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Dafne segue da giorni Denis. Lui fa finta di non saperlo. Finché una notte avviene l’incontro. Come finisce? Leggete…

Lo osservava da quell’angolazione, mentre ballava con una brunetta procace e provocante. Scrutava con attenzione i loro gesti, il movimento delle loro mani, la distanza dei loro corpi. Non sembrava esistere una traccia di intimità tra loro, eppure Dafne si sentiva infastidita da quello spettacolo, se non addirittura gelosa. Stati d’animo del tutto estranei al suo carattere.
Erano giorni che lo seguiva, ma più che un’ossessione fingeva di considerarlo solo come un dolce passatempo, una facile distrazione che la riparava dall’onda d’urto che aveva travolto la sua vita negli ultimi mesi. Non trovava strano che, questa volta, l’avesse visto ballare con una bellissima ragazza al posto di starsene a bere con gli amici o di chattare al cellulare in disparte, facendo finta di ignorarla.
Si passò la mano tra i capelli, un groviglio di dreadlocks rosa che in teoria avrebbe già dovuto attirare l’attenzione del ragazzo, ma che probabilmente non erano di suo gradimento. “Troppo estrema” pensò Dafne di se stessa: quei capelli – accompagnati da un rimarcato eyeliner scuro a orlarle gli occhi a mandorla e a risaltarne il verde chiaro dell’iride, i vestiti trasandati e aggressivi, i numerosi piercing alle orecchie e il vistoso tatuaggio sul braccio – dovevano averlo intimorito, se non addirittura disgustato.

All’improvviso, le parve che gli occhi scuri di lui puntassero in alto, proprio nella sua direzione, e che la bocca del ragazzo trattenesse un sorriso. Subito Dafne si nascose dietro il pilastro di cemento, visibilmente infervorata da quel fugace contatto visivo. L’aveva vista? Sperava di no: la delusione di non parlargli sarebbe stata meno sofferta. Anche se da quando aveva saputo di sua madre si era ripromessa di smettere di fumare, non tardò ad accendersi una sigaretta. “L’ultima”, si promise come sempre, godendosi ogni boccata come se fosse il primo vagito dopo la nascita.
Appena la porta antincendio si aprì con un tonfo, distraendola dai suoi pensieri, scorse Brigitta avvicinarsi con due birre tra le mani.
«Eccoti! Dove cavolo eri finita?» domandò l’amica, imperlata di sudore dopo aver saltellato per un’ora in mezzo alla pista. Si avvicinò scrutandola con attenzione.
Dafne detestava quello sguardo, come se l’amica tentasse ogni volta di capire cosa non funzionasse in lei. Non fiatò quando la bionda le rubò la sigaretta dalle dita, fece una boccata, per poi gettarla sul pavimento umido e concludere quella dimostrazione con un’occhiata di rimprovero.
«Lo avevi promesso a tua madre!»
«So che hai ragione, ma io non sono una persona ragionevole quando non ci sei tu! Tu non ci sei, io fumo!» rispose Dafne, bevendo un sorso della sua birra.
Uno scappellotto la colpì alla nuca, facendola lamentare.
«Chi è il tipo che fissavi con tanto interesse?»
«Nessuno di importante!»
Dopo tutte le bravate che aveva combinato durante i suoi ventidue anni di vita, Dafne si ritrovò ad arrossire ancora, notando l’incredulità dell’amica.
«Uno a cui ho fatto un lavoro!» rispose, sentendo già la mancanza della nicotina.
«Che lavoro?»
«Ho creato le grafiche per il sito web del suo studio di architetti» scrollò le spalle, fingendo disinteresse ed evitando lo sguardo di Brigitta. Finì la birra in una lunga sorsata, gettò la bottiglia nella spazzatura e si sistemò la tracolla della borsa. «Me ne vado a casa! Sto da mia madre questa notte e domani mattina devo alzarmi presto!»
Brigitta le fece schioccare un bacio sulla guancia ma, prima che Dafne riuscisse ad allontanarsi, la prese per un polso fissandola con preoccupazione. «Tu stai bene?»
Un’altra scrollata di spalle, le lacrime trattenute. «Non sono io che mi opero, Brigi!»
Quella risposta acida fece irrigidire l’amica, ma ciò non le impedì di abbracciarla con forza. Dafne accettò quel gesto d’affetto con il solito impaccio, per poi scendere dal tetto del locale e immergersi nella notte.

