Sabato
Genova (ancora aeroporto Cristoforo Colombo)
Sobbalzo davanti alla donna riflessa nella vetrata non tanto pulita. Sono io, Laura Arnolfini, o no? La faccia è gonfia e gli occhi sono arrossati: ho pianto da maledetta. Di giorno la rabbia ha tenuto sotto controllo il dolore per il tradimento e l’abbandono (ma ha davvero deciso di abbandonarmi o ha pensato bene, cocchino di mamma sua, di tenermi come extra?).
Ma di notte, la rabbia si è sgonfiata in un dolore alla pancia. Somatizzo tutto lì, da quando sono ragazzina. Mai fatto un esame senza mestruazioni.
Infatti, arrivano, in anticipo di due settimane. Rifaccio i conti. Sì, in anticipo, perché ne avevo tenuto conto programmando il viaggio romantico.
Sono o non sono, Laura Arnolfini, quella sconosciuta sconvolta?
Non sembro affidabile e neppure equilibrata.
Anche i miei capelli non sembrano i miei.
Con un gesto rabbioso me li tiro giù cercando di assestarli in un modo più solito e il vetro riflette le mie mani.
Non bastano le macchie di unto sul vetro e neppure le caccole di mosche per nascondere che quelle mani non sono le mie.
Tutto è cominciato dalle mani.
Venerdì mattina, dandomi lo smalto. Rosa tenue, appena appena perlato che fa fine, curato, ma non appariscente.

Venerdì precedente
Laura guardò l’ora. Le sette. Inutile provare a dormire: aveva inseguito il sonno per tutta la notte, con l’unico risultato di sentirsi ancora più stanca che se si fosse rassegnata all’insonnia.
Manicure e smalto: fatti bene e con calma le avrebbero portato via un’oretta. E l’avrebbero rilassata.
Rilassata? Non aveva mai provato a farsi le unghie mentre gli occhi continuavano a buttar lacrime.
E la boccetta di smalto non voleva saperne di aprirsi. Continuò a provare, sempre più ostinata: ormai era diventato un fatto personale. La odiava come se “quella” fosse la responsabile delle sue sofferenze.
Strinse con forza e ruotò.
E la boccetta schizzò via. Colpendo lo specchio del bagno e poi, nell’ordine, piastrelle delle pareti e del pavimento. Restando aperta ma incolume sul tappetino di spugna.
Ripulendo tutto avrebbe impiegato un’altra oretta: la vita sembrava diventata orette vuote da colmare…
Solo alla fine si rese conto che tutti quegli schizzi tipo fuochi d’artificio avevano esaurito lo smalto nella boccetta.
Dannazione dannazione dannazione… Se lo ripeté come ritornello. Poteva vestirsi alla buona e andare a comprarlo.
E via un’altra oretta se invece di comprarlo alla profumeria sotto casa arrivava da quella a tre isolati di distanza con la commessa più simpatica.
Buttò la boccetta finita nella spazzatura, si vestì come capitava e uscì.
Pensieri, pensieri capricciosi ed irati da casa a tre isolati di distanza.
Novembre. Un mese schifoso. A Genova, negli altri mesi capitavano giornate luminose, anche d’inverno. Di color oro e porpora.
Ma novembre! Fiorivano solo crisantemi e manifesti di viaggi in paesi esotici.
Se c’era un mese che nessuno ma proprio nessuno sceglieva per le ferie, se poteva andare in un altro periodo, era novembre.
E se andava, andava AL SOLE. AL MARE. AI CARAIBI. AI TROPICI. ALMENO IN TUNISIA.
A Parigi Parigi che, se non altro, c’erano teatri, cinema, musei, vetrine… Non a trenta chilometri da Parigi in una cittadina sepolta nel verde, che a novembre era spoglio fangoso, in un Hotel di charme… Dove la sola cosa per passare il tempo era fare sesso.
Ma allora perché non farlo in un posticino più allegro? Dove potersi svagare un po’ quando non lo si faceva. Perché lui non era poi così impegnato, con il sesso.
Diceva che farlo troppo non era salutare. E non sarebbe stato romantico.
In profumeria c’era coda: due ragazze, anzi ragazzette quindicenni, stavano facendo tirar giù dagli scaffali ombretti, rossetti e smalti. Ma la commessa sembrava gradire, si davano del tu come vecchie amiche.
