Il gran giorno è arrivato. Quando la sveglia suona, sono appena le cinque e quarantacinque. La spengo subito e mi alzo quatta come un gatto. Mio marito e i ragazzi dormono ancora e non voglio svegliarli. Fuori dalla porta i mici sono già in attesa. In genere, a quest’ora ronfano, ma hanno avvertito il suono della sveglia e vogliono la colazione. Metto la macchinetta del caffè sul fuoco, verso i croccantini nelle ciotole, poi corro a lavarmi la faccia con l’acqua gelata. Stanotte, ho dormito pochissimo per l’agitazione e sono intontita. Nel frattempo, il caffè è salito. Tolgo la caffettiera dai fornelli prima che erutti in giro il suo contenuto e riempio la tazzina. Servirà a svegliarmi. Poi torno in bagno a prepararmi. Alle sei e trenta squilla il cellulare. Corro a rispondere. Non voglio che il trillo della suoneria allerti tutta la famiglia.
«Pronto?» sussurro.
«Eulalia!» strilla all’impazzata la mia amica Angelella Rosita.
«Che c’è Rosy? Ci sono problemi?» chiedo preoccupata.
«Eulalia!» ripete con aria sconvolta. «Sono dieci minuti che aspetto davanti al piazzale della scuola e non c’è ancora nessuno. Perché non c’è ancora nessuno? Spiegami il perché!»
«Perché l’appuntamento è alle sette» rispondo con pacatezza, come si farebbe con un bambino affetto da disturbi cognitivi.
«Lo so. Però un po’ di anticipo non guasterebbe» risponde piccata.
«Non tutti sono apprensivi come te, Rosy. Arrivo subito» dico, ponendo fine alla comunicazione. Andiamo bene, penso. Se Rosy inizia a dare i numeri già di prima mattina, non so se reggerà fino a stasera.
«Lia!» chiama mio marito.
«Ti porto il caffè» sorrido, affacciandomi sulla porta della camera. Mentre torno in cucina, odo rumori provenire dalla stanza dei ragazzi. Ecco, quella squinternata di Rosy ha ridestato anzitempo tutta la famiglia.
«Che succede, Lia?» domanda Luca quando faccio ritorno con la tazzina fumante.
«Devo andare» rispondo. «Rosy è agitata. Sta dando i numeri.»
«Già di prima mattina?»
«Lo sai, è ansiosa» sorrido. «Pensaci tu ai ragazzi.»
Gli do un bacio e vado via. Quando arrivo a scuola, alle sette in punto, sono accolta da un’ovazione. L’autobus è già pronto, gli alunni ci sono tutti e persino Pennacchiotti è in anticipo. Roba da non credere.
«Mancavi solo tu, Lia» mi rimprovera Rosy.
«Sei in ritardo, Eulalia» dice Giommetti puntando l’orologio.
Non rispondo. A che servirebbe?
Pennacchiotti mi guarda con aria ebete. Ḕ ancora mezzo addormentato. Lo ha accompagnato la madre che ora gli sta dando le ultime raccomandazioni. Eppure, ha quasi cinquant’anni. Gli uomini così non crescono mai.
Giommetti fa l’appello e si parte. Vorrei dormicchiare un po’, ma ogni cinque minuti devo alzarmi e fare Cerbero su pressante richiesta dell’autista che non vuole che i ragazzi stiano in piedi nel corridoio o con le ginocchia sui sedili. Inoltre, mi fa sapere che sull’autobus è vietato bere ed è anche proibito mangiare, perché, se si sporca, sono mille euro di multa. Giommetti ed io ci alterniamo nella repressione di tali attività criminose, siccome Pennacchiotti russa e Rosy soffre di mal d’auto.
Arrivati a Roma, rimaniamo per un’ora bloccati nel traffico dell’ora di punta, mentre nella parte posteriore dell’autobus è in corso una battaglia a freccette e l’autista smoccola con un matto contro gli automobilisti che non gli cedono il passo.
Ogni cinque minuti Pennacchiotti si sveglia per chiederci se siamo arrivati, mentre Rosy spenzola dal finestrino con la chiara intenzione di vomitare sui passanti.
Alle dieci giungiamo al punto di scarico (si dice così). L’autista ci avvisa che abbiamo sessanta secondi esatti per svuotare l’autobus, perché deve ripartire subito, altrimenti i vigili gli fanno la multa. Siamo in piazza San Giovanni, il pullman accosta e rovescia in tutta la fretta dalle sue viscere cinquanta ragazzini urlanti e quattro adulti sconvolti.
«Alle diciotto in punto. Stesso luogo e stessa rapidità» intima l’autista sgommando via.
«Dove siamo?» domanda Pennacchiotti che non si è ancora del tutto svegliato.
