Una bella nottata: Laura nel suo letto, grande, tutto per lei. E lui in bagno. Sarebbe stata migliore se a brevi intervalli non si fosse sentito tirare lo sciacquone. O forse no: non era un brutto suono.
Al mattino lei si alzò fresca ed abbastanza riposata.
Umberto era pronto alla fuga. — Sai volevo dirtelo ieri sera, ma non ho potuto. Devo tornare a casa, mia madre non si sente bene. Ma tu resta pure… È già tutto pagato.
Pagata la parte di lui, per la precisione. Lei lo sapeva, facevano sempre a metà, “per non offenderla”, parole di Umberto.
Lunedì
Così ora sono ad Orly ad aspettare che chiamino il mio aereo per tornare a Genova. Appena lui è fuggito via, sono scesa, ho disdetto la camera, ho intascato la differenza.
Ho lasciato un biglietto per Giovanna.
“Grazie di cuore. Laura”
Ho preso l’autobus e via!
Ho ancora un po’ di giorni di ferie. Potrei non ritornare a casa e godermeli. Il mondo è mio!
Me lo dico, ad Orly, mentre aspetto il mio aereo e mi sgonfio come un palloncino forato. Io che volevo volare lontano.
Passata la foga della collera e della piccola vendetta immediata, mi sento schifosamente vuota e triste. Mi porterei ovunque la mia tristezza. Per quasi cinque anni la mia vita è stata lui. Lasciato lui, ritroverò una vita?
È in questo effetto angoscia da “in mezzo al guado con tanta voglia di remare indietro” che mi squilla il cellulare.
Cellulare… Che sia lui? Rispondo.
Ecco, sono davvero una bella scema. Mi dicesse una parola dolce, ingoierei il rospo, anzi gliene chiederei ancora.
È Lucia, detta Lucy. Non so se esserne contenta oppure no.
Lucy è mia sorella. Tre anni più di me, due figli più di me, un marito più di me. Ho sempre creduto meno casini di me. — Ciao, Laura. Come stai? — Non aspetta risposta, non mi stupisco, non lo fa mai. — Quando torni a casa? Lo so che sei in ferie, ma tanto per saperlo.
– Perché? Qualche problema?
— Non posso dirtelo per telefono.
Un’altra con la mania della segretezza. Lucy nascondeva il suo diario così bene che poi mi chiedeva di aiutarla a trovarlo… Credevo fosse cresciuta.
— Almeno una traccia: salute? Stai poco bene? — Non sarebbe una novità. Lucy doveva sposare un medico o un azionista di un laboratorio di ricerca. Ogni mese scopre di avere una malattia grave. Se non è lei ad essere malata, sono i bambini o suo marito Matteo. Ma è lei al novanta per cento.
— Sì, no, non lo so.
— Senti, Lucy, sto tornando.
— Non voglio che torni per me.
Tipico di Lucy: volere e non volere. Ma forse, pensando alla mia storia con Umberto, deve essere un difetto di famiglia. Neppure io riesco a dare un vero taglio netto. Da idiota, se non sto attenta, immagino scenari di riconciliazione. Sbuffo, più contro di me che contro di lei. — Non torno per te.
— Allora quando arrivi a casa mi telefoni, così ci vediamo.
— Posso passare da te. — Fra l’altro vedrei anche i suoi due bambini… Due diavolastri pestiferi che adoro (ricambiata, almeno da loro, almeno per ora).
— Non posso parlarti con i bambini fra i piedi. No, da me no. Ci vediamo fuori.
— Puoi venire da me. — Non mi sembra una proposta assurda, ho una casa: spaziosa, doppi servizi anche se sono single e con cabina armadio, dove conservare gli abiti che vorrei buttare.
— No, è troppo lontana, non ho tanto tempo. Tu arrivi, mi chiami e vieni dalle mie parti.
