“La natura (l’arte con cui Dio ha fatto e governa il mondo) è imitata dall’arte dell’uomo, come in molte altre cose, così anche in questa, che può creare un animale artificiale. Poiché la vita non è altro che un movimento di membra, il cui inizio è in qualche parte principale all’interno, perché non dire che tutti gli automi (motori che si muovono da soli per mezzo di molle e ruote come un orologio) hanno una vita artificiale? Infatti, che cos’è il cuore se non una molla, e i nervi se non tante corde, e le articolazioni se non tante ruote, che danno movimento a tutto il corpo, come voleva l’Artefice?”
Così parlò Thomas Hobbes nell’introduzione del suo “Leviatano”, pubblicato nel 1651. Come a dire che l’idea di creare artificialmente corpo, vita, coscienza e intelligenza affiancabili a quella che ci contraddistingue affonda le radici in quattro secoli di ricerca sulla natura umana. Una corsa che, a parere di molti, sta per tagliare il traguardo grazie a ciò che – dal novembre 2022 – riempie di speranze e paure chiunque frequenti il vibrante mondo della Rete: Intelligenza Artificiale o GenAI (se parliamo di quella che più ci meraviglia e ci spaventa, la generativa, ma ne esistono molte altre). La nominiamo, la inseguiamo, la proviamo, la odiamo o la amiamo senza passaggi intermedi. Perché ne abbiamo paura come non ne abbiamo avuta di nessuna delle precedenti conquiste tecnologiche. Questa è percepita più pericolosa? No, è che ce la disegnano così (semicit.). E di questa volontà allarmistica i social network si fanno amplificatori a crescita esponenziale.
Mi sono sentita dire: “ChatGPT (n.d.r. quella più usata e diffusa, ma esistono altre versioni, come Copilot di Microsoft o Gemini di Google) ti allarga lo sguardo. Tu hai uno, due, cinque, sedici punti di vista. ChatGPT può averne centinaia o migliaia. In pochi minuti. A te non basterebbe una vita.”
A me non basterebbe una vita: a fare cosa nello specifico?
Mi è stato spiegato: “L’intelligenza artificiale consente di velocizzare i tempi di analisi dei dati, perché permette di effettuare in pochi giorni o ore dei calcoli che in passato avrebbero richiesto settimane o mesi.”
In realtà velocizzare i tempi di analisi dei dati è l’unica – UNICA – cosa che le GenAI sanno realmente fare. Noi forniamo loro i dati (testi, immagini, tabelle, numeri, pensieri, articoli di giornali etc. etc. etc.), noi poniamo loro quesiti (creando prompt che più articolati sono e più ottengono risposte sensate), noi possiamo ottenere gli stessi esatti risultati (a patto di avere molto tempo e accesso alla medesima mole di dati).
Mi hanno detto: “La GenAI nasce per generare contenuti privi di qualsiasi valore artistico o creativo, banali e ripetitivi, ma che un essere umano impiegherebbe ore, se non giorni, a produrre.”
Vedete la reiterazione? Una questione di tempo e di tempi. Ho fatto delle prove di ricerca di argomenti (è una delle componenti della mia attività di autrice che mi appassiona di più: la documentazione) e ho trovato ciò che cercavo saltando di link in link, di documento in documento, di sito in sito, spesso scoprendo cose utilissime che non sapevo di cercare. Ho impiegato qualche ora del mio tempo. Poi ho posto la domanda di partenza della mia ricerca a un’intelligenza artificiale e ho guardato il testo comporsi nello stesso tempo che occorre a contare fino a dieci. Era esaustiva, la risposta? Nì. Conteneva errori? Sì, ma se avessi affinato la ricerca li avrebbe corretti. Mi ha fornito tutti gli spunti che cercavo? Sì e no. Se avessi avuto fretta (un articolo da consegnare in pochi minuti, una scadenza contrattuale, la fine del mondo imminente e io non avessi potuto morire senza sapere se il ragno lupo tesse la tela oppure no) mi avrebbe facilitato il lavoro.
E lo avrebbe fatto perché la GenAI è un algoritmo (quindi una funzione matematica) addestrato a fare cose semplici ma che appaiono complesse, perché sono lunghe e tediose. Quindi è stata concepita per facilitarci la vita.
Me lo hanno detto più persone: “È comoda, esattamente come la calcolatrice che ci evita lo sforzo di fare operazioni matematiche a mano e a mente.” Ottimo, no? No – ma è solo un mio parere, sia chiaro – perché è bravissima a fare i riassunti e le ricerche scolastiche e quindi allevia il peso (?) dello studio e dell’applicazione a chi dovrebbe imparare.
Mi è stato detto: “Non deve scrivere al posto tuo (e vorrei vedere! N.d.r.), ma è uno strumento utilissimo per tutto il resto, il brainstorming iniziale, i dubbi, le modifiche, le correzioni. Non è una sostituzione, è un aiuto.”
Un aiuto. Sì, lo è sicuramente. Però nelle redazioni giornalistiche già si comincia a chiedere alla GenAI di scrivere articoli, mettere insieme tabelle, riassumere notizie, creare titoli. Parlo di redazioni perché è il mio ambito lavorativo, però penso anche al mondo editoriale. Entrambi sono ambiti dove il valore delle parole dovrebbe essere supremo e credo sia normale saltare sulla sedia quando poi ti spiegano che: “Le intelligenze artificiali sono una tecnologia che consente di simulare i processi dell’intelligenza umana attraverso l’applicazione di algoritmi che non conoscono il significato delle parole, si basano solo sulle correlazioni in base ai testi di addestramento che vengono forniti.”