«Che facciamo?» chiede Gigliotti Guglielma.
«Dove andiamo?» domanda Benedetti Gianluca.
«Lia, sei tu che hai organizzato il viaggio» mi ricorda Giommetti.
«Professore’. Mi fanno male le scarpe» m’informa Santachiara Giorgino.
«Io c’ho una vescica sotto il piede. La vuole vedere?» dice Kaleb Amina.
«Io sono stanca. Ieri sera sono stata in discoteca fino a tardi» ci avvisa Marcantonini Maria Beatrice.
«Lia, mi viene ancora da vomitare» si lamenta Rosy.
«Fate silenzio, state tutti sul marciapiede e mettiamoci in marcia» dico io. «Da questo momento in poi si va a piedi, come specificato nel programma che vi ho dato la settimana scorsa.»
Dalla schiera degli alunni si leva un coro di protesta. Sembra che abbiano appena capito che non c’è nessun taxi privato che ci scorrazzi in giro per Roma.
La nostra prima tappa è San Clemente. Andiamo a visitare la basilica paleocristiana, il mitreo e l’antica domus sottostante. Per risparmiare i soldi della guida, mi sono studiata ben bene la lezione. Ma nessuno mi ascolta, eccetto Benedetti Gianluca, Gigliotti Guglielma, Kat il russo e il collega Giommetti.
La maggior parte dei ragazzi passa il proprio tempo in coda dinanzi all’unico gabinetto disponibile, oppure in un angolo fuori dall’ingresso a fumare una sigaretta dietro l’altra. L’alunna Kaleb Amina protesta vivacemente quando la invito a entrare. Mi dice che lei è musulmana e la sua religione le proibisce di mettere piede in chiesa, per cui rimane con il gruppo dei fumatori a spipettare come una ciminiera.
Dopo un’ora di appagante rivisitazione del nostro passato, almeno per me e per il Giom, lasciamo San Clemente per dirigerci al Colosseo. Piazziamo Rosy alla testa del gruppo e Pennacchiotti a fare il chiudi-fila, mentre Giommetti ed io, come bravi cani da pastore, rimaniamo ai lati, facendo attenzione che nessuna delle nostre pecore scenda dal marciapiede e finisca sotto una macchina. Al Colosseo, però, ci attende un’amara sorpresa: l’anfiteatro è strapieno e non possiamo entrare. Dobbiamo andare alla biglietteria dei Fori, prenotare la visita per il pomeriggio e vedere se lì ci lasciano entrare. Ci fissano l’appuntamento per le quattro, ma, nel frattempo, possiamo visitare i Fori e le basiliche imperiali. Lo spettacolo è imponente. Così bello da togliere il fiato. C’è gente venuta da ogni parte del mondo che si aggira incantata tra gli antichi ruderi.
«Devo pisciare…» l’alunna Marcantonini Maria Beatrice rompe l’incanto.
«Come?» dico io.
«Mi scappa» dice lei.
«Anche a me mi scappa» dice Kaleb Amina.
«Ma come?» chiedo. «Avete passato tutto il tempo della visita a San Clemente al bagno!»
«Era piccolo» protesta Federici Gabriella.
«Non ci si poteva girare» dice Kaleb Amina.
«E poi c’era cattivo odore» dice Marcantonini Maria Beatrice.
«È vero» conferma Rosy. «Il bagno non aveva la finestra e c’era un odoraccio.»
Sono sfinita. «Chi è che deve andare in bagno?» chiedo. Una selva di mani si alza. Decidiamo di mandare gli incontinenti e Rosy ai gabinetti che abbiamo visto accanto all’entrata. Mentre il gruppo si allontana, ci accorgiamo che è sparito Pennacchiotti. Giommetti lo chiama, ma quello non risponde. Ha il cellulare spento. Così ci dividiamo in due sottogruppi: uno capitanato da me, l’altro dal Giom. Il piano è il seguente: mentre Giommetti e i suoi vanno alla ricerca del collega scomparso, io e gli altri restiamo in attesa sotto l’arco di Settimio Severo. Fa caldo e si suda, ma i miei dieci responsabili rimangono intrepidi ad ascoltarmi mentre leggo la guida che mi sono portata appresso.
«Poi, però, mi mette la sufficienza a storia?» ci prova Matteo.
«Anche a me, vero?» chiede Santachiara Giorgino.
Comprendo il perché di tanto zelo. Nel frattempo, Giommetti telefona. Hanno ritrovato Pennacchiotti seduto al fresco, semiaddormentato tra i marmi dell’antico Senato.
«Fuori fa troppo caldo» si è giustificato alla richiesta di spiegazioni.