Si diresse a passo svelto verso la fermata ma, dopo aver atteso al freddo per più di venti minuti, decise di incamminarsi verso casa, nonostante fosse l’ultima cosa che avrebbe voluto fare. Ogni passo era un pensiero da evitare, una lenta danza verso l’abissale paura del buio. Verso l’ignoto che c’è oltre il domani. Chi sarebbe stata sua madre dopo? Sarebbe stata ancora in grado di comunicare con lei? Era una donna caparbia, ma di poco polso, e lei era sempre stata la figlia ribelle e indomita, quella che se n’era andata di casa a diciotto anni, subito dopo il diploma, quella che non sosteneva gli esami perché preferiva cercare l’indipendenza economica dei piccoli lavoretti. Quella che, al contrario di suo fratello Alex, non l’aveva accudita durante i mesi di chemioterapia quando avevano trovato il tumore alla lingua e le metastasi al fegato e ai polmoni. Una situazione difficile che comportava decisioni difficili, decisioni che lei non era stata in grado di prendere.
Inanellava passi rapidi come i pensieri che urlavano nella sua testa, fino a sciogliersi in una folle corsa. Sgambettò per cinque minuti, finché i polmoni non si contorsero, spezzandole il fiato. Il suo cuore sobbalzò non appena si accorse della macchina che stava decelerando alle sue spalle. Quando si voltò, non ci mise molto a riconoscere quell’auto, così si fermò e attese che il guidatore abbassasse il finestrino.
«Ehi!» le gridò, facendole andare il cuore in gola.
Non avrebbe voluto farsi vedere da lui nel picco massimo della sua vulnerabilità, con quella faccia terrorizzata e sconvolta.
«Tutto bene?»
Annuì, senza fiatare.
«Sali, ti do un passaggio!»
Erano settimane che tentava di approcciarlo al di fuori del contesto lavorativo. La prima volta che lo aveva incontrato, aveva fatto molta fatica a concentrarsi su ciò che aveva da dire il suo socio o a mettere insieme due parole per formare una frase di senso compiuto e darsi un’aria professionale. Durante lo sviluppo del progetto, poi, solo frustranti contatti a distanza. Nell’ultimo mese, però, si erano incontrati casualmente a tre concerti: era sempre stata piuttosto abile a seguire i movimenti delle persone su Facebook.
Ora che aveva terminato il progetto e che quello sarebbe stato l’ultimo evento indie rock della stagione, probabilmente non si sarebbero più visti: almeno avrebbe potuto godere della sua compagnia fino a casa.
Senza neanche rendersene conto, si avviò verso la sua auto e salì.
«Ehm… grazie!» rispose, accomodandosi.
«Perché correvi? Qualcuno ti ha dato fastidio?»
Scosse la testa, arrossendo per quell’inaspettato interessamento. «Avevo solo fretta di tornare a casa» mentì spudoratamente.
«Dove ti porto?»
«Lingotto.»
«Perfetto, anch’io abito verso il Lingotto!»
Dafne sorrise a quella scoperta. Quando Denis decise di far partire l’mp3 dei Mumford & Sons, un altro segno di soddisfazione le illuminò il volto.
«Ti piacciono i Mumford & Sons, Dafne?»
«I primi due album sono favolosi, il terzo è bello ma meno d’impatto, non so se mi spiego.»
Una schiera di denti dritti e bianchissimi comparve in mezzo al velo scuro della barba, e ciò la mandò in confusione e la fece arrossire ulteriormente. Sul lavoro ricordava un ragazzo fin troppo serio e concentrato, che non distribuiva sorrisi con facilità. Ora le sembrava di aver scoperto un lato segreto del suo carattere di cui non aveva idea, come se avesse atteso di essere da solo con lei per rivelarlo.
«Com’è che ti vedo ovunque in questi giorni?»
Sentì lo scatto di un accendino e un improvviso odore di fumo. In risposta alla domanda, scrollò le spalle senza rivolgergli lo sguardo.
«Ehi, sto parlando con te!» Il tono improvvisamente deciso la fece voltare verso di lui. «Vuoi provarci con me o vuoi uccidermi?»
«Ucciderti, per smembrare il tuo corpo e vendere i tuoi organi!» Dafne cominciò a sentirsi tremendamente in imbarazzo.
«È un traffico redditizio?» domandò lui divertito.
«Molto!»
«Buono a sapersi!»