Non conoscono il significato delle parole. Così come non conoscono tecniche pittoriche, le basi della musica, le leggi della fisica, il funzionamento del corpo umano o degli organismi viventi, la medicina, il diritto, le leggi. Nulla. E arriviamo al concetto di pappagalli stocastici. Questa definizione si deve alle ricercatrici Timnit Gebru e Margareth Mitchell che, a causa di questo articolo (click QUI) sono state licenziate da Google dove co-dirigevano il gruppo di etica e intelligenza artificiale. I “pappagalli stocastici”, in inglese “stochastic parrots”, sono gli LLM (large language models), i modelli statistici del linguaggio che si basano sull’apprendimento da grandi database di testi, presi prevalentemente da internet. Con questa espressione Gebru e Mitchell hanno sottolineato (già nel 2021) che questi sistemi non hanno alcuna comprensione del significato delle parole o delle espressioni che generano, perché non sono costruiti per averlo. Si limitano a individuare schemi verbali ricorrenti nei dati e li “ripetono”.
Per approfondire, click QUI.
Da nessuna parte si parla di intelligenza, perché in realtà non siamo neanche in grado di dare una definizione esaustiva di ciò che intendiamo quando parliamo di intelligenza naturale, biologica, virtuale o artificiale che sia. E allora? Qualcuno ha detto che “il vero peccato dei fisici che presero parte al progetto Manhattan non fu tanto realizzare la bomba quanto essersi appassionati a quell’impresa”. E di gente fanatica di GenAI ne vedo fin troppa, così come fin troppi sono coloro che si ergono a paladini della “naturalità” invitando a boicottare testi sospetti, fotografie manipolate, video fantasiosi, illustrazioni. Lo scontro tra tifoserie non ha mai portato a risultati apprezzabili e di guerre sante e vere in giro ce ne sono fin troppe.
I dati di fatto che abbiamo di fronte sono che – dicono gli esperti – la tecnologia è tre volte più veloce della realtà mentre l’apparato legislativo è tre volte più lento della realtà. Chi detiene le GenAI (sì, stiamo parlando di BigTech) propone un’autoregolamentazione (maddai?) per non fermare il “progresso”. Da questa posizione deriva il cosiddetto inevitabilismo tecnologico: il mondo cambia, è inevitabile, non ci possiamo fare niente. Meno che mai – affermano i paladini delle GenAI – tollerare che si propongano paletti legislativi, tipo la tutela della privacy o il rispetto del copyright. Perché – proseguono – ChatGPT è un bene comune, tutti ne possono beneficiare. In sostanza, se avanzi un qualsiasi dubbio, tu vuoi fermare il progresso.
Come la mettiamo con la tutela dei posti di lavoro? Semplice – dicono sempre i suddetti paladini – il lavoro non te lo porta via la GenAI, ma chi studia e impara a usarla. Quindi se tu non la sai usare, ti rendi inutile sul mercato del lavoro.
Mi sono sentita chiedere: “Si può vivere senza tecnologia?”
Sebbene io sia una boomer, non ho alcuna difficoltà a rispondere che no, non si può più vivere senza tecnologia. Se state leggendo questa riflessione, lo state facendo su una piattaforma digitale, cui accedete grazie alla tecnologia che ha reso possibile la Rete e le connessioni a livello mondiale. Nessuno vuole negarlo, sarebbe sciocco.
Però sarebbe altrettanto sciocco non fermarci a pensare che le GenAI sono in mano – tutte – a privati che perseguono finalità economiche (ne esistono altre per loro?) quindi il tema si sposta dalla tecnologia al campo della politica e delle conseguenze. In tutti i campi compreso quello della sostenibilità: abbiamo una vaga idea di quanta energia elettrica consumino ChatGPT e le sue sorelline per elaborare miliardi di miliardi di miliardi di dati e fornirci le risposte che andiamo cercando?
Chiudo con la parte che mi sta più a cuore. Come sapete scrivo romanzi. Mi piace scriverli. Mi piace fare brain-storming con la socia o da sola (se scrivo a due sole mani). Mi piace elaborare la trama scrivendola su un quaderno con frecce, asterischi, rimandi. Mi piace trovarmi bloccata da uno snodo narrativo e rimuginare tutte le vie di fuga mentre, magari, sono imbottigliata nel traffico. Mi piace dannarmi perché quella parola, sì, proprio quella lì, ce l’ho sulla punta della lingua e non vuol saperne di uscirne. Mi piace tenere il vocabolario, il dizionario etimologico, quello dei sinonimi e dei contrari, a portata di mano mentre scrivo. Mi piace il percorso creativo. Lo vivo come un dissodare la terra, gettare i semi, vigilare sui germogli, annaffiarli, tenere lontani i parassiti, proteggere la pianta finché il frutto non matura. Dice: non fai prima ad andare al supermercato e comprare quel frutto? Sì, di sicuro. Ma vorrei anche che mi si spiegasse in quale altra attività irrinunciabile dovrei impiegare tutto il tempo risparmiato rinunciando a creare ciò che amo per trovarmelo già bello confezionato e lucidato a dovere. Non ricordo chi ha detto che non è la meta, è il viaggio. Ecco, io per quanto riguarda il mio lavoro e i miei libri, preferisco godermi il viaggio in tutte le sue tappe, in tutta la sua fatica. E se GenAI arriverà prima, e lo farà, me ne farò una ragione.
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