Sono stata la prima donna della mia famiglia a laurearmi. Mia madre era un tipo molto volitivo e mi ha cresciuta nella convinzione di poter raggiungere tutti gli obiettivi ritenuti scontati per un uomo. Perciò nessun complesso di castrazione per me, o almeno così mi pare: ho sempre voluto solo realizzarmi come donna, mai sognato di essere un uomo. Non che mancassero i condizionamenti: in fondo eravamo prima del Sessantotto. Così venni indirizzata verso l’insegnamento, il lavoro che all’epoca, agli occhi della mia famiglia, mi avrebbe permesso meglio di conciliare professione e matrimonio.
Del resto ho sempre voluto fare la professoressa, ma la motivazione principale, sia pure ingenua, era che da bambina quel lavoro mi appariva la personificazione stessa del potere. Con gli anni il mio pensiero si affinò e divenni consapevole di come anch’io potevo contribuire a migliorare la realtà, influenzando le nuove generazioni sia come insegnante sia poi anche come madre.
Per le specificità della mia professione non mi sono mai sentita inferiore agli uomini. Quindi, quando la mia professoressa di greco raccontava che trent’anni prima le donne potevano insegnare solo nei primi due anni del liceo classico, mi pareva roba da medioevo. Né sapevo che solo di recente il mio sesso era stato ammesso per esempio alla magistratura.
All’epoca le donne in politica erano pochissime, anche se le prime erano state già elette nel 1946, grazie al suffragio universale attivo e passivo. Ma la prima donna ministro ci fu soltanto nel 1976 con Tina Anselmi. Abbiamo poi avuto finora tre donne presidenti della camera (significativamente non del Senato), ma aspettiamo ancora la prima donna presidente della repubblica. Del resto non ci sono riuscite ancora neppure negli Stati Uniti. Perfino una serie televisiva in cui Geena Davis arrivava a quella carica è stata interrotta subito.
La società italiana è piuttosto maschilista: basta fare un giretto su Facebook per accorgersene. E badate non solo da parte di tutti quelli inutili idioti che vi furoreggiano. Alle alunne io consigliavo il rimedio più semplice: quando è possibile esprimere più di una preferenza, le donne devono votare donna, gli uomini ovviamente votano uomo, ma già così si potrebbe arrivare al pareggio senza problemi.
Il problema è che neppure la maggior parte delle donne è femminista: anzi questo termine è considerato ormai da molte becero o almeno antiquato. Spesso la polemica scoppia feroce anche a proposito delle cosiddette quote rosa, basata sull’ovvia osservazione che i rappresentanti del popolo dovrebbero essere scelti sulla base delle competenze e non del genere. Certo non si capisce come mai tali competenze dovrebbero trovarsi solo fra gli uomini e non proporzionalmente anche fra le donne, che oltretutto sono più numerose.
Risibile l’idea che le quote rosa sarebbero in sé offensive: personalmente io ritengo offensivo, invece, confinarci nella cura della famiglia, che con maggiore giustizia dovrebbe essere divisa equamente fra entrambi i membri della coppia. E qui proprio noi donne (ma non solo) dovremmo lavorare sull’educazione dei figli, particolarmente maschi (ma non solo).
“Nel 1975 nei parlamenti di tutto il mondo le donne erano il 10,9 per cento. Nel 2010 sono salite al 18 per cento. Cioè, un aumento del 7 per cento in 35 anni. A questo ritmo ci vorranno 160 anni per raggiungere la parità” (Euronews). I paesi più evoluti del nostro in questo settore in genere hanno agito sullo statuto dei partiti o attraverso le leggi elettorali. E grazie a provvedimenti di questo tipo nell’ultima legislatura anche nel nostro parlamento sono entrate molte più donne.
Ma il problema non è solo strettamente politico. Maschilista è in gran parte anche il mondo dell’economia: negli ultimi cinque anni le quote rosa nei consigli d’amministrazione hanno accresciuto la presenza femminile nelle aziende quotate in borsa e a gestione, almeno in parte, pubblica. Parallelamente si è introdotta l’espressione democrazia paritaria, dal momento che l’aggettivo rosa esprime più un’idea di protezione che non la garanzia di un diritto.
Al momento, la percentuale media di donne da noi nei Cda si aggirerebbe intorno al 13,8%, per scendere al 7,9% circa per le società quotate in borsa. Secondo l’OCSE, quindi, l’Italia è al 26esimo posto sui 40 paesi considerati in uno studio sulla diseguaglianza tra i generi nel mondo dell’impresa. La politica, in ogni caso, ha fatto meglio perché nell’attuale parlamento le donne sono il 30,8 per cento, anche se sempre molto lontane dalla parità. E per giunta non abbiamo ancora rotto il cosiddetto soffitto di cristallo, raggiungendo posizioni di vertice. Non per niente troppo spesso abbiamo dovuto leggere sui giornali osservazioni sull’abbigliamento e il look delle ministre e vedere misconosciute le loro competenze in misura molto superiore rispetto agli uomini. A tutti i livelli si discute perfino se si possano usare i termini ministra o sindaca o signora presidente.
Alcuni studi sembrerebbero invece dimostrare che le imprese con maggiore presenza femminile in ambito gestionale facciano riscontrare migliore redditività. Il che conferma l’impressione diffusa che per emergere una donna deve per forza essere molto più efficiente di un uomo e insieme fa pensare che le donne vengano chiamate a sostituire i maschi meno competenti.
In ogni caso c’è ancora molta strada da fare. Quando guardo le mie tenere nipotine, che fanno del loro meglio per crescere e imparare e non sanno ancora quali problemi in più si troveranno ad affrontare solo per il fatto di essere donne, mi rafforzo nella determinazione che dobbiamo continuare a lottare e batterci, senza farci fermare dalla disperazione o dall’irrisione o semplicemente dal pensiero che il mondo è stato sempre così e non cambierà mai.
In particolare noi amanti dei romanzi storici (e soprattutto della storia) voltiamoci indietro e guardiamo quanti passi avanti abbiamo fatto rispetto ai secoli passati, soprattutto da trecento anni a questa parte. E convinciamoci con Aldo Cazzullo che possiamo cambiare il mondo! Anche se forse non nella misura in cui pensa lui.
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