Ritorniamo sui nostri passi. La prossima tappa è piazza di Spagna, dove io vorrei che gli studenti ammirassero Trinità dei Monti e la Barcaccia. Il loro unico desiderio, invece, è quello di fiondarsi da Mc Donald. All’uscita, rastrelliamo Rosy e il gruppo degli incontinenti che sono ancora in fila dinanzi all’unica toilette agibile. Ḕ mezzogiorno e i ragazzi cominciano a sentire i morsi della fame.
«Dove si va?» domanda Federici Gabriella, appena emersa dal bagno.
«Andiamo a mangiare?» chiede Kaleb Amina.
«Io ho fame» dice Pellegrini Raffaele.
«Anche io» dice Santucci Stefano.
«In effetti…» dice quel babbeo di Pennacchiotti.
«Va bene. Andiamo a piazza di Spagna. Mangiamo lì» dico io.
«Come si va?» domanda Giommetti.
«A piedi» dico io.
«A piedi?» si alza l’ululato di protesta.
«Sì. A piedi» ripeto.
«Sei matta, Lia?» dice Rosy.
«Mi fanno male le scarpe» ricorda Santachiara Giorgino.
«Io ch’o una vescica sotto l’alluce» protesta Kaleb Amina.
«Io pure» m’informa Alibrandi Giovanni.
«Io sono stanca» avverte Marcantonini Maria Beatrice.
«E a me viene ancora da vomitare» insiste Rosy.
«Perché non prendiamo la metro?» suggerisce il Giom.
La metro? Alla sola parola il sangue mi si gela nelle vene. «Ma ti rendi conto di quello che dici? Come li controlli nella metro? Bisogna anche cambiare linea. Ce ne perdiamo come minimo una decina.»
Ma è troppo tardi. Il danno è stato fatto. Vedo il gruppo dei ragazzi, con Rosy in testa, schizzare verso la stazione del Colosseo. Li seguo trafelata. Bisogna comprare cinquantaquattro biglietti e i soldi ce li ho io, nascosti nel marsupio. Sulla banchina dei treni, Giommetti ed io ci piazziamo lungo la linea gialla, a sorvegliare che nessuno dei nostri la oltrepassi. Quando il treno arriva, nonostante il mal di piedi imperante, i fanciulli si gettano all’arrembaggio, incuranti delle proteste di quelli che vorrebbero uscire dai vagoni e che, invece, rimangono bloccati al loro interno. Una volta dentro, poi, si attaccano alle maniglie e alle spalliere dei sedili starnazzando come galline inseguite dalla volpe. Mi vergogno da morire. Mi allontano lentamente pretendendo di non conoscerli ma, quando siamo a Termini, mi tocca pure urlare: «Scendete tutti!»
Sulla banchina, il Giom ed io diamo una controllata. Sembra che il conto torni. Ci sono pure Pennacchiotti e Rosy.
«Per di qua! Seguitemi!» urla il terzo collaboratore del dirigente, agitando in alto la felpa a mo’ di bandiera. «Direzione Ottaviano!»
Saliamo sulla scala mobile incrociando le dita. Quando siamo sulla banchina della linea A, la confusione è tale che non c’è modo né di fare la conta né l’appello.
«Controlliamo a piazza di Spagna, Eulalia. Non ti preoccupare» dice il Giom.
«Se lo dici tu…» rispondo sconsolata.
Quando alla fine riemergiamo dal ventre buio del sottosuolo, è ormai l’una. Raduniamo i ragazzi e li contiamo. Sono quarantasei. Benedetti e Gigliotti della prima e Spigarelli e Francescato della terza mancano all’appello. I più bravi e responsabili delle due classi sono spariti. Il guaio è che sono scomparsi pure Pennacchiotti e Rosy. Stiamo per andare al più vicino posto di polizia, quando il cellulare squilla. È la Francescato che ci dice di non preoccuparci. Il fatto è che i due gagliardi docenti avevano preso la direzione Anagnina, per cui loro quattro sono corsi a recuperarli. Ci raggiungono al Mac.
Mentre scortiamo la comitiva verso l’agognato pasto, Giommetti mi si avvicina, livido in volto: «Che razza d’idea ti è venuta, Eulalia? Perché ti sei portata dietro quei due lavativi?»
«Dovevamo essere in quattro, ad accompagnarli.»
«Sì, ma quei due impiastri sono pericolosi.»
«Erano gli unici due disponibili» tento di giustificarmi.
«Già…» lo sento smoccolare tra i denti.
Mi faccio la solenne promessa che non porterò mai più le classi in gita. Tanta fatica per organizzare e controllare che tutto funzioni come un orologio, tante ore di sonno e di lavoro sprecate. Per cosa? Il mio masochismo mi angoscia. E non ho neppure le gocce di Lexotan a portata di mano.