Le sorrise di nuovo, svoltando in una strada più illuminata. Il silenzio li intrappolò in una morsa sottile, interrotto solo dalle concise indicazioni per raggiungere la casa di sua madre. I pensieri erano di nuovo assordanti nella sua testa: quanto avrebbe voluto dimenticare tutto, anche solo per poche ore, vivere come se il domani non fosse già scritto, assaporare la notte con un ragazzo conosciuto a un concerto senza il peso delle preoccupazioni.
«Andavano bene le ultime grafiche?» domandò Dafne per spezzare quel vuoto.
«Ti prego, non parliamo di lavoro, è ancora domenica!»
La ragazza si voltò di nuovo verso il finestrino, come per cercare le parole sui palazzi immersi nella notte torinese. Ogni semaforo l’avrebbe portata un passo più vicino alla fine di quella serata; il cuore era un grancassa che le martellava nel petto, come se il suo tempo stesse per finire. Fino a qualche giorno prima aveva una speranza, poi il responso dei medici era stato tremendo: si poteva solamente allungare di poco la sua vita, ma non era il caso di sperare nella guarigione. Quella sarebbe stata la nuova realtà di sua madre: ospedali, medici, farmaci, operazioni, cicli di chemioterapia e visite logopedistiche. Una rivoluzione per le sue giornate e quelle dei suoi figli. Suo fratello era subito entrato nella parte del figliol prodigo, dimostrandosi disponibile a ogni cosa per aiutarla; lei invece – la figlia più piccola, la più immatura e viziata – aveva tergiversato, e alla fine aveva demandato le responsabilità più grosse al fratello. Era risaputo che lei non fosse affidabile, non lo era mai stata. Era sempre stata un fallimento su tutti i fronti: con i professori, con gli amici, con i ragazzi e soprattutto con sua madre e suo fratello. Più volte le avevano dato della pazza, più volte aveva acceso violenti litigi con la famiglia. Si sentiva un’incompresa e questo non faceva che acuire il suo isolamento e la sua totale mancanza di responsabilità.
«La tua fermata» affermò Denis, accostando di fronte a un vecchio palazzo arancione.

Cominciò ad andare in affanno mentre fissava quella struttura fatiscente dal finestrino.
«Beh, che aspetti? Non volevi tornare a casa?»
“Volevo? No, per niente!”
Com’era solita fare quando era nervosa, Dafne prese a grattarsi le nocche. Riprodotto in loop nella sua testa un solo pensiero: fuggire, allontanarsi da quella prigione.
«No.»
«No?»
«Voglio venire a casa tua» mormorò in un soffio, senza avere il coraggio di guardarlo.
Il silenzio fu sostituito da una lunga e densa risata. Un sospiro concluse il tutto. «Perché vuoi venire a casa mia?»
«Perché non solo voglio ucciderti, smembrare il tuo corpo e vendere i tuoi organi, ma anche derubarti!» rispose Dafne con finta allegria.
Denis rise ancora, facendole credere di avere delle doti da comica della tv.
«Dimmi la verità! Ti ho vista così spesso perché sapevi dove andavo?»
«Vero. Sapevo che saresti andato a quei concerti e volevo conoscerti meglio. Ora mi porti a casa tua?»
Seguì un altro sospiro diffidente. «Sei sicura?»
“No, ma non ho tempo per pensarci!” «Sì.»
«Ehi!» la richiamò Denis, in tutta probabilità esasperato dai suoi modi. Le pizzicò il mento tra l’indice e il pollice per farla voltare verso di sé.
All’improvviso, si accorse di avere gli occhi umidi, e ciò che era cominciato come un gioco finì per diventare una necessità. L’urgenza con cui gli aveva scagliato addosso la sua proposta probabilmente traspariva da tutto: dalle parole, dalla voce, dai movimenti, dagli occhi. La sua bolla stava scoppiando, rivelando l’unica realtà che non voleva vedere: sua madre che non era più in grado di parlare e di mangiare come una persona normale, sua madre che aveva bisogno di lei.
«Voglio passare la notte con te, è tanto difficile da capire?» si spazientì.
Si accorse dell’espressione sorpresa sulla faccia del ragazzo, ma tentò di rimanere impassibile, nonostante il gorgo di disperazione in cui si sentiva scivolare.
«Devo farti davvero un brutto effetto, però!»
Dafne si staccò dalle sue mani per tornare a guardare fuori. «Di solito, quando faccio questa proposta a un ragazzo, non ci metto neanche cinque minuti a ritrovarmi senza vestiti addosso» borbottò con stizza verso il finestrino appannato.