Soppesavano e scartavano dopo approfondite consultazioni. Uno era troppo rosso, l’altro troppo serio, l’altro troppo caro.
Uno smalto da favola: pacchiano ma kiss, da bacio! Rosso fiamma, con polvere dorata incorporata. Non il massimo sulle sue unghie ragionevoli…
Lo afferrò al volo. — Questo lo prendo io.
Sentì l’occhiata delle due; l’avevano pesata e ritenuta indegna di una simile bellezza. Poteva dire che era per un’altra… Invece: — Hai anche il rossetto uguale?
— Sì. E comprati insieme facciamo lo sconto.
— Li prendo.
Pagò e uscì in fretta con il sacchetto. Da quanto non faceva un acquisto folle?
Da cinque anni. Da quando il suo uomo aveva cominciato a rimetterla in riga per renderla una vera signora.
— E ora basta, stronzo. Sono padrona della mia vita. Me la riprendo. Con gli interessi — lo disse a voce né alta né bassa, come se lui fosse lì accanto.
In fondo lo era. Da quasi cinque anni Laura era tenuta d’occhio come neppure le aspiranti suore di una volta. Vestiti, scarpe, borse, persino la biancheria intima: tutto controllato. Come il mangiare: cosa, quanto e quando. Tutte cose sane e genuine. Da quando Umberto l’aveva messa in riga le era sballato tutto, per la prima volta in vita sua: peso, colesterolo, glicemia e tutte quelle cose lì…
Pure i pensieri. Ma non quel bel controllo carino da innamorati “mi hai pensato?” o da pari cervello “tu cosa ne pensi?”. No! Giorno per giorno le aveva fatto flebo di pensieri preconfezionati.
Mai stata razzista. Con il via vai di gente che c’era sempre stato in casa sua era impossibile. Ecco! Lo stava diventando. Ma non quel bel razzismo dichiarato “a me quelli lì non mi piacciono”, no… Cominciava a trovare sgradevoli odori e colori e voci diverse dalla sua.
Ma come aveva fatto a non accorgersi di quanto le stava capitando?
Si fermò davanti ad un bar: lo specchio era grande ed invitante. Controllò se quella era ancora lei, Laura Arnolfini, detta Lalla o Lallina.
Sotto uno strato di grigio (non soltanto dello specchio, ma di lei) un po’ si riconobbe. Provò a farsi le boccacce. Un tempo se le faceva spesso per tirarsi su di morale o per prendersi un po’ in giro.
Una volta Umberto l’aveva vista. Non aveva riso. Invece aveva commentato che la credeva adulta.
Con un certo sforzo al terzo tentativo le riuscì una boccaccia convincente. Già che c’era infilò una mano nel sacchetto e prese il rossetto. Con cura si delineò le labbra, ripassandole due volte.
Una soddisfazione.
Una soddisfazione anche l’occhiata colta nello specchio: un uomo, niente male, che la osservava con apprezzamento. Ma forse l’aveva vista farsi le boccacce… No, no, l’aveva guardata come un uomo guarda una donna, non come un sano di mente guarda una fuori come un poggiolo.
Bell’effetto. Rinvigorente quanto le boccacce.
Da quanto Laura non cercava di attirare l’attenzione di un uomo?
Da quasi cinque anni.
Per quasi cinque anni si era mascherata da sobria vecchietta. C’era solo da sperare che non lo fosse diventata!
Si spostò fino a trovare una vetrina in cui potersi specchiare con calma. Si guardò, come se esaminasse un’estranea.
Tailleur di vigogna, gonna al ginocchio (tubino ma non fasciante) e giacca di buon taglio, ma così anonima e sobria. Scarpe, mocassini, a mezzo tacco.
Tutto a metà: il giusto mezzo. Uno schifo.
Anche l’uomo aveva avuto a mezzo. E non da adesso, perché si era fidanzato (fidanzato? Ma si diceva ancora?). No, a mezzo anche da prima.
Capelli di media lunghezza. E i ricci li faceva stirare perché diventassero appena mossi: sobri.
Dannazione! Quella parola le faceva senso.
Aprì la borsa (sobria, a postino) e controllò quanto aveva. Sì. Aveva anche bancomat e carte di credito, se fossero servite.
