Non è una vocazione. Non ho mai detto “nella vita voglio fare la traduttrice” (Né altro. Non ho mai avuto una vocazione precisa a fare una cosa e una soltanto. Chissà come ci si sente a sapere cosa si vuole fare da grandi.).

Però stavo pensando a parecchie cose negli ultimi giorni, e alcune si sono per così dire cristallizzate in un’idea. O almeno mezza, ecco. Due mezze.

La prima mezza è che a volte, leggendo, sbraito per scelte di traduzione altrui (o per evidenti incidenti, trascuratezze, deliri) e adesso qualcuno a volte commenta “Be’, la tua è deformazione professionale”, ma la riposta è “No, ho dei testimoni, lo facevo anche prima di iniziare io a tradurre. L’ho sempre fatto.”

La seconda mezza è che io prendo su.

Fin da quando ho imparato a parlare, sono sempre stata una bambina che tirava su gli accenti. Ne conoscete anche voi? Quelle che, quando le porti in vacanza, dopo tre giorni devi spiegare alla gente del posto che no, non sta prendendo in giro, e non sta nemmeno giocando a fare l’eco. Le succede e basta.

Mi succede ancora; se vado a trovare un’amica per un paio di giorni, quando torno a casa per un giorno o due parlo con la sua cadenza. Ho un’amica toscana – una delle tante – che mi fa questo effetto perfino in contumacia e su Facebook: se sto scrivendo a lei o in una conversazione in cui c’è anche lei, cominciano a uscirmi dalla tastiera dei mi garba che fanno tanto traduzione italiana dei Moomin. Non è presa in giro, non è imitazione (non sono nemmeno brava a fare le imitazioni), non è nemmeno controllabile, nel senso che anche a questa età e sapendo che succede non sono in grado di modificare la cosa.

Non basta. Se a volte mi viene da fare una battuta che secondo me starebbe bene in bocca a Marco Paolini o a Lella Costa, ecco che la dico con la loro voce. (Anche Guccini mi viene da cantarlo facendo la “r” di Guccini, ma quello non conta, vero? Lo fanno tutti, vero?)

Ancora. Io sono (anche) una che scrive. Ogni tanto. Ma la mia ispirazione è tirchia, scappadizza, ondivaga e probabilmente è stata esiliata dal Parnaso per deviazionismo e… ho già detto tirchia? Non ho quasi mai qualcosa da scrivere, ma quando ce l’ho è non solo breve ma impellente e ostinato, pretende di essere scritto il prima possibile e così, esattamente così, con quelle precise parole e no, non azzardarti nemmeno a spostare una virgola! Poco, raro, tendenzialmente criptico, e inconfondibilmente mio.

Tranne che, se sto leggendo alcuni autori (ogni tanto ne individuo uno in più. Whodehouse. Pratchett. Maya-quella-delle-fanfiction. Banana Yoshimoto. Amado. Scorza. Marquez meno. Non so come mai. Clive Barker), in questi casi – e in altri – di ispirazione ne ho tanta. Non necessariamente trame intere, ma pezzi, brani, descrizioni, tutto che fiorisce come nei documentari sulla pioggia nel deserto, solo che… solo che non è inconfondibilmente mio. È eco. Tiro su, esattamente come per l’accento. Mi vengono delle cose che mi piacciono anche, eh, ma è così palesemente evidente che derivano in maniera diretta da quello che sto leggendo o rileggendo.

Non le ambientazioni o i personaggi, no, non parlo di fanfiction. La voce. Non è plagio, non è imitazione, non è citazione, non è nemmeno omaggio volontario. È mimetismo involontario. È come le corde di bordone che vibrano perché stanno vibrando le altre. Prendo su il tono di voce.

E allora forse per tradurre, per tradurre rispettando il tono di voce dell’autore senza prevaricarlo con il proprio, forse questo mimetismo che scatta senza che io debba pigiare il pulsante un po’ aiuta, ecco.

Credo di essere finita di nuovo in fase Lella Costa. Vi è andata bene. Poteva essere Clive Barker.

L’intervista a Sara Benatti