«Forse di solito non lo proponi come se fosse una questione di vita o di morte, ma come qualcosa che ti va di fare e basta!»
Sospirò. Dafne si prese il suo tempo, prima di voltarsi col più smagliante e falso dei sorrisi. «Mi piacerebbe venire a casa tua!»
«Oookay…» rispose Denis, ancora poco convinto.

Riaccese il motore e in meno di cinque minuti furono nel suo modernissimo appartamento, un buco di quaranta metri quadri ma strategicamente ben organizzato in un open space che comprendeva cucinino e soggiorno, corredato da un bagno minimale e una camera con un futon matrimoniale al posto del letto. Quello non era certo il tipico appartamento da universitario, ma il monolocale di un uomo con un lavoro stabile, degli obiettivi e un gusto ben definito nell’arredamento. Appena entrati, Denis la fece accomodare sul divano vintage anni Sessanta e le offrì un amaro per riscaldarsi. Quando si sedette accanto a lei, le sembrò che il respiro le venisse a mancare. Improvvisamente, tutta la sua audacia scivolò via come l’amaro che ora le stava riscaldando la gola. Posò il bicchierino sul tavolino di fronte a loro ripensando alle vere ragioni che l’avevano condotta lì. La tensione tra loro riverberava nella stanza, l’elettricità era palpabile e quasi spaventosa.
Si sollevò di scatto, come se si fosse bruciata sfiorandolo per sbaglio. Mai aveva provato una paura simile con un ragazzo. Era sempre stato tutto un gioco per lei, una sfida, una gara di sguardi, di movimenti, di parole. Le piaceva provocare con le battute, fino allo sfinimento. Credeva che, la maggior parte delle volte, i ragazzi la baciassero più per tapparle la bocca che per una reale attrazione, ma ciò non le interessava affatto. Le piaceva il sesso, le piaceva essere dominata così come dominare, le piaceva passare la notte fuori casa con un ragazzo sempre diverso. Tanti volti, tante mani, tanti vestiti a terra. Nessun legame, nessun ricordo, solo il vuoto della mente, solo il presente, solo per una notte. Era libera, nessuno doveva legarla a sé con il ricatto di una promessa: non pretendeva promesse, e non ne avrebbe fatte.
Passeggiò nervosamente per la stanza, affiancandosi a una parete tappezzata di vecchie fotografie. Il soggetto era quasi sempre una bellissima ragazza dai capelli ricci e castani e il viso simpatico. «La tua ragazza?» domandò, in imbarazzo.
«La mia ex.»
In quelle immagini, lui sembrava molto diverso: più spensierato, meno corrucciato, più scavezzacollo.
«Quanti anni avevi qui?» chiese, afferrando una foto di lui con quelli che sarebbero potuti essere i suoi genitori.
«Diciotto…»
«E ora quanti anni hai?» domandò, continuando a fissare l’immagine.
Il ragazzo si alzò rapidamente e le prese la cornice dalle mani per rimetterla al suo posto, un velo di inquietudine a irrigidirne i bellissimi tratti. «Che cos’è? L’ora del test?» chiese inaspettatamente infastidito.
«Non sono venuta qui per farti un test…»
«E perché sei qui, allora?»
Questa domanda fu il lancio della sfida: il segnale che lei attendeva e che le fece capire di poter ottenere ciò che in quella notte aveva bramato fin dall’inizio. “E non solo per questa notte”, gridò il suo cuore intorpidito, ma lei lo zittì in un baleno, sfoggiando un altro sorriso provocante e incredibilmente finto. «Lo sai benissimo perché sono qui!»

Si sollevò sulle punte per assaporare quelle labbra umide e carnose. Denis non rispose subito, la fissava con diffidenza e distacco, lasciandosi baciare lentamente. Ma le mani con cui gli stringeva la t-shirt in segno di possesso probabilmente lo fecero capitolare. Chiudendo gli occhi, l’afferrò per le braccia, spingendola contro la parete alle sue spalle. La lingua si insinuò nella sua bocca calda, che lo accolse con una bramosia inaspettata, un’improvvisa vampata in un camino assopito. Le mani di Denis non tardarono a farle scivolare il giacchetto anni Settanta oltre le spalle, lasciandolo cadere sul pavimento. Un intreccio di mani, dita, bocche. Un’esplosione di emozioni nuove e, per questo, da lei mal governate. La sorpresa di scoprirsi tanto complici li fece bloccare, lui con le mani tremanti a stringerle il volto, Dafne ancora aggrappata alla sua t-shirt. I loro occhi si incontrarono a metà strada, in un muto dialogo di incredulità, sofferenza e comprensione reciproca. Stupore, attrazione, paura e… amore: questo era ciò che si stavano comunicando in silenzio.
