Titolo: Il gioco del castello.
Autore: Dario Villasanta.
Genere: narrativa contemporanea.
Editore: self.
Prezzo: euro 6,23 (copertina flessibile).

Recensione di Macrina Mirti.

Un fantasy tra sentimento ed esoterismo ai giorni nostri, che è anche un viaggio, di tempo e di luoghi, verso la consapevolezza di sé e l’accettazione del proprio ruolo nella società.

Qualcuno di voi conosce il gioco del castello? Nessuno ci ha mai giocato? Senza dubbio, in molti direte di no. Eppure, se leggeste il romanzo di Dario Villasanta, sapreste che è un gioco che tutti dobbiamo conoscere, perché tutti ci abbiamo giocato, almeno una volta nella nostra vita. Il gioco del castello è una metafora, rappresenta il momento in cui ognuno prende coscienza di sé, dei labirinti della propria mente e delle sue paure. Ḕ il gioco che ci permette di diventare adulti responsabili, di prendere per mano la nostra vita e di condurla là dove vogliamo, di lottare per le cose in cui crediamo, senza paura di venire sconfitti.

Credo sia questa la morale che si ricava dal romanzo di Dario Villasanta. Una storia di crescita e di formazione nel corso della quale Claudio, che ne è il protagonista, arriva a prendere coscienza di sé attraverso le prove che la vita lo costringe ad affrontare.

Da donna, ho trovato il romanzo interessante, perché apre uno squarcio sul mondo dei sentimenti al maschile. Gli uomini sono molto diversi da quelli immaginati nei romanzi rosa che vanno per la maggiore. L’uomo che non deve chiedere mai (quello Denim, per intenderci) non esiste. Ḕ un’invenzione di tutti coloro che ci propongono uno stereotipo di un certo tipo, molto simile al maschio Alpha che guida il branco.

Claudio, il protagonista de “Il gioco del castello”, è un ragazzo normale, con le sue emozioni, i suoi desideri, le sue ansie, le sue paure e proprio per questo è un personaggio vero e ben riuscito.

ATTENZIONE: DA QUESTO MOMENTO IN POI SI FA SPOILER

I fatti raccontati hanno una durata di circa vent’anni, con una lunga ellissi che va dalla decisione di sposare Arianna, all’incontro con il protagonista venti anni dopo: quarantenne solo e disilluso, con una marea di problemi da affrontare.

Arianna, la prima moglie di Claudio, è una ragazza molto particolare, che parla con le anime dei defunti e lo introduce ai segreti della magia e dei tarocchi. Agli inizi degli anni Novanta, s’incontrano, si amano, si sposano, sembra che il loro matrimonio debba durare per sempre, eppure, così non è.

Ritroviamo il nostro protagonista venti anni dopo. Ḕ un uomo ancora giovane, ma stanco e sfiduciato, che vive dando lezioni private nella sua casa in affitto. Un giorno, però, il mondo gli crolla addosso: uno sfratto esecutivo lo costringe ad abbandonare la sua dimora. Troverà aiuto e solidarietà in una serie di personaggi molto diversi da lui, un venditore ambulante e sua moglie, che lo accoglieranno nella loro casa e sfrutteranno la loro rete di amicizie in modo che possa raggiungere la Svizzera. Claudio, infatti, pensa che a Lugano si nasconda la figlia segreta avuta da Arianna, ma così non è. In Svizzera lo attende la bella Miriam che lo aiuterà a comprendere come ognuno di noi possa cambiare il mondo intorno a sé, a piccoli passi, partendo proprio da se stesso.

Il racconto si legge bene, alcune descrizioni sono belle ed è interessante, anche se alcuni passaggi non sono del tutto chiari:

1) Perché il matrimonio con Arianna finisce? Dire che lei una mattina si alza e se ne va, senza che lui faccia nulla per trattenerla, non mi pare logico;

2) Come fa Miriam a sapere che Claudio è l’uomo giusto per lei ancora prima di conoscerlo? Perché Arianna le ha raccontato via internet di un amore finito tanti anni prima? E gli scrive quella lettera così “compromettente”? Non credo che nessuna donna lo farebbe. Soprattutto una bella e ricca come Miriam. Siamo alla storia del Principe Azzurro, ma capovolta.

3) Che fine hanno fatto la magia, le anime dei morti (gli amici di Arianna), il mondo del paranormale che circondava la giovane coppia? Non credo che si possa introdurre un argomento del genere e poi lasciarlo cadere.

4) Uno stacco di venti anni è troppo lungo e il vuoto temporale non viene riempito dalle rare retrospezioni di Claudio.