Rimaniamo al Mac fino alle 15,00. C’è folla e confusione. Rosy protesta perché il cibo e i bagni non sono di suo gradimento. Pennacchiotti si addormenta su di un trespolo. Quando dico che è ora di andare al Colosseo, scoppia la rivolta. Metà dei ragazzi, a sentir loro, ha i piedi gonfi e piagati da vesciche sanguinolente. Mica avranno le stimmate come Padre Pio?
«Si va lo stesso» dico agli ammutinati. «E questa volta a piedi.» Non ho nessuna intenzione di perdermi altri derelitti nelle viscere della metropolitana. Le proteste sono così vibranti che tutta la gente nel locale si volta a guardarci. Pazienza, tanto questa è una città grande e qui non ci conosce nessuno.
«Lei non può fare questo! Non è legale» ulula Federici Gabriella.
«Io ho bisogno di andare al pronto soccorso» strilla Kaleb Amina. «Ho i piedi che sanguinano.»
«Fa’ vedere» dico. Ma lei rifiuta di togliersi le scarpe.
Giommetti e la Francescato della terza tirano giù Pennacchiotti dal trespolo e lo riportano nel mondo dei vivi a suon di pizzicotti e di schiaffetti. Kat il russo gli schizza acqua gelata sulla faccia. Usciamo dal locale tra rimbrotti e mugugni.
«È uno schifo!» protesta Marcantonini Maria Beatrice. «Io volevo venire a Roma per fare compere. Che me ne frega del Colosseo!»
Qualcuno approva, qualcun altro applaude, ma nessuno ha il coraggio di ribellarsi apertamente.
«Non vi porterò mai più da nessuna parte. Giuro» li minaccio.
«Il fatto è che voi persone anziane avete più energia. Noi giovani ci stanchiamo presto» tenta di spiegare Bircolotti Francesco.
«Adesso ti strozzo. Così vedi quanta energia ho» dice Giommetti.
«Siete un branco di lavativi smidollati» dico io.
«Lia, vado un minuto in bagno» dice Rosy.
«Io quella lì la uccido» mugugna Giommetti.
«Ci fermiamo di nuovo?» domanda Pennacchiotti.
«Già che ci sono uccido pure te» incalza il Giom.
«Professore’, ma l’omicidio è legale?» domanda Federici Gabriella.
«Dipende» rispondo. «In alcuni casi può esserlo.»
Dobbiamo averli convinti perché, fino al Colosseo, nessuno osa più lamentarsi né chiedere soste per il bagno.
L’anfiteatro Flavio è spettacolare, non me lo ricordavo così bello. Davanti a noi c’è un gruppo di turisti indiani che freme e sussulta di meraviglia e ammirazione a ogni piè sospinto. I nostri studenti, invece, sono tutti in fila davanti ai bagni, salvo poche eccezioni.
«Chiama l’autista, Eulalia. Torniamo a casa» mi dice Giommetti quando sono le sei. «Tanto, con questi qui, non c’è proprio niente da fare.»
Non appena saliti sul pullman, i moribondi ritrovano le energie sopite.
«Fateli smettere!» urla l’autista. «Questi distruggono tutto.»
«Vuol dire che pagheranno i danni» rispondo.
Arriviamo nel piazzale della scuola che sono appena passate le nove. Rosy corre via perché deve andare in bagno. Pennacchiotti, invece, è atteso dall’anziana madre che è venuta a prenderlo. Gli diciamo che può andare. Giommetti ed io, invece, rimaniamo per ben quarantacinque minuti in attesa del padre di Alibrandi Giovanni. «Professore’, non può venire» si giustifica. «Non ha ancora finito di cenare.»
“E la nostra, di cena?” ci chiediamo il Giom ed io. Chiamo mio marito e gli dico di non aspettarmi. È sorto un problema. Quando alla fine il signor Alibrandi arriva, non solo non chiede scusa per il ritardo, ma nemmeno saluta. Monta il rampollo in macchina e se ne va.
«Vaffanculo, stronzo» lo omaggia il Giom.
«Che mestiere del cavolo» dico io.
«Se rinasco, faccio il ladro e il truffatore» dice Giommetti.
«Hai ragione» rispondo. «Almeno ottieni maggiore considerazione sociale.»
OoO
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Un racconto esilarante… per chi legge ahahahahah
Davvero, però, chi cavolo ve lo fa fare? Tutti quei sacrifici, quegli sforzi per un branco di ragazzini a cui non frega assolutamente niente di quello che sono andati a visitare.
Grazie per aver condiviso con noi questa nuova “pagina” di quotidianità ai confini della realtà.
Patrizia
Già… per chi legge. Se lo dico a Macrina, ti insegue con un bastone.
Vero, Perry Potter. Ai confini della realtà.