Ripresero quella danza di seduzione in mezzo alla stanza, ruotando più volte su loro stessi. Disarcionarono le scarpe dai talloni senza mai fermarsi e usarono le mani solo per spogliarsi. Si strattonarono i capelli, ingoiarono i reciproci respiri, e poi piombarono sul materasso del futon. Caddero sulla superficie morbida come se si fossero gettati insieme da una rupe, ritrovandosi in quel misero istante da cui non si torna più indietro, quello che separa il nulla dal tutto, la vita dalla morte, la luce dal buio. A cavalcioni su di lui, si mosse lasciva e conturbante sopra i suoi fianchi. Con gli occhi chiusi, si reggeva al suo petto robusto.
«No… non così, apri gli occhi, Dafne!»
Come se avesse ricevuto quell’ordine da un’entità superiore, un’eco lontana proveniente dal cielo, obbedì e lo guardò. Capì che, da quell’istante, la sua vita sarebbe cambiata per sempre. No, l’inutile sequela di giornate prima di quella notte non era vita, ora lo sapeva. In un solo sguardo aveva intuito più cose di se stessa di quante ne avesse mai capite in ventidue anni. Niente era stato per lei più significativo di ciò che accadde in quel misero istante momento: dita intrecciate, due corpi incastrati e improvvisamente immobili, occhi negli occhi a guardarsi ancora, a comprendersi senza comprendere tutto. Denis cominciò a guidarla nei movimenti, trattenendola dai fianchi e rallentandone il ritmo. Poche spinte a ondate lentissime la portarono sull’orlo del burrone, ma lui si fermò di nuovo. Nonostante lei si trovasse in una posizione di dominio, era Denis a guidare quella danza perversa e spietata. In un istante, scambiò le posizioni, e lei chiuse gli occhi.
«Guardami, ti prego, non smettere mai di guardarmi… Per favore!»
Dafne spalancò le palpebre, ritrovandosi intrappolata in un’altra morsa. Eppure non si era mai sentita così libera e viva come in quel momento come tra le sue braccia, schiacciata da quel corpo possente e ammaliata dai suoi occhi scuri e luminosi.
«Sei bellissima, te l’hanno mai detto?»
Stupita, lei fece un cenno di diniego scuotendo la testa, un movimento appena abbozzato. No, nessuno le aveva mai detto che fosse bellissima, nessuno l’aveva mai guardata in quel modo. Mai! Era sempre lei a lottare per dare piacere o per prenderselo, sempre una competizione, sempre un confronto con l’altro o con se stessa, sempre lei o sempre lui, ma mai noi. Da quando aveva sedici anni si era unita a tanti uomini, ma nessuno l’aveva mai fatta sentire completa come Denis: due corpi in un solo corpo, due anime in una sola anima.
Con un ultimo affondo, finalmente si lasciò andare, in un grido sofferto e inaspettato. Conficcò le unghie nella schiena di Denis, che ora aveva cominciato a muoversi con più energia. A quel gesto di disperato erotismo lui la raggiunse, digrignando i denti.
Terminò quel lungo rantolo facendo convergere le proprie labbra con quelle di lei. L’uomo rimase immobile per alcuni minuti, riprendendo fiato e accarezzandole il volto sconvolto. «Wow, è stato…»
«Strano…» concluse per lui.
Sentì i suoi occhi su di sé e si impose nello sguardo un distacco che in quel momento non le apparteneva affatto. Si sentiva frantumata in mille pezzi e ora stava tentando in tutti i modi di raccogliere i cocci per indossare di nuovo la maschera da donna consapevole e non mostrarsi come una ragazzina sconvolta dai sentimenti. Ma un suo bacio a fior di labbra la fece ripiombare nella prigione delle emozioni devastanti che l’avevano colta poco prima. Un brivido. Un sospiro. Un tremore. Erano le tracce inconfutabili di un’emozione che nulla aveva a che fare con il freddo meccanicismo del sesso occasionale. Non poteva più reggere quella situazione. Così, con una risata, si liberò dalle sue braccia e fuggì in bagno.

