Romantico e spietato, Giacomo Verri. Romantico nel cogliere gli aspetti più dolci in uno dei periodi più spietati, e spietato per la sua capacità di smitizzare e rivalutare tutto quanto possa sembrare scontato.
La sua scrittura non è semplice, lo dice lui stesso. L’autore di Partigiano Inverno e Racconti partigiani non scrive per svago, né di svago. Ma per dovere verso sé stesso, oltre che verso la nostra memoria, alla quale tributa con i suoi libri ben più che un semplice omaggio, bensì un messaggio per l’oggi e per il domani di chi resistente lo è ancora. Ma questo ce lo spiega lui stesso.
Giacomo, descriviti in due righe come persona, così per presentarti a chi ci sta leggendo.
Papà di due bimbi, insegnante, lettore in tutti gli interstizi del tempo. Mi voglio far sorprendere, sempre, dall’imprevedibilità della nostra strepitosa lingua.
Hai scritto di partigiani e Resistenza (‘Racconti partigiani’ è l’ultimo suo libro, nda). Chi sono i partigiani di oggi a livello ideale e qual è la vera Resistenza degli anni duemila?
I resistenti di oggi sono coloro che si oppongono a una democrazia degenerata, una democrazia in cui tutto è permesso, anche calpestare il tuo vicino, anche fregartene degli altri, anche sputare sulla Costituzione. Le donne e gli uomini che fecero la Resistenza volevano una società del Desiderio, cioè di quella forma nobile di relazione con gli altri, che crea legami forti, stabili, duraturi, che vuole l’altro per volergli bene, per capirlo, per viaggiare con lui nello stesso destino, per comprenderne anche le differenze. La nostra invece è una società, per molti aspetti, irresponsabile, inappartenente, alla ricerca di intensità effimere da consumare al più presto per sostituirle con altre intensità altrettanto effimere.
Scrivere per te è già una forma di Resistenza contro quello che non ami della società di oggi, o cos’altro?
Certo. A partire dal mondo dell’editoria: io scrivo – e non lo dico con bruto orgoglio, ma spero con una pacata oggettività – in contrasto alle mode imperanti; i miei testi non sono né veloci, né facili da leggere. Esattamente il contrario di ciò che il mercato richiede.
Il tuo genere di narrativa può permettersi di seguire i cambiamenti di umore e la ‘pancia’, o ti inchioda piuttosto a una ferrea razionalità della memoria?
Non credo che la memoria si nutra di sola razionalità; anzi, essa sta molto più nella pancia di quanto si creda. Ecco perché molto spesso i ricordi più straordinari, nel bene o nel male, quando ci salgono in testa ci hanno anche appena scaldato o gelato il cuore. Io credo che i miei momenti narrativi migliori siano quelli che si situano a mezza via tra la pancia e il cervello.
Mi citi Italo Calvino quando dice che l’eroismo ‘non è sovrumano’. Credi comunque sia molto raro al giorno d’oggi?
La rarità va di passo con l’eccezionalità della vita. La società del benessere – entro la quale siamo più o meno inchiodati come bestie in cattività – ci procura una pratica dell’esistenza spesso deludente, priva di aggetti. L’eroismo avviene – uso intenzionalmente questo verbo, come fosse un accadimento – in stato di eccezionalità, ovvero in quei frangenti periclitanti in cui l’essere umano porta ai limiti le proprie forze (che non sono mai sovrumane)
Di cosa senti che stiamo perdendo il senso nella nostra società?
Il senso della fatica, che è sempre un maturo senso del tempo. Mi accorgo, anche a scuola (dove insegno, e dove ho imparato che per ottenere qualcosa occorre faticare), che l’insegnamento è sempre più posto sotto il segno del divertimento. Ma io sono convinto che la straordinaria avventura di imparare qualcosa, nella vita, passi attraverso la fatica, la stanchezza, il sudore, a volte la rabbia. Quel che resta, dopo, è qualcosa di davvero importante.
Come concili la frenesia e la freddezza dei giorni nostri con il romantico, seppur tragico, periodo bellico che segnò il nostro Paese?
L’epicità, il romanticismo sono sentimenti e modi di concepire il nostro rapporto con la realtà che vanno bene per gli atti gloriosi di una guerra. Poi è stato giusto passare su un altro tono, assestarsi su un altre tinte. Mi viene in mente il Calvino, e con lui l’Amerigo Ormea della Giornata d’uno scrutatore, quando scrive: “La democrazia si presentava ai cittadini sotto queste spoglie dimesse, grigie, disadorne; ad Amerigo a tratti ciò pareva sublime, nell’Italia da sempre ossequiente a ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento; gli pareva finalmente la lezione d’una morale onesta e austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore, per questa sua umile contabilità, ed erano caduti in polvere con tutte le loro frange e i loro fiocchi”. Il tragico romanticismo delle donne e degli uomini di Resistenza è stato agito in vista di una morale onesta, poco appariscente, che in effetti contrasta con la frenetica esuberanza dei nostri giorni. Come poter conciliare le due cose? Non si conciliano: occorre resistere affinché lo smargiasso edonismo di chi gode non soffochi irrevocabilmente il tenace amore di chi desidera.
Cosa ti piacerebbe scrivere di diverso un domani, se dovessi farlo?
Un romanzo in cui si esalta la felicità, senza renderla stucchevole. Forse è impossibile scriverlo.
C’è qualcosa che cambieresti in qualche tuo libro e perché?
In Partigiano Inverno, ora, tempererei alcune pagine in cui la lingua è troppo ‘giocata’. Perché? Per togliere qualsiasi sospetto di gratuità.
Te la senti di fare una promessa a chi ti legge?
Mi sento di promettere che i miei libri non servono a far passare il tempo. Piuttosto, fanno sentire il tempo che è passato, a volte la malinconia, spesso la rovina dei sogni.
Penitenza se dovessi disattenderla?
Non scriverò mai più di Resistenza.
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