Apriamo l’anno nuovo con un racconto che Mariangela Camocardi ha regalato a tutte le sue lettrici affezionate.
Arlena era scappata dalla finestra, scendendo nel parco grazie al glicine che negli anni si era inerpicato fino il terrazzino della sua camera. Poi era sgattaiolata da un cancelletto celato da una spalliera di rovi arruffati che i giardinieri trascuravano da sempre. Quelle siepi erano come un filo spinato creato da madre natura e rappresentavano un deterrente per gli intrusi, ma lei conosceva un varco per evitare di ferirsi. Nessuno si spingeva mai fino a quella zona che si estendeva oltre le serre se non per ripulire il terreno dagli sterpi e dagli arbusti selvatici che vi proliferano. Era stato necessario forzare la serratura con una forcina, poi la giovane si era incamminata verso nord. Era sua intenzione raggiungere la stazione di posta più vicina, salire su una diligenza – la prima in partenza – e allontanarsi dalla dimora di Gervasio, zio/padrone che dettava legge come se lei fosse una sua proprietà.
Aveva del denaro e, impiegandolo bene, le sarebbe certamente bastato per pagarsi il viaggio e anche per trovare un stanza ammobiliata dove abitare inizialmente. La destinazione non era importante, pensò: contava piuttosto sfuggire a Gervasio e ai suoi progetti matrimoniali. No, non avrebbe sposato un tizio qualsiasi imposto dal venale fratello di suo padre. Non bastasse l’averla relegata in collegio quando era rimasta orfana, non bastasse affondare le mani nel patrimonio di famiglia, quell’uomo rivendicava pure il diritto di determinare il futuro dell’unica nipote che avesse, gestendo a proprio capriccio la fortuna che lei aveva ereditato. In precedenza, da figlio cadetto, Gervasio aveva usufruito di una modesta rendita con cui c’era poco da scialare. Il guaio consisteva nel fatto che possedimenti e depositi bancari erano vincolati, ergo li amministrava il tutore finché Arlena non avesse compiuto venticinque anni. Lei non era affatto d’accordo, assolutamente no, in particolare sulla questione di prendere marito! Mamma e babbo si erano sposati per amore, erano stati coniugi felici e lei pretendeva altrettanto, se e quando si fosse imbattuta nell’anima gemella. Su tale dettaglio lo scontro con Gervasio era stato durissimo, ma non era arretrata di un millimetro. Doveva forse scendere a compromessi, cedendo alle barbare imposizioni di quel mostro egoista, arido e insensibile che, una volta di troppo, si era dimostrato Gervasio Rispoli di Calvadera? Neppure morta si sarebbe assoggettata a dire “sì” a un individuo che poteva rivelarsi vecchio e depravato, compiacendo la volontà di un despota come suo zio. Fossero maledetti lui e la sua insaziabile avidità! La liquidava come un fastidioso ingombro di cui sbarazzarsi, e con una misera dote per di più. Era oltraggioso!
«Gli farò vedere di che pasta sono fatta» sibilò al nulla che la circondava, mentre il gelo, di attimo in attimo, la intirizziva sempre di più.
Purtroppo era stata avventata nel mettere in atto quella fuga. Natale si approssimava, l’inverno infieriva con temperature glaciali e la nevicata che incombeva da giorni aveva optato per quel tardo pomeriggio per dare inizio alla danze. Svignarsela così alla cieca, senza organizzare un piano di fuga più accurato, era stato un gesto impulsivo che rischiava di ritorcersi contro di lei. Arlena esitò: doveva proseguire o era opportuno fare dietrofront, consegnando la sua vita a Gervasio affinché ne facesse merce di scambio con l’estraneo che la voleva prendere in moglie?
Arrendersi?
Giammai!
Il fiato che si raggrumava in nuvole di vapore davanti alla bocca, Arlena premette la mano sul fianco dolorante. Procedeva a rilento sotto i fiocchi che sfarfalleggiavano nell’aria gelida, scarsamente coperta da quel mantello leggero afferrato di furia, prima di calarsi dal balcone. Gervasio l’aveva rinchiusa in camera come punizione per essersi ribellata alla sua autorità, ma lei, approfittando della temporanea assenza del tutore, si era dileguata senza frapporre indugi. L’indumento era insufficiente a ripararla dal gelo pungente. Era tutta un brivido e le scarpine da casa, bagnate e pesanti, le rendevano faticoso arrancare nella fanghiglia della strada.