«Non mi hai voluto dire la tua età!» commentò, una volta ricomposti. Si erano avvolti nelle lenzuola, Denis l’aveva fatta accucciare tra le sue ginocchia, la sua schiena contro il petto di lui, in un intreccio fin troppo intimo per due persone che si conoscevano appena. Le braccia e le gambe del ragazzo l’accoglievano senza imbarazzo, le labbra di lui distribuivano piccoli baci sulle sue esili spalle e ai lati del collo.
«Ne ho ventisei, nessun segreto!» sogghignò.
«Quando te l’ho chiesto prima, mi sei sembrato turbato…»
«Non era per la domanda, ma per la foto che stavi guardando!» confessò in tono amaro.
Dafne si voltò per osservare il suo volto, serio e sofferente.
«Sono i tuoi genitori?»
«Erano i miei genitori… sono morti in un incidente quando avevo diciannove anni.»
Il respiro le mancò e lo guardò sgomenta. «Mi dispiace, non devi parlarne per forza!»
«Non c’è molto da dire. Da un giorno all’altro mi sono ritrovato solo. E, se non fosse stato per mia zia, non so come sarei finito! Lei si occupò di tutto, io cominciai l’università. La borsa di studio mi aiutò con le spese, ma cercai subito un lavoro. Sono stato fortunato a trovarlo nello studio di un mio professore. È andata… bene, direi!» sorrise, gli occhi si illuminarono di una commozione appena accennata.
«Mia madre ha un tumore alla lingua» mormorò Dafne in un soffio.
«Cazzo!» non riuscì a trattenere il commento. La strinse più forte, lei sollevò il mento per appoggiare la nuca sulla sua spalla.
Sospirò, per riflettere sulle proprie parole. Era stanca di tutto, della sua vita, di quella di sua madre, di una situazione che non poteva cambiare. «Domani la porteremo in ospedale, io e mio fratello. Dopo svariati cicli di chemioterapia per ridurre il tumore, ora possono finalmente asportarlo.»
«Non deve essere uno scherzo, è un’operazione invasiva, vero?»
«Sì. Devono togliere molto tessuto, potrà mangiare solo cibi liquidi, dovremo frullare tutto. Dovrà imparare a comunicare con gli altri in maniera differente. Inoltre, ha delle metastasi al fegato e ai polmoni e non… non so quanto le rimanga da vivere» la voce le si spezzò, ma riuscì a trattenere le lacrime.
«Mi dispiace.»
«Dovrò rivoluzionare la mia vita. Finora mio fratello si è occupato di tutto, ma lui ha una moglie e un figlio piccolo… non posso approfittarne oltre.»
Avvertì le labbra del ragazzo scoccarle un tenero bacio tra le scapole, le mani scivolare sul suo corpo esile e privo di difese. Si sentì vulnerabile, nuda non solo nel corpo. Dovette trattenersi dal raccontare oltre e tramortirlo di chiacchiere. «Scusa, non sono abituata a questo.»
«Cosa intendi?»
Scrollò le spalle. «Questo… cioè chiacchierare dopo il sesso.»
«Non sei abituata?»
«Diciamo pure che non l’ho mai fatto, ecco.» chiarì, imbarazzata.
Lui la fece voltare per guardarla in viso. «Non hai mai parlato dopo il sesso? È il momento migliore… ci si sente rilassati, senza più quella stupida tensione che impone di non essere totalmente se stessi. Ci si sente leggeri, liberi.»
Era proprio così che si sentiva lei in quel momento. C’erano solo loro due, senza schermi a dividerli.
«Quanti anni hai?»
«Perché lo vuoi sapere?» lo schernì, mostrandogli il dito medio.
Denis cominciò a farle il solletico. «Non fare l’antipatica, sono in una posizione perfetta per la vendetta!»