Va bene che Genova non è facile da girare, ma non è Los Angeles; io in zona Corso Sardegna, lei a Castelletto, Corso Firenze per la precisione, non è poi una gran distanza. Sto per dirglielo, ma lei continua: — La baby-sitter mi ha lasciato, ne ho una nuova e per tanto tempo da sola con i due non vuole restare. Deve farci l’abitudine un po’ per volta. Sai come sono…
Uno ha sette anni, l’altro quattro: vivaci e perfettamente nella norma. Fanno rumore, sporcano, litigano, giocano. Ma io sto con loro quando ne ho voglia, lei anche quando ne ha le palle piene.
— D’accordo. Ora ti lascio perché chiamano il mio aereo.
— Dove sei?
— Parigi, Orly.
— Beata te che ti godi la vita! — Un gemito. — È sposato, capisci… — Un altro gemito.
Riattacca prima che io abbia la possibilità di capirci qualcosa.
Mi incammino verso il mio aereo. Chissà cosa vuole dirmi Lucy. Può essere qualunque cosa. Ma qualcosa di cui non vuole parlare in casa.
Non riguarda i nostri genitori, da anni residenti a Rapallo, non ci sarebbe stato bisogno di tutta quella segretezza…
Ma Lucy è imprevedibile. Che poi andavo nei dintorni di Parigi glielo avevo detto, ma di certo l’ha dimenticato.
Di Umberto non le ho mai parlato.
Devo essere sincera: mi vergognavo. Non di andarci a letto, sia chiaro. No, di venire usata come straccio, scendiletto e simili. Perché sapevo che era così da prima della fatale rivelazione di Maura.
Sembra passata una vita invece è successo giovedì e oggi è lunedì.
Mentre stiamo decollando ho paura. Mi capita sempre, solo nel momento del distacco da terra, poi passa.
Mi terrorizza la possibilità di cambiare idea. Poi “o la va o la spacca”. Che sia così anche per la mia storia con Umberto? Appena avrò dato un taglio netto, mi passerà questa paura che mi chiude lo stomaco? Perché, in fondo, un taglio non l’ho dato. Non gli ho detto “caro il mio uomo, tu da una parte io dall’altra e chi si è visto si è visto”. No, l’ho irritato, spaventato, ma non piantato.
Psicologia spicciola o sano buonsenso?
Sorvoliamo Parigi. Sarà la ville lumière ma è grigia. Una manciata di giardini e monumenti sepolti in una periferia indistinta.
Forse indistinta perché sto piangendo.
E Lucy?
Prendo la borsa in cerca di un fazzoletto e mi ritrovo invece fra le mani il foglietto con l’indirizzo di Giovanna. Quando si dice il caso: ci siamo incontrate nei dintorni di Parigi e abitiamo nella stessa città.
È stata davvero una prima attrice con Umberto. Avrei voluto dirglielo e invogliarla a ritentare con il teatro, ma quando ho lasciato l’albergo non era ancora scesa. Più di due righe di ringraziamento generico non ho potuto lasciarle.
Se le avessi scritto di più e l’avesse intercettato il suo… Stavo per dire Umberto, il suo è Rodolfo.
Appena potrò le farò una telefonata.
GIOVANNA
Parigi
“Non mi chiamo Nelly, il mio nome è Giovanna…” Appena ho visto quella povera ragazza, lasciata tutta sola in quella sala carica di specchi, dorature e felci, mi è sbottato dentro qualcosa che non ricordavo più di avere. E così ho messo a frutto tutto quello che ho letto sulla commedia dell’arte.
E il teatro, la domenica pomeriggio… Perché lui non poteva lasciare la famiglia legittima proprio di domenica.
“Potresti andare a teatro, Nelly, ti è sempre piaciuto… E poi è frequentato meglio dei cinema. La domenica ci vanno tutti.” Così per anni mi ha regalato l’abbonamento allo Stabile. Poltronissima.
Quella signora che è invecchiata in quella poltrona. Quella signora sempre sola che non ha mai perso uno spettacolo.
Quella sono io. Un’istituzione.
L’impiegato della reception dell’Hotel mi ha consegnato il biglietto di ringraziamento di quella cara ragazza, Laura Arnolfini, dovrei essere io a ringraziare lei.
