse vacillare.
Altro silenzio, pesante come un macigno, e le mani in grembo all’Olandese così serrate da averne le nocche sbiancate. C’era una domanda che gli premeva appena al di là delle labbra, ma se l’avesse formulata il francese avrebbe capito quanto poco bene andava. Quindi restò in silenzio. Avrebbe voluto che Guillaume si sedesse accanto a lui. Che lo toccasse. Ma non osò chiedere nemmeno questo.
Controllo.
Forse leggendogli nel pensiero, forse solo seguendo un proprio egoistico bisogno, Guillaume si alzò con un unico movimento fluido e abbandonò la propria postazione, accostandosi al divano. Non si fermò finché non fu davanti a Raistan, in piedi. Sollevò la mano in un arco bianco e posò il palmo aperto sulla guancia dell’Olandese. “Bevi” sussurrò. Non era una proposta, non più.
Raistan non alzò gli occhi sul viso del compagno. Forse non ci sarebbe riuscito mai più. Temeva di sapere quello che pensava di lui. Voltò la testa di lato sottraendosi al contatto. “Non tutto si può riparare col sangue, De Joie. Non sempre. Comunque immagino di doverti ringraziare per avermi salvato. Solo, non iniziare a… Non lo so. Non lo so cazzo. Sto bene. Torna alla tua BCE.”
“Devi nutrirti. Hai subito molte ferite” insistette l’altro, apparentemente non scoraggiato da quella reazione. Non era vero. Il rifiuti di Raistan faceva dannatamente male. Ma non si era aspettato nulla di diverso, in effetti. Anzi, era un bene che l’Olandese si aggrappasse alla consueta scontrosità per ritrovare la strada verso se stesso. Vederlo seduto su quel divano, ferito nel corpo e con l’anima incrinata, era sempre più confortante che pensare di averlo perso per sempre. “Quanto ai ringraziamenti risparmiameli. Tu avresti fatto lo stesso” riprese, cercando il suo sguardo.
“Solo che tu non ti saresti mai ficcato in una situazione come quella, giusto? Come avrò fatto a sopravvivere 300 anni, stupido come sono?! Se questa è l’opinione che hai di me – e sono certo che lo sia – puoi anche alzare il culo e andartene. Tu non sai un cazzo di me. Non voglio la tua pietà e non voglio essere tollerato. Voglio solo che questa notte di merda FINISCA!”
Guillaume inarcò un sopracciglio e parve valutare brevemente quella tirata. Strinse le labbra come ad impedire loro di pronunciare le esatte parole che Raistan si aspettava. Parole che non gli sarebbero piaciute, beninteso, ma che già aleggiavano nel silenzio della stanza, inevitabili. “Hai ragione. Io non mi sarei messo in una situazione simile” scandì Guillaume, con tono neutro. “Troppa sporcizia, troppo squallore, e vogliamo parlare della pessima frequentazione di quel posto?” Storse le belle labbra in una smorfia disgustata.”Devi proprio scegliere meglio i tuoi amici, Olandese. Sai come si dice, dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.”
Non gli sfuggì lo scricchiolio sinistro prodotto dai denti di Raistan, serrati fino a digrignare. Prima che l’Olandese potesse ribattere riprese, alzando il dito per imporgli il silenzio. “Cionondimeno ho fatto anch’io i miei errori di valutazione. Li faccio tuttora. E anche se posso contare su una dose di autostima inversamente proporzionale alle mie probabilità di fallimento, non sono onnipotente. Nessuno di noi lo è.” Sospirò, evidentemente seccato sa quell’ultima ammissione. “Quindi la consapevolezza che la prossima volta che farò una cazzata, per usare il tuo linguaggio da trivio, potrò contare su di te, mi procura un certo conforto, Raistan Van Hoeck. Quanto a questa notte, il peggio è passato, come si dice.”
“Qui forse è passato. Un po’.” Raistan indicò il proprio corpo con l’indice di entrambe le mani, facendoli scorrere dall’alto verso il basso, poi se ne puntò uno alla tempia e vi tamburellò sopra.