Dafne si divincolò, scalciando e tentando di liberarsi dalla sua presa, ma si ritrovò invece di nuovo sotto di lui, schiacciata dal suo peso e stuzzicata sui fianchi dalle sue dita energiche. Gridò, si agitò, strisciò verso il bordo del letto, ma non riuscì a liberarsi di lui. Infine rise, come non faceva da mesi. Un squittio acuto che fece ridere anche lui. Urletti e risate invasero la stanza, insieme alla voce carezzevole di Bon Iver che lui aveva sapientemente avviato dalla docking station dell’I-pod. Poi di nuovo il silenzio, lo schiocco dei baci, gli ansiti dell’eccitazione che cresceva incontrollata, i gorgoglii della gola, rumori segreti di un’intimità non ricercata eppure trovata. Altri risolini dopo gli ultimi spasmi, come se quelle sensazioni strabordarti fossero tanto inaspettate da risultare ironiche nelle loro vite di sofferenza. Lui aveva passato gli ultimi anni a tentare di raggiungere di nuovo quel controllo che aveva completamente perso dall’istante in cui era rimasto solo. Un giovane con responsabilità da adulto, un adulto nel corpo di un giovane. Lei, trainata da una brezza vivace, vagava credendo di essere libera, ma perseguendo e difendendo quella libertà come se fosse un obbligo autoimposto, trasformandola in una prigione, pronta ad abbondonare il proprio cuore dentro una lastra di ghiaccio. Eppure alla fine si erano incontrati, conosciuti, amati.

Quella notte parlarono di tutto, soprattutto delle loro relazioni passate, la ragazza storica di lui e i folleggiamenti sconsiderati di lei. Lui rideva delle sue battute, dei suoi aneddoti divertenti e delle figuracce raccontate. Di fronte a quello sconosciuto si sentì, per la prima volta dopo molto tempo, come una bambina spensierata, capace anche di prendersi un po’ meno sul serio. Denis invece prendeva tutto molto sul serio, la faceva riflettere. La sua vita le era d’esempio: un ragazzo che aveva dovuto crescere in fretta, che non avrebbe più avuto la possibilità di farsi abbracciare dalla propria madre. Lei una madre ce l’aveva ancora e non l’abbracciava mai. Non le aveva più detto che le voleva bene, non l’aveva più guardata negli occhi, quelle iridi azzurre velate di una luce ormai opaca. Temeva il suo giudizio, ma non si era mai soffermata a pensare al fatto che quegli occhi potessero comunicarle anche l’amore incondizionato verso una figlia. Lo aveva dato per scontato, eppure sapeva che non tutti i genitori erano disposti a concedere amore ai propri figli. Aveva visto la madre di Brigitta schiaffeggiarla. La cosa era passata inosservata, come se non fosse stata né la prima né l’ultima volta. Sua madre non l’aveva mai fatto, mai. Aveva invece cercato più volte un contatto con lei, soprattutto negli ultimi mesi, ma Dafne si era sempre ritratta. Non voleva guardarla negli occhi, non voleva che sua madre intuisse che non c’era più nulla da fare. Non voleva che sua madre leggesse quella tragica verità sul suo volto, o che lo percepisse dai suoi abbracci. Era un segreto tra lei e suo fratello.

«Ehi… dove sei finita?»
Dafne tornò al presente grazie a quella voce soffice e assonnata che le scivolò nell’orecchio, come un sussurro erotico e allo stesso tempo colmo di tenerezza. La delicatezza delle mani di Denis era un balsamo per la sua anima, la dolcezza di quei baci una trappola per il suo cuore.
«Sono qui…» bisbigliò socchiudendo gli occhi per godersi tutte le sensazioni che lui le stava regalando. Fece un suono simile a un mugolio.
«Senti, senti… non sei molto abituata alle coccole, vero?» la prese in giro.
«Le coccole si fanno ai cuccioli!»
«Tu sei un cucciolo, un bellissimo cucciolo che deve solo spiccare il volo o imparare a camminare sulle sue zampe. Un cucciolo selvaggio e spaurito.»
«Farò finta di non aver sentito, o dovrei darti una lezione!»
A Denis sfuggì un’altra risata. «Quanti anni hai?»
Tentava di ubriacarla di baci, per spronarla a rispondere.
«Venti… d-due!»
«Quindi stai cedendo alle mie coccole… Sono davvero bravo.»
Scosse la testa, ma i suoi occhi si chiusero, obliati dal desiderio. Si allungò sulla schiena, come un gatto che si stiracchia dopo un sonno profondo, mentre le labbra di Denis assaporavano il suo corpo nudo.
«Quindi non hai mai chiacchierato dopo il sesso, non hai mai goduto delle coccole del tuo compagno… quali altre moine romantiche ti sei persa?»
I suoi baci ebbero l’effetto sperato.
«Ballare!» rispose lei senza pensare, abbandonandosi completamente.
«Ballare? Non hai mai ballato con un ragazzo?» domandò incredulo, tra un bacio e l’altro.