— Nelly, non sali?
Questo è Rodolfo, leggermente impaziente perché mi sto attardando.
— Vengo subito. — In fretta chiedo all’impiegato se la signora che mi ha lasciato il messaggio è già partita.
— Mais oui, madame. — Il suo accento francese è più fasullo del mio.
— Allora, Nelly!
È di nuovo Rodolfo che mi richiama all’ordine. Da quanti anni lo fa?
Non avessi incontrato Laura, non l’avrei pensato. Ci si abitua a tutto, anche all’infelicità. E l’infelicità peggiore è la consapevolezza che la tua vita si ristringe, giorno dopo giorno: un’amica in meno, uno svago che non ti diverte più, un sogno svanito.
Spero che lei sia in tempo per invertire la rotta. No, no, lei lo è. Però deve volerlo.
Io vorrei, ma non posso più farlo.
E perché no? Ho interferito nella sua vita e non ho il coraggio di farlo nella mia?
Vigliacca. Quando lo sono diventata? Inutile chiedermelo, lo so. Non si diventa vigliacche dall’oggi al domani ma a spizzichi, cedendo un palmo ogni giorno.
Mi giro verso Rodolfo, cercando di vederlo davvero. È vecchio. Lo sono anch’io, ma lui ha di vecchio. Da sempre lo stesso sarto, lo stesso camiciaio. Le cravatte di Finollo con la bandierina con le sue iniziali. Ha le iniziali anche nelle camicie e nella biancheria intima. Anche su di me? Forse.
— Non ho voglia di tornare in camera.
Dove lui leggerebbe i quotidiani, io un libro. L’alternativa sarebbe annoiarmi facendomi una maschera.
— Preferisci fare quattro passi in giardino?
Questo giardino, con parco, deve essere splendido in primavera, estate, anche inizio autunno… Quando c’è tanta gente ma non ci siamo noi due.
— No!
Alza il viso di scatto, non si aspettava una risposta così brusca. — Stai bene?
Quando una donna si comporta in modo diverso dal solito, il suo uomo preferisce sperare che sia ammalata…
— Sto benissimo. Ho voglia di andare a Parigi.
— Vuoi tornare a casa?
Non c’è peggior tonto di chi non vuol capire, diceva mia nonna.
— A casa? No, vorrei vedere Parigi. — Da quanti anni veniamo qui, in questo albergo? All’andata e al ritorno l’aereo ci scarica e ci riprende: mai una volta abbiamo perso una mezza giornata per camminare sul Lungosenna. Parigi per me è sempre stata soltanto la tappa di un viaggio.
— È una città come le altre — ribatte Rodolfo. — Ci sono stato molte volte, per lavoro, e ti assicuro che non perdi niente.
— Vorrei andarci. — Subito mi correggo: — Voglio passarci una giornata.
— Ma così, senza organizzare…
Alzo le spalle, gesto poco fine. Ma mi fa sentire giovane. Lui alza un sopracciglio: un tempo quell’aura di superiorità mi faceva battere il cuore. Ora… Ora m’incazza di brutto. Non ho mai pensato una parolaccia.
Invece fa sentir bene.
— Si noleggia un’auto e si va… — Lo fisso. — Se tu non vuoi, vado sola. Tu hai i tuoi giornali. Non devi disturbarti per me. Ho assegni, carte di credito…
— Ma da sola, se ti capita qualcosa…
— Non sono una ragazzina. E neppure decrepita.
— Potremmo rimandare a domani — mercanteggia. — Con un taxi.
Sto per cedere, anch’io sono un po’ stanca, la sera prima ho bevuto un po’ troppo, e parlato, e pensato. Dopo anni di calma piatta anche un’ondetta è un maremoto.
Potrei riposarmi.
Sbaglia, perché mi conosce e sa di avere la vittoria in pugno. — Che cosa hai in mano? — Ha di nuovo la voce da padrone. Un buon padrone, ma padrone lo stesso.
Sì, il biglietto di Laura.