L’oscurità lambiva il crepuscolo e non avrebbe resistito a lungo all’aperto, la giovane ne era conscia. Prendere in pugno il suo destino era un conto, assiderare ben altro. Dove poteva trascorrere la notte? Non ne aveva idea. Si guardò in giro, speranzosa di scorgere la luce di qualche casolare per chiedere asilo durante le ore che la separavano dal mattino successivo. L’indomani si sarebbe rimessa in marcia all’alba, ammesso e non concesso che i servi di Gervasio non l’avessero riacciuffata nel frattempo. Perché quel mostro sarebbe rientrato per cenare e apriti cielo nell’accorgersi che la nipote era sparita! C’era da scommettere che la caccia alla fuggitiva sarebbe scattata subito, e lei non voleva farsi riprendere. Arlena affrettò il passo e decise di inoltrarsi nella campagna che si allargava ai lati della via. Lì era troppo in vista e se lo zio avesse sguinzagliato i lacchè alle sue calcagna, difficilmente avrebbe potuto evadere di nuovo. Avrebbe dormito in un fienile, se ne vedeva uno. No, non aveva alcuna intenzione di deporre le armi e issare bandiera bianca, si ripromise, stringendo i denti per impedire che battessero come nacchere.
Se la sarebbe cavata, accidenti a Gervasio e ai tiranni come lui!
L’ottimismo scemò al calare del buio: non solo aveva perso l’orientamento, non solo si era storta una caviglia e avanzare sul terreno era un tormento, ma era allo stremo della resistenza fisica. Il nevischio si era infittito e non vedeva nulla. Quanto si era allontanata dalla dimora di Gervasio? si chiese sfinita, crollando sulla neve bagnata come un sacco vuoto. Un gradevole torpore la invase… Il buio era assoluto e trasalì quando una zampa le toccò il braccio. Arlena si rese conto che era un cane perché le leccò la faccia, abbaiando nel silenzio di quell’incubo bianco.
«Che c’è, Yuma?» esclamò una voce mascolina.
Il cane latrò e lei socchiuse un occhio: un bagliore giallastro oscillava nelle tenebre, e appena oltre, notò il profilo di una sagoma che si avvicinava.
«Che diavolo hai trovato, Yuma?» L’uomo mosse la lanterna, proiettando la luce sul fagotto steso a terra. «Ma è una donna, dannazione!»
Yuma guaì, ripassando la lingua umida sul viso di Arlena.
«Chi sei?» Inquisì il nuovo arrivato. «È da incoscienti andarsene in giro in una nottata del genere! Questa è la mia tenuta e se il cane abbaiando non mi avesse segnalato qualcosa di anomalo, attirando così la mia attenzione, non saresti sopravvissuta al freddo.»
Lei aprì le labbra per spiegare, ma dalla gola non le uscì alcun suono. Il volto dello sconosciuto era nascosto dall’oscurità e oltre il fascio luminoso della lampada Arlena vedeva soltanto una forma indistinta. Non ne aveva timore, però… Richiuse gli occhi, riassalita dalla sonnolenza.
«Non dormire!» Lui la colpì con degli schiaffi per farla rinvenire e borbottò parole rabbiose davanti all’assenza di reazioni da parte di lei.
In effetti, le membra di Arlena erano ormai diventate insensibili e la giovane quasi non percepì l’impatto di quelle dita maschili che la percuotevano, ma solo un lieve formicolio sulla pelle. Il torpore le impediva di muovere la bocca, e del resto non è che avesse granché voglia di conversare. A un tratto si sentì sollevare da terra come un fuscello e la morsa del gelo si attenuò a contatto di quel corpo: il calore che si sprigionava da esso si trasmise al suo.
Se non altro non morirò all’aperto, considerò vagamente tra sé un istante prima di scivolare tra le nebbie dell’incoscienza.