«Ballare… tipo… un lento!» riuscì a spiegare. Quel fiato caldo sulla sua pelle la stava facendo andare in estasi.
Lui si fermò a guardarla. Improvvisamente, Dafne sentì freddo nei punti del corpo che, fino a un istante prima, erano stati attraversati dalla scia calda della sua lingua. Il ragazzo si spostò vicino allo stereo e, appena la canzone “Holocene” sussurrata dalla carezzevole voce di Bon Iver immerse la stanza semibuia in un’atmosfera sospesa, un paio di mani le afferrarono i polsi. Così Dafne si ritrovò in piedi, abbracciata a lui. Due corpi nudi che ciondolavano insieme, sballottati da una lieve brezza. Galleggiavano sulla superficie dell’acqua dopo la burrasca che si era abbattuta sulle loro vite. Facevano giravolte, ridevano e sfioravano le labbra con le labbra. Era una danza lenta, un dondolio inesorabile, un’emozione intensa e piena, quella di Dafne, come il suo cuore traboccante traboccava di una gioia mai provata.
La spossatezza del sesso non fermò il loro fluttuare, anzi li caricò di un’energia inesauribile e vitale, che li accompagnò fino al giorno seguente, quando le fioche luci dell’alba invasero la stanza.

In silenzio si rivestirono, in silenzio la riportò a casa sua. Ma non c’era spazio per la tristezza, c’era solo la speranza per un domani ancora da scoprire, l’oscurità della morte come la luminosità della vita, l’ineluttabilità del tempo che passava ma che bisognava vivere, ogni secondo, ogni minuto. Si baciarono a lungo e si guardarono per un istante infinito, terribile e bello. E poi, come sull’orlo di sogno, si separarono, al traboccare crudele riversarsi della luce mattutina.
Un piede dopo l’altro, percorse i gradini che la portarono al terzo piano del suo palazzo. Aprì la porta di casa cercando di non far rumore ma, appena varcò la soglia, trovò le luci già accese. Sospirò, il cuore che, contrariamente alle altre volte, non si appesantì al passaggio attraverso l’entrata. Cercò sua madre tra quelle stanze dal sapore antico, nulla di più diverso dal tocco innovativo e caldo dell’appartamento di Denis. La trovò in camera da letto, seduta sul bordo del materasso nel tentativo di infilarsi una calzamaglia color carne. Un gesto quotidiano, eppure così faticoso per un corpo esile come il suo, rigonfio di farmaci e sformato dal cortisone. Senza neanche rivolgerle un saluto, le si avvicinò, inginocchiandosi di fronte a lei, che le sorrise distante. Le mani di Dafne presero subito il comando, accompagnando il collant fino alle cosce magre, poi aiutandola ad alzarsi per raggiungere il punto vita. La madre le si aggrappò addosso per non cadere, lei la trattenne dai fianchi, facendole interpretare quel tocco come un abbraccio. La donna ricambiò, con una commozione a malapena trattenuta. Senza scambiarsi una parola, si strinsero con forza, dopo tanti anni che non lo facevano più. Le parole sarebbero state troppo riduttive per l’impeto inatteso di un tale sentimento tenuto segreto per così tanto tempo. Era il legame indissolubile e viscerale che si instaurava tra una madre e una figlia, nulla di più semplice e naturale. Come quello tra un ragazzo e una ragazza che, in una notte autunnale, erano stati colti impreparati dall’amore.

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Elle Eloise, è nata a Cuneo nel 1981 ed si è laureata al D.A.M.S. (Dipartimento Arte, Musica, Spettacolo) di Torino. Dopo aver lavorato come segretaria organizzativa per alcuni Festival di Cinema di Torino, dal 2010 si occupa di formazione aziendale. Durante il periodo universitario ha partecipato con il suo vero nome alla pubblicazione di alcuni saggi e articoli di critica sul cinema e sulle serialità televisiva. Nel febbraio 2016 ha pubblicato il suo primo libro da Self Publisher, intitolato “Vite di passaggio”, il primo della trilogia romance new adult “How to disappear completely”. A luglio ha pubblicato il secondo libro della serie, “Vite in sospeso”. Ora l’intera trilogia è in mano alla Delrai Edizioni per la ripubblicazione. A novembre 2016 uscirà il primo romanzo di “How to disappear completely” con il titolo “Apri gli occhi e comincia ad amare”.

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