Non rispondo, non spiego. — Io vado oggi. — Mi dirigo sicura verso la reception e chiedo che mi procurino un’auto a noleggio.
— Ha qualche preferenza, madame?
— Mercedes. — Ho sempre desiderato guidare una Mercedes. — Il modello più confortevole.
— Con autista?
— Sì, però che sia capace. — È la voce di Rodolfo. Sta cercando di limitare i danni.
— No, niente autista, grazie — lo correggo, in pubblico non l’ho mai fatto; in privato ben poche volte.
— Al massimo un’ora, madame.
Giusto il tempo per salire in camera, prendere quello che mi serve…
In ascensore Rodolfo non dice una parola. Ma in camera esplode: — È una pazzia, Nelly.
— Una pazzia andare a Parigi? E chiamami Giovanna.
Arranca. — Credevo che Nelly ti piacesse.
— No. Ti piacerebbe se ti chiamassi Rudy? Non ti sentiresti ridicolo?
Forse no… Lo realizzo in un lampo. Forse non gli dispiacerebbe recitare da Rodolfo Valentino.
Che anche lui abbia avuto dalla nostra storia meno di quanto sognava?
Non devo pensarci, devo essere un po’ carogna.
— Allora, Rodolfo, vieni o non vieni?
— Non ti lascio andare sola.
Gonfia il petto. In fondo non mi dispiace: ho in previsione di dare una scossa anche a lui.
Ci sono tanti bei negozi, anche per uomo. Ha ancora un bel fisico…
LAURA
Lunedì pomeriggio
Genova
Il telefono di Lucy dà occupato, sfilo le scarpe e vado in cucina a farmi un caffè. Quell’albergo sarà anche stato di charme, ma l’espresso non valeva niente. Mentre aspetto riprovo.
Libero.
Lucy risponde al secondo squillo. Da quando ha il cordless lo tiene sempre a portata di mano.
— Sono Laura, sono appena arrivata.
— Quando vieni?
Deve essere qualcosa di grave… — Anche subito, sono ancora vestita.
— Ci vediamo alla Spianata.
— Posso venire a casa tua.
— Meglio di no. Qui non posso parlare, te l’ho detto. In mezz’ora arrivi?
— Dipende dalla coda.
— Non puoi prendere un taxi?
Riattacca e rimango con tutti i miei dubbi in sospeso.
Spengo il gas sotto la moka, infilo le scarpe… Avrei voluto farmi una doccia, ma Lucy è la mia unica sorella e sembra davvero in crisi.
Chiamo il radiotaxi e scendo al portone. Evitando la vicina che di certo vorrebbe sapere perché sono già di ritorno.
Coda, come ogni pomeriggio dopo le cinque. Per fortuna sono venuta in taxi perché non avrei trovato un buco dove lasciare la Punto: sono già occupati anche tutti i posti in divieto.
Pago in fretta e mi dirigo verso l’arrivo degli ascensori.
Lucy mi volta le spalle, guarda davanti a sé. Forse il panorama, forse il vuoto. Oddio, che non le venga in mente di fare una sciocchezza! Corro, spintonando passanti con cani al guinzaglio e le arrivo accanto. — Lucy! — D’impeto la prendo fra le braccia, anche per trattenerla se necessario.
— Laura, Laura… — E Lucy, che non è mai stata piagnona comincia a singhiozzare.
— Su, su, sorellona, sono qui. — Le do qualche colpetto affettuoso sulle spalle. Fosse stata un neonato le avrei fatto fare il ruttino. — Puoi dirmi tutto. Stai male?
— Vorrei morire.
Oddio, se c’è una attaccata alla vita (e a tutti i suoi malanni) quella è Lucy!
— Su, su, ora dimmi tutto. — Tenendola stretta, perché non le venga in mente di fare una sciocchezza, la piloto verso il bar gelateria. In questa stagione più bar che gelateria: si sta riempiendo della fauna degli aperitivi. Gente che quando si siede ad un tavolo si alza dopo un’ora buona: gli stessi che pranzano con un panino o un’insalatona in dieci minuti al massimo.