Quando si destò, provò un intenso benessere, escludendo l’indolenzimento alla caviglia. Lì per lì non riconobbe la stanza dove aveva dormito finché, di colpo, la memoria si aprì e nella mente affluirono le immagini della sera precedente. Si era afflosciata nella neve, esausta, poi era sopraggiunto un cane e il padrone l’aveva soccorsa con tempestività. Probabilmente non era assiderata grazie al provvidenziale intervento di quell’animale che l’aveva individuata a dispetto delle tenebre. Arlena si avvide d’improvviso della presenza di qualcuno e, alzando il capo dai cuscini su cui era stata adagiata, provò un tuffo al cuore notando l’uomo seduto davanti al fuoco del camino. I folti capelli bruni brillavano nel bagliore delle fiamme e il profilo incisivo si stagliava in controluce come quello di una medaglia.
Arrossì. Diamine, sotto le coperte era completamente nuda!
Poi lui si girò e Arlena restò folgorata.
Era forse capitata nella reggia del principe azzurro?
«Chi siete?» bisbigliò, mentre una strana emozione la faceva fremere.
Lui si girò, bello come un sogno che accarezza lo sguardo. Era accigliato. «Tu, piuttosto?»
Oddio, cosa poteva mai dire ora? Che era fuggita dalla casa di suo zio? No, doveva ricorrere alla fantasia e cavarsi di impaccio in modo convincente, se voleva sfuggire a Gervasio. «Sono una… un’istitutrice.»
«Davvero?» Dalla voce di lui trapelò una sfumatura dubbiosa.
«Sì, mi sono presentata per un colloquio di lavoro in una casa di questa zona e dopo essersi congedata sono stata sorpresa dalla neve… non c’è voluto molto a smarrire l’orientamento.»
«E sei stata assunta?»
«Come faccio a saperlo? Mi hanno semplicemente detto che mi avrebbero comunicato tale decisione dopo le Feste, capite, per cui mi stavo dirigendo alla stazione di posta per tornare al mio paese» inventò di sana pianta. Non voleva rivelare la sua identità a un estraneo, per quanto fascinoso fosse. Non poteva escludere che conoscesse Gervasio, e che di conseguenza la rispedisse dallo zio quel giorno stesso. Essere riconsegnata a lui e doversi poi piegare alla sua dispotica volontà, la sgomentò. Obbedirgli significava doversi maritare con chissà chi, e per lei era una prospettiva inaccettabile. Mi sposerò solo per amore, si ripeté con ostinazione, altrimenti resterò felicemente zitella.
«Hai appetito?» L’uomo si era accostato al letto e la guardava con fare indecifrabile. I calzoni di fustagno marroni gli fasciavano cosce dai muscoli forti; la camicia di flanella chiara, sopra la quale portava un panciotto nero, gli delineava il torace asciutto.
Arlena rammentava la dura consistenza di quel petto maschile, quando era stata raccolta dalla neve. Sembrava un gentiluomo di campagna. «Mangerei un lupo…» ammise con sincerità.
Lui fece un sorriso divertito.«La cameriera ti servirà subito una colazione abbondante, così ti sfamerai.»
«Grazie.»
«Appena la tua caviglia sarà in condizioni di reggerti, ti farò accompagnare alla stazione di posta del borgo più vicino. Immagino che vorrai trascorrere il Natale in famiglia…?»
«Oh, sì! E vi ringrazio ancora» balbettò lei in tono sollevato.
Nei quattro giorni che seguirono Arlena ebbe spesso la curiosa impressione di essere finita una dimensione dai contorni irreali. Fuori la neve aveva trasformato il giardino in un luogo incantato e dentro, in quella stanza calda e confortevole come un bozzolo, lei fluttuava in uno stato di grazia mai sperimentato prima. Se lui era in giro per la tenuta, si scopriva impaziente di rivederlo e spiava il suo rientro dalla finestra. Quando era in compagnia di Pietro, ogni suo sguardo che indugiava su di lei le suscitava un tumulto di emozioni tale da colmarle il cuore di ineffabile gioia.