“Qui, ogni volta, un pezzo della mia sanità mentale se ne va. Ahhh cazzo, non so nemmeno perché ti sto dicendo queste cose. Avevo giurato a me stesso di non farlo, quando sono uscito dalla camera. A te non interessa sentirle e io non voglio impietosire nessuno. Fammi un favore, solo uno: parliamo d’altro. Di qualunque cosa. Del tempo, della BCE, va bene tutto, ma smettila di guardarmi come se fossi un cazzo di caso umano!” Sbatté con rabbia il pugno sul bracciolo del sofà, poi si frugò nei pantaloni della tuta alla ricerca del pacchetto di sigarette.
“Non saresti un caso umano nemmeno se ti impegnassi” sbuffò Guillaume, lasciandosi cadere con indolenza sul divano accanto a lui. Per un attimo reclinò il capo all’indietro, e i suoi occhi vagarono alla ricerca di ispirazione tra le ombre del soffitto. “Ti tratterò come vorrai essere trattato, Raistan.” Ora lo guardava nuovamente, le palpebre appena socchiuse, le iridi ridotte a due schegge metalliche che catturavano le luci basse. “Avevi bisogno di me e ti ho aiutato. Mi aspetto tu faccia lo stesso. Ti assicuro che non mi aspetto altrettanto da nessuno. Per quanto mi riguarda siamo già pari” concluse, serrando le labbra.
Raistan rimase in silenzio, le volute di fumo che salivano a incorniciargli il viso segnato, poi costrinse la propria mano a raggiungere quella del francese. Più piccola della sua, ma altrettanto fredda, abbandonata sulla sua coscia. Bastò quel contatto per farlo sentire meglio. Meno solo. Meno sperduto.
“Mentre ero lì, con quei bastardi che premevano da ogni parte, ti ho chiamato. Non sapevo se potessi sentirmi, a dire il vero, ma… era bello potersi rivolgere a qualcuno. Dovrai avere pazienza con me, Fiorellino. Più di quella che hai avuto finora. In questo momento, l’idea di avvicinarmi a un umano mi fa venire voglia di urlare. Però, il fatto che tu non sia ancora uscito da quella porta mi fa ben sperare. Inoltre sono in debito con te e io non dimentico. Mai. Nel bene e nel male. Adesso, se vuoi, puoi essere tu a strapparmi la camicia di dosso. Non garantisco grandi performance, ma… mi piacerebbe. Ho bisogno di sentirmi di nuovo… me stesso. Ti va, Guillaume?”
Gli strinse la mano e si costrinse a guardarlo, poi la portò alla bocca e lacerò con delicatezza il suo polso con i canini, incominciando a succhiare.
Guillaume socchiuse gli occhi e reclinò il capo all’indietro, godendo di quel contatto intimo, unico. Era qualcosa che apparteneva a loro, e a loro soli, più intenso di qualsiasi amplesso, più viscerale di qualsiasi legame. Un’intesa di anime che passava per il sangue, goccia dopo goccia. Nessuno avrebbe potuto interromperla, nessuno avrebbe potuto spezzarla, se non loro stessi. E Guillaume non ne aveva alcuna intenzione, né avrebbe permesso a chicchessia di provarci. Sollevò una mano e l’affondò nella massa ancora umida dei capelli di Raistan.
Amico. Amante. Compagno. Suo. Parole, parole che potevano aver senso per gli umani, così ossessionati dal dover dare un nome ogni cosa. Come se imporre un nome potesse rimandare l’inevitabile, impedire alle cose di finire, ingannare il tempo. Per chi come loro si faceva beffe della morte, non erano che suoni scagliati nell’indifferenza siderale, destinati a spegnersi senza lasciare eco.
Si protese verso il collo di Raistan, posandovi le labbra in una serie di umidi baci. Poi affondò i denti nella carne, una puntura gentile, perché l’Olandese aveva già provato abbastanza dolore per quella notte, forse per un’intera esistenza. Iniziò ad accoglierlo in sé mentre Raistan lo prendeva in un amplesso senza vincitori né vinti. La notte avrebbe potuto passare loro attraverso per mille volte mille anni, ma niente e nessuno avrebbe potuto strappare l’uno dal sangue dell’altro, separare le loro anime rimescolate e avvinte, fuse in un’unica, solitaria stella danzante ai confini del tempo e dello spazio.
Guillame *_*
Ti capisco, Stefania, e condivido.