Ma l’aperitivo è un rito sociale. Si va per vedere e farsi vedere.
Li conosco bene, approfitto dell’esitazione di una coppia che occhieggia intorno a caccia di amici e occupo un tavolo d’angolo. Posto abbastanza scomodo, ma se non c’è altro…
— Cosa prendi, Lucy?
— Quello che prendi tu.
Risposta insensata: Lucy non regge più di un mezzo bicchiere di vino, mentre io ho la resistenza di un camallo (giudizio di Arnolfini padre). — Un Negroni e un analcolico alla frutta. — Se come prevedo c’è da affrontare qualche problema è meglio farlo spiluzzicando. Così aggiungo subito: — Con stuzzichini abbondanti.
Ma Lucy mi blocca. — Niente analcolico, prendo un Negroni anch’io. Abbondante.
— Allora due. Abbondanti. Con stuzzichini abbondanti.
Il cameriere se ne va ripetendo l’ordinazione e mi rivolgo a Lucy: — E ora puoi dirmi cosa sta succedendo?
— Non so come dirlo.
Sì, non mi hanno cambiato la sorella di nascosto, è la solita Lucy, anche se ha deciso di abbandonare il solito analcolico alla frutta e di buttarsi su un bel Negroni abbondante. Tutte le sue intricate confidenze, di solito su problemi di salute (immaginari) sono sempre cominciate con “Non so come dirtelo…”
Mi rilasso, ora si tratta solo di avere pazienza, di arginare il fiume scomposto delle confidenze di Lucy in una narrazione ben organizzata, sfrondando il tutto dalle informazioni superflue.
In pratica il mio mestiere: controllo che i brevetti industriali che vengono proposti alla TEXA non siano fasulli e neppure copie di altri già depositati. Un lavoro di pazienza.
Forse è il mio destino.
— Potresti cominciare dall’inizio. — Anche questa è una battuta collaudata e di sicuro effetto.
— È sposato, Lallina, capisci.
— Lo so che Matteo è sposato, è sposato con te da dieci anni.
— Ma cosa c’entra Matteo? Lascialo fuori. Non c’entra niente.
Mi aspettavo di dover fronteggiare una crisi coniugale con protagonisti il marito fedifrago (anche se Matteo non sembra il tipo, soprattutto per pigrizia) e la moglie tradita. Mi trovo spiazzata. Situazione non inconsueta con Lucy che, oltre ad avere un rapporto schizoide con orari ed appuntamenti, abusa di soggetti impliciti e quindi non individuabili con sicurezza (diagnosi di Arnolfini padre che in situazioni simili ci sguazza per necessità lavorative). Prendo un lungo respiro per calmarmi e poi chiedo quello che Lucy vuole sentirsi chiedere. — E allora chi è sposato? — Già chiedendolo mi sento una scema. È ovvio: Lucy si è innamorata di un uomo sposato. Lucy: la perla di virtù, la saggia, la madre perfetta.
— Marco. Marco è sposato. — Lucy si interrompe, mentre il cameriere posa il vassoio con i due Negroni e i piattini. Prende un bicchiere e ne butta giù un sorso, decisa, come butta giù anche gli sciroppi più orrendi. (“Se è buono non fa bene”: l’ha deciso da bambina e applica la regola per tutte le medicine).
Comincio a pescare le olive: un lavoro di pazienza che mi tiene impegnate le mani, almeno non la picchio. E neppure l’abbraccio. Con Lucy barcollo sempre fra questi due estremi. Oddio ho voglia di una doccia. Di togliermi le scarpe. Di una sigaretta.
— Marco è sposato. E lo amo, Lallina.
Finalmente conquisto un’oliva, la metto in bocca e borbotto: — Dannazione, Lucy, anche tu lo sei.
— Cosa c’entra? Io lo amo. — Un altro sorso di Negroni.
— Non bere tanto, lo sai che non reggi l’alcol.
— Non è vero, lo reggo benissimo. E poi sì, voglio sbronzarmi e dimenticare. — Mi fissa negli occhi. — Tu non puoi capire. Io lo amo.
