Il senso comune vuole che, di norma, si recensisca di un autore un libro nuovo. A me invece piace tornare indietro nel passato, disseppellire dalle memorie del tempo qualcosa che metta in relazione lo scrittore con il suo stile precedente, se in effetti di stile si può parlare. Di sicuro, quello di Maurizio Landini è stile pieno, un coacervo di scelte e meccaniche sintattiche ben precise e sempre adeguate ai propositi che si prefigge l’autore. Inossidabile, resistente a quelle intemperie che, di contro, minano l’individualità di chi compone versi e che, immancabilmente, rimane impassibile di fronte all’avanzare delle mode e al declino di un’era (i padri che vedo sono giovani; / i figli sulle spalle vestono uguali / ai padri).

Lo zinco getta le basi per una poetica destrutturante, che fa a brani il sentire comune di una poesia più attenta alla forma e a un apice lirico che, il più delle volte, sfocia in un atto manieristico e denso di autoreferenzialità.

Come si scrive poesia oggi? A questa domanda, per certi “versi”, Landini oppone un testo che promuove un momento di riflessione, non quella autoriflessività che caratterizza la Poesia, ma una nuova finestra che si affaccia nel vuoto dell’esistenza, fatta di logori ricordi, di strutture fugaci, di un’apparente illogicità che invero porta, o meglio forza, il lettore a prendere una posizione, a operare un processo di scomposzione concettuale, riassemblando il verso in un qualcosa di nuovo, un costrutto artificiale, e perché no, anche artificioso (il tempo / imbianca la casa / dal mio sopracciglio sinistro:// casa per casa io guardo / bussare e cadere/ pezzi vissuti d’intonaco); ingegnoso quanto lo è la struttura presente, dislocata non solo semanticamente ma anche a livello euritmico, per questo mettendo preposizioni e avversativi in luoghi strategici, sempre aderenti al contesto che si vuole esprimere.

Una poetica sospesa nel tempo, nell’alea della migliore interpretazione possibile. Landini procede per immagini concise, con una precisione quasi chirurgica, quelle sono e quelle bastano in una necessità quasi esistenziale di sovradensificarle, ma senza esasperazione. C’è mobilità del pensiero in queste sue poesie, senza che egli sondi fin oltre il baratro dell’Abisso. Il poeta si trattiene, non osa, a volte sembra accontentarsi di ciò che c’è sul foglio senza un atto di ribellione. Il poeta si arrende di fronte al peso dell’esistenza, innanzi a un labile ricordo (“Cosa ci siamo persi” / in questa città oltre / all’amore. Dov’ero / mentre sparivamo // tutti, uno dopo l’altro / eppure la città spariva: / era mancato un attimo // avevo il viso sconosciuto, / riposto senza cura / in qualche sole fermo).

Lo zinco, di Maurizio Landini, Marco Saya Edizioni, 2012.

Maurizio Landini (Ancona, 1972) ha pubblicato la sua prima silloge, Permanenze lontane, nel 2011, per Edizioni della Sera.

L’anno dopo è uscita la plaquette Esacerbo. 20 poesie immature (in e-book per Maldoror Press). Dorsale e Lo Zinco sono state pubblicate con Marco Saya Edizioni.

È creatore e curatore del progetto di poesia e immagine Versigrafìe.

Gli articoli di Fabrizio Corselli