Ci si poteva innamorare di qualcuno in maniera così fulminea?
Evidentemente sì. Se lei avesse avuto la possibilità di scegliere il proprio marito ideale, avrebbe voluto lui, l’uomo che le aveva salvato la vita e con cui desiderava condividere ogni cosa, oltre ai sentimenti. Pietro cenava con lei ogni sera: Arlena non poteva raggiungerlo in sala da pranzo a causa della caviglia lussata, perciò veniva lui nella sua camera. Seduti davanti al fuoco, condividevano il buon cibo servito loro dagli efficienti domestici, dialogando dei più svariati argomenti. Le ore volavano e una sera l’aveva persino baciata. Arlena adorava il tocco della sua bocca, e abbandonarsi alle deliziose sensazioni scatenate da quell’intimità era stato qualcosa di estremamente spontaneo, per lei.
Non si era spinto le effusioni platoniche, anche se lei avrebbe voluto. Non aveva mai provato nulla di simile per nessuno, e ne era ammaliata. Benché sprovvista di ogni esperienza sentimentale, Arlena aveva compreso tuttavia di esseri innamorata di Pietro perdutamente.
Nel mezzo di quell’idilliaco stato di cose, il sogno si era a un tratto infranto riportandola alla realtà. Quel mattino Pietro l’aveva infatti informata che, essendo lei ormai ristabilita, l’indomani l’avrebbe fatta accompagnare alla stazione di posta.
«I tuoi parenti vorranno festeggiare il Natale con te.»
Lei avrebbe voluto restare con lui tutta la vita ma era consapevole di non poterlo fare. Si era presentata come una povera istitutrice, mentre Pietro era il visconte Antinori di Montalto, figurarsi! Non c’era un avvenire per loro, e dicendogli di essere la nipote di Gervasio non solo si sarebbe attirata il disprezzo di Pietro per avergli mentito, ma l’avrebbe riportata lui stesso da suo zio. Per cui, a quel punto, preferiva un addio. Certo, si erano scambiati baci e carezze, ma ciò non comportava che provasse qualcosa per lei.
Arlena fu invasa dalla tristezza quando la carrozza partì. Pietro l’aveva salutata la sera precedente, scusandosi di non poterlo fare l’indomani per via di altri impegni. Lei si era impappinata nel ringraziarlo per l’ospitalità, senza osare fissarlo. Se lo avesse fatto, lo sapeva, gli avrebbe confessato di amarlo e non voleva apparirgli patetica. Una delle domestiche le aveva portato in camera un mantello foderato di pelliccia, omaggio del visconte, e stivaletti adeguati a muoversi nella cattiva stagione. Per orgoglio Arlena li avrebbe rifiutati, ma erano un suo regalo e questo rappresentava ai suoi occhi una tentazione troppo forte per potervi resistere.
“Non lo rivedrò mai più” si dolse mentre il veicolo procedeva attraverso un filare di pioppi a velocità contenuta. La strada tagliava in due quel nebbioso tratto di campagna pavese e, cullata dal monotono sferragliare di ruote, Arlena serrò le ciglia per trattenere le lacrime. Anche il cuore piangeva per la rinuncia, ma non c’era altra alternativa del doversi rassegnare.
Sobbalzò contro la spalliera del sedile quando d’improvviso la vettura si arrestò. Diamine, erano giunti già a destinazione? Si accinse a scostare la tendina che copriva il finestrino, ma qualcuno la precedette e spalancò di colpo lo sportello.
Arlena si sporse e lo stupore la fece impietrire.
«Bentornata a casa, mia cara» l’accolse Gervasio in tono freddo.
«Non mi sposerò solo per farvi il favore di togliermi dai vostri piedi, zio, non illudetevi.» Ribadì cocciuta lei, sfidandolo apertamente.
«Invece mi obbedirai, nipote, e sarai cortese con il tuo fidanzato durante questa cena di vigilia che ci attende.» Decretò l’altro senza scomporsi.
«No!»
«Non abusare della mia pazienza, ti avverto.»
«Sennò che farete?»