— E perché non posso capire, di grazia? — Ora comincio anche ad incazzarmi.
— Tu non ti sei mai innamorata.
Non ho mai messo un annuncio sul giornale di famiglia: questa è la verità. Prima o poi dovrei puntualizzare la differenza, ma ora Lucy ha bisogno d’aiuto. Se non altro di sfogarsi.
— Forza, Lucy, raccontami tutto.
— Un collega…
Oddio, anche lei.
— È arrivato a scuola da noi quest’anno.
Allora è storia di… Faccio i conti, Lucy è insegnante di scienze in un liceo e l’anno scolastico inizia a settembre, quindi: settembre, ottobre, novembre. Meno di tre mesi perché novembre non è ancora finito. Amore fulminante. Con un insegnante! E chi sono io per trovare strano un insegnante nel ruolo di Romeo? Il mio è un laureato in ingegneria.
— Insegna storia e filosofia nelle mie classi. Colto, impegnato…
Annuisco. Non ho un gran ricordo dei miei insegnanti, ma forse i tempi sono cambiati.
— Buon parlatore, ma sa essere divertente.
Matteo non è noioso… Almeno, da ragazzo non lo è mai stato. Ci conosciamo da sempre. Forse il problema è questo.
— È sposato, capisci!
— Anche tu, Lucy — puntualizzo.
— L’hai già detto, cosa vuoi? Che non lo sappia? — mi zittisce Lucy. — E ti ho detto che non c’entra. Io lo amo e sono pronta a tutto. Devo vivere la mia vita. Conoscere l’Amore. Quello vero, con la A maiuscola.
— Matteo… — provo a rilanciare, rendendomi conto, io stessa, di aver effettuato un lancio piuttosto floscio.
— Sai bene che non ho mai amato Matteo.
— No?
— Certo, gli volevo bene, gli voglio bene. Ma è diverso. Con Marco. Con Marco è diverso.
Ricordo bene quei giorni di dieci anni prima. Lucy aveva comunicato a tutti che amava Matteo e si sarebbero sposati. Il mese prima si era sposata la loro migliore amica, che abitava nel palazzo di fronte. Un matrimonio in grande stile.
Quello di Lucy non era stato da meno.
Forse è vero, forse Lucy non ha mai amato Matteo… — Pensi di lasciarlo?
— Non posso oppormi all’amore.
— I bambini?
— Non sono una madre snaturata. — Vuota il suo Negroni. — Continuerò ad occuparmi di loro.
Ho finito le olive e ho cominciato ad occuparsi delle noccioline. — E allora siete liberi. Siate felici… Cosa posso dirti, Lucy? Perché sei così disperata, se hai già risolto tutto?
— È sposato.
— L’ho capito, non sono scema del tutto. Bene, tu lasci Matteo, lui lascia la moglie e vi mettete insieme. Cercando di non far soffrire i bambini.
— Tu fai tutto facile — protesta Lucy.
— Veramente sei tu a fare tutto facile, non io. — Oddio, mi sento sempre più stanca, vedo un letto grande come una casa e una doccia come un mare. E una Laura, finalmente in pace, prima sotto la doccia e poi fra le lenzuola. Con un caffè.
— Non sopporto che faccia all’amore con lei.
Per poco non inghiotto l’ultima nocciolina rimasta, la più bella, quella che mi sono tenuta per ultima.
— E tu con Matteo? Non mi dire che vi siete convertiti alla castità. — Da confidenze anche abbastanza esplicite di Lucy (e anche di Matteo, del resto) so che lei e Matteo non recitano la parte di vecchi coniugi legati da fraterno affetto. Mi è anche capitato di dormire nella camera accanto alla loro e, pur cercando di ignorarli, li ho sentiti.
— Che c’entra? Sono sua moglie. Quando lui ne ha voglia si fa. — Lucy alza le spalle. — Tu non sei sposata, non puoi capire. — Puntellando le mani aperte sul tavolo si rimette in piedi. — Ora devo andare, devo preparare cena… — Mi fissa. — Perché non mi hai impedito di bere? Sai che mi fa male. Mi sento la testa come un pallone e ho nausea. Sai che effetto mi fa.
