Mi è capitato molte volte di essere invitata a partecipare a un GDL (gruppo di lettura) e altrettante volte non ho partecipato. Perché – diciamocelo – spesso i GDL scelgono titoli che vanno per la maggiore, quelli in cima alle classifiche, quelli di cui tutti parlano. Non so come vi regolate voi, ma io preferisco l’approccio “esplorativo” e mi aggiro nella selva oscura delle millemila uscite editoriali, annusando in giro e scegliendo a istinto (no, non dalla cover, ma sono strana io, lo so). Però ho voluto fare un’eccezione e ho partecipato a un GDL dedicato al dark fantasy. Ho perfino proposto io il titolo che poi è risultato il più votato. E ho sperimentato cosa significa leggere un testo insieme a un gruppo dove i lettori puri sono una ristretta minoranza mentre abbondano coloro che scrivono.
Se dovessi concentrare in una definizione quanto è stato fatto, dico: esame autoptico. Il testo, in un contesto (scusate l’allitterazione) di “addetti ai lavori”, viene sezionato, dal derma al muscolo, dal vaso sanguigno al tendine, dalle mucose all’osso. Lo so, state pensando che la lettura consapevole sia una conquista da tutelare. Vi state dicendo che in un mondo dove i libri diventano prodotti merceologici di rapidissimo consumo, con data di scadenza assimilabile a quella dello yogurt, vivaddio ci siano ancora lettrici e lettori così. E io vi rispondo con una domanda: il piacere della lettura dove lo lasciamo?
Ho imparato molte cose da questa esperienza (attenzione, non sto dicendo che non sia stata positiva, mi ha però stimolato tutta una serie di riflessioni). Per esempio, che nei famosi (o famigerati) corsi di scrittura creativa vengono fornite “ricette” precise: quanti e quali protagonisti e/o antagonisti; l’arco narrativo che ciascuno di loro deve percorrere, le percentuali precise da dedicare all’introduzione della storia, al world building (ma attenzione all’infodumping), quindi quelle in cui gestire il conflitto e il modo in cui giungere alla soluzione. Il tutto deve essere mostrato e non raccontato, ovvero “show don’t tell”. Se vi state chiedendo cosa voglia dire (spesso il concetto sfugge anche a me), mettiamo che il personaggio X soffra di emicranie: tell – “X si recò in bagno, aprì l’armadietto dei medicinali e, direttamente dal flacone, si versò in gola un paio delle compresse che il medico gli aveva consigliato per gestire le cefalee che ormai da anni lo tormentavano”; show “X percepì quella particolare sensazione di pesantezza che si irradiava dalla nuca ogni volta che il dolore sferrava il suo attacco, sapeva di non avere chance di arrestarne l’avanzata, aveva provato di tutto per sottrarsi al martello pneumatico che presto gli avrebbe percosso il cranio dall’interno; comunque si trascinò in bagno per prendere quelle pillole che erano ormai un palliativo”.
Il problema del “mostrare” e non “raccontare” è che il punto di vista (POV) si restringe a ciò che il personaggio prova/conosce/fa. Quindi chi legge si trova immerso nella sua mente, nelle sue emozioni. Nei corsi di scrittura creativa ormai la “scrittura immersiva” equivale alle tavole della legge. O scrivi così o non sei degno/a di accedere alla pubblicazione.
Che c’è di sbagliato?
Anni fa un blog che seguivo propose una serie di suggerimenti su come scrivere un romanzo. Scoprii che quei concetti mi erano già chiari e acquisiti perché la lettura di romanzi (tanti romanzi) me li aveva trasmessi per osmosi, insieme alla capacità di adattarli alla mia scrittura. Mia, capite? Sempre alcuni anni fa mi venne spiegato che, per ottenere attenzione in campo editoriale, in quel preciso momento storico, avrei dovuto scrivere un giallo, meglio se non troppo cruento, ambientato in un preciso territorio (esclusivamente italiano) con una buona tradizione enogastronomica (lo so, che ca…spita c’entra? Me lo sto ancora chiedendo), con una investigatrice/detective affascinante, imbranata, ottima cuoca, meglio se adusa a indossare abiti e scarpe iper-femminili.
Alle mie rimostranze, mi venne spiegato che la scrittura professionale è questa: una ricetta con degli ingredienti precisi.
E ci sono lettrici e lettori che quegli ingredienti precisi (quelli e non altri) li pretendono. E se non li trovano, ti bocciano, ti recensiscono con una stellina, non ti consigliano.
Ecco. Io non so se voi vi limitate a leggere, oppure amate anche scrivere. Io posso dire che l’esame autoptico delle pagine non mi entusiasma e che scrivere col bilancino neanche. Io scrivo perché amo leggere. Se mi si toglie il piacere di leggere pagine in grado di sorprendermi, mi si toglie anche il piacere di scrivere seguendo la mia fantasia.
Se vi va, scrivetemi su laurazgcostantini@gmail.com
Leggervi sarà un piacere e uno stimolo.
Grazie e ci si rilegge a giugno con (spero) una piccola anticipazione.
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I romanzi di Laura Costantini li trovate QUI.
Copertina: immagine inviata da Laura Costantini. Rielaborazione: Canva.
Concordo assolutamente con le tue conclusioni. L’idea che esistano percentuali precise da inserire nei romanzi per ogni elemento narrativo è di una tristezza immane così come il diktat della scrittura “immersiva”.