«Non costringermi a passare alle contromisure perché non sarei tenero. Avrei dovuto punirti per le azioni insensate e la preoccupazione che mi hai procurato, da quella incosciente che sei, e non ringrazierò mai abbastanza il visconte Antinori per averti rimandata da me, appena sei stata in grado di reggerti.» Gervasio controllò che la chioma color acciaio fossero in ordine, e sulla faccia dai lineamenti marcati guizzò una smorfia di scherno. Gli occhi grigi, identici a quelli della nipote, scintillavano come acciaio.
Parole che furono una crudele stilettata al cuore per Arlena. Pietro l’aveva tradita peggio di Giuda. Lo odiava e mai lo avrebbe perdonato. Lo shock di quel voltafaccia l’aveva talmente inebetita da non reagire al cospetto di suo zio. Come aveva potuto lasciarsi raggirare in quel modo da chi giudicava un gentiluomo?
«Allora, nipote, vogliamo scendere in salotto? Abbiamo ospiti e non mi pare educato farli attendere.» La riscosse la voce autoritaria di Gervasio, intrufolandosi nei pensieri di lei. «Posso complimentarmi per il tuo aspetto? Sei bellissima questa sera.»
«Posso forse esimermi?» Il tono di lei suonò aspro.» La cameriera le aveva arricciato i capelli castani dai riflessi ramati e il viso non rivelava affatto il tormento interiore e la collera per la propria impotenza.
«Temo di no.»
«Non vi vergognate di farmi tutto questo?»
«Dovresti ringraziarmi per essermi dato la pena di trovarti un consorte degno del nostro nome, anziché protestare. Per di più è la vigilia di Natale e vorrei che offrissi un’espressione meno lugubre agli invitati. Qualcuno potrebbe pensare che sono il tuo aguzzino, anziché il fratello di tuo padre, che Dio abbia in gloria la sua anima.»
«E non lo siete, dopotutto? Mi costringete a sottostare ai vostri ordini, senza curarvi della mia felicità.»
Gervasio abbozzò un gesto irritato. «Non approvo questa tua mancanza di collaborazione, e deploro altresì quell’aria da vittima che ostenti. Se è un tentativo per deprimere il tuo fidanzato, inducendolo a ritirare la proposta di matrimonio, perdi solo il tuo tempo in sforzi inutili.»
Lei si morse il labbro e non replicò, mentre scendevano lo scalone ricurvo con la passatoia rossa. Per le feste Gervasio faceva decorare la casa in modo superbo, lei doveva riconoscerlo. Si era anche superato in generosità ordinando alla sarta una serie di abiti elegantissimi e accessori raffinati per ogni capo che avrebbe sfoggiato.
“Che Natale orrendo mi si prospetta” pensò avvilita, posando controvoglia le dita sul braccio dello zio.
L’uomo alto e atletico che li attendeva in salotto dava loro le spalle, quando varcarono la soglia. Osservava un dipinto che riproduceva Glenda, la madre di Arlena, e Arlena stessa da bambina. Sorridevano entrambe, in quel quadro che aveva cristallizzato un periodo spensierato e sereno della sua infanzia.
Poi l’uomo si voltò e il cuore di lei smise di battere.
Che ci faceva Pietro a casa di Gervasio?
«Cara, le presentazioni sono superflue, immagino» esclamò con giovialità lo zio, sospingendola verso Pietro.
Paralizzata dalla sorpresa, Arlena si limitò a un assenso del capo.
Lui le fece un inchino, prima di posarle un bacio sulla mano.
«Be’, non dai il benvenuto al tuo fidanzato?» Lo sollecitò Gervasio.
Fidanzato…? Era Pietro il marito che Gervasio aveva scelto per lei?
«Non opprimete vostra nipote, barone, vi prego. Sono sicuro che Arlena e io troveremo la maniera di intenderci… o almeno è ciò che spero» esordì Pietro, sorridendole amabilmente.
Solo per amore, esultò lei, ricambiando il sorriso.
E l’amore l’aveva proprio di fronte allo sguardo.
Che futuro meraviglioso le era stato preparato dal destino…
Ecco, adesso sì che era Natale!
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