Tendo una mano e la aiuto a restare in piedi. Protestare è inutile.
— E io cosa faccio, Laura? Dobbiamo partire insieme.
— Siete già a questo punto? — Avevo l’impressione che i due innamorati non avessero già deciso di tagliarsi i ponti alle spalle.
— A che punti? — Chiede Lucy, accostandosi meglio la sciarpa. È sempre stata freddolosa. — Che freddo!
— Tira giù la sciarpa e respira profondo. Ti schiarirà le idee.
— Le ho chiarissime.
Faccio segno di sì. Chiare un corno. Le sorelle Arnolfini fanno a chi le ha più confuse. — Ma ti aiuterà a combattere il Negroni.
— Davvero ho preso un Negroni? Ma lo sai che mi fa male!
— No, era un analcolico alla frutta, dicevo per dire.
Lucy fa un sorriso soddisfatto. — Se mi sento da schifo, allora è per amore e disperazione.
Ecco, se c’è una cosa che non ho mai capito è perché l’amore debba far star male per essere AMORE VERO. Mi sembra più normale che faccia stare bene. Inutile. Anch’io sono cascata nella trappola. No, non devo pensare ai casini miei. Quelli di Lucy sono un po’ peggio: due bambini, uno di sette e uno di quattro non sono uno scherzo. — E così avete deciso di partire insieme.
— Sì, c’è già la delibera. A verbale. Tutti favorevoli all’unanimità anche quella stronza di mate che vota sempre contro per principio perché perdono ore di lezione e se qualche collega si ammala deve spupazzarli lei.
Mi fermo, così di botto che Lucy resta per un attimo sbilanciata e sono costretta a sorreggerla. — Non ho capito.
— Viaggio d’istruzione. Con la quarta C e la terza F, Verona.
Certo che gli chaperon non mancheranno. — E di cosa ti preoccupi? — Per quanto so, sono ragazzini e ragazzine ad approfittare dei viaggi d’istruzione per scoprire o ripassare l’anatomia applicata.
— Sai si finisce per stare insieme. — Si corregge. — Non insieme a letto. Ma si parla, a tu per tu. E se si accorge che sono innamorata di lui?
— Avevo capito che pensavi già di rifarti una vita con lui, credevo che aveste già chiarito tutto. — Prendo un respiro profondo. Anch’io devo aver bevuto troppo, mi sento così confusa. Devo aver perso qualche passaggio importante della narrazione del romanzo d’amore fra Lucy e il suo lui.
— Non ci siamo mai detti cosa proviamo, ma so che mi ama. — Esclama Lucy attraversando la strada senza aspettare il semaforo verde. — Dannazione è così tardi e non ho preparato cena.
Le corro dietro. — Come sai che ti ama?
Lucy mi guarda dall’alto dei suoi tre anni in più. — Si capisce quando un uomo ti ama. — Prende il fazzoletto e si soffia il naso. — Ho trentasette anni, Laura. Basta che mi distragga un attimo solo e sono quaranta e poi è una strada tutta in discesa, la vecchiaia, la solitudine, niente più sogni, niente più speranze. La morte.
– Dai che sei arrivata. A casa, non sul letto di morte o direttamente a Staglieno. — La spingo nel portone. — Cosa fai di cena?
— Salamini con purè. A Matteo, stellino, piacciono tanto. Vuoi restare?
— No, ho la valigia da disfare…
— La disfi domani. Non sei stanca di tutto quell’andare e venire? Un letto c’è. Domani mattina Matteo, mentre va a lavorare e porta il grande a scuola, ti accompagna giù, fino a Corvetto, in niente sei a casa. Oppure resti con me e scendiamo più tardi, dopo che è arrivata la baby-sitter per il piccolo.
La casa vuota, le valigie da disfare… Dall’altra i salamini con purè e un po’ di calore umano. — D’accordo.
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