La fermata del 20 era poco lontana.
Se passava entro cinque minuti sarebbe salita, altrimenti se ne tornava a casa da brava ragazza sobria.
Appena arrivata alla fermata arrivò l’autobus. Come interpretarlo se non un segno del destino?
Da mesi, ogni giorno, tornando dal lavoro, vedeva l’insegna del parrucchiere, anzi Hair Stylist. Era alla moda, non come il suo negozio solito; erano alla moda anche le ragazze che si vedevano entrare e uscire.
Entrò decisa.
Taglio, piega, colore, mèche e contrasti: tutto e di più; mentre lavoravano sulla sua testa cercò di non guardarsi allo specchio per non rischiare ripensamenti: prese una copia dell’ultimo numero di Vanity. Trucchi, vestiti, accessori alla moda: non ne sapeva niente. Sfogliava ed era come precipitare in un pianeta alieno.
Il suo guardaroba era tutto da buttare.
O se qualcosa si poteva salvare doveva essere portato in modo diverso.
— Abbiamo finito.
Alzò gli occhi. Era lei e non lo era.
Corti, sfilati, un po’ ricci, con riflessi rossi e oro. Il suo trucco, ti vedo e non ti vedo, sotto quella bella testa grintosa spariva del tutto. Doveva provvedere ad un trucco diverso.
— Le piace?
Annuì. Certo che si piaceva, non aveva un’aria sobria. Con una testa così non sarebbe passata inosservata.
Tre ore abbondanti buttate così, avrebbe detto la Laura di ieri. Oggi era un’altra persona. E, se non lo era, doveva diventarlo. Anzi ritornarla.
Si fermò in un bar di Via Cesarea, con dehors riscaldato. Aperitivo con stuzzichini. Tutti. Un pasto molto più divertente dell’insalata e carpaccio di bresaola che prendeva di solito.
Fece il bis dell’aperitivo. Un Negroni da delizia. Pescando un’oliva incrociò lo sguardo dell’uomo seduto di fronte.
La stava guardando.
Forse era stata la testa nuova ad attirarlo, forse la disinvoltura con cui aveva fatto fuori il secondo Negroni. In un sussulto si disse che forse la riteneva una facile.
Meglio facile che smortina.
Gli rispose con un sorriso.
Lui sorrise.
Dannazione, dannazione, cosa stava facendo? Si lasciava abbordare da un uomo in un bar? Lei, Laura Arnolfini. Sobria e morigerata.
Abbassò gli occhi, finì il suo piatto, si alzò ed entrò a saldare.
Vigliacca vigliacca… Saggia saggia… E lei era in mezzo: doveva capire come voleva essere davvero.
Per quasi cinque anni aveva cercato di adeguarsi al modello plasmato da Umberto…
Umberto, Umberto…
Scacciò il dolore e si concentrò sulla rabbia.
Per anni aveva cercato di essere come voleva lui e ora non si ricordava più come era prima o come sognava di diventare.
Ora era diventata né carne né pesce. Forse a metà del guado forse no. Ma doveva remare se non voleva che la corrente la portasse via.
In fretta raggiunse la sua fermata. Il tempo era volato. Erano già le due. I negozi avrebbero aperto fra poco, già che c’era, poteva passare da Via San Vincenzo e comprare due o tre cosucce. Vanity le aveva dato qualche spunto.
E per far passare quella mezz’ora che mancava c’era il Mercato Orientale. Banchi di pesce, frutta, verdura, spezie, carni e tutto quello che è commestibile…
E ingrassante: da quando si era messa con Umberto, ma si era davvero messa con lui o era una sua illusione?, aveva cominciato ad ingrassare, ad appesantirsi. Stava a dieta da anni (quasi cinque) per non superare il peso forma. Ed era sempre lì a lottare con bilancia, massaggi e conteggio delle calorie. Ma chi aveva stabilito quel maledetto peso forma? Umberto l’aveva misurata e pesata, un mese dopo l’inizio della loro relazione, e aveva stabilito che era al limite del peso forma.
(Quello avrebbe potuto dirglielo lei, senza tante misure: i jeans che due mesi prima le erano perfetti ora non si allacciavano più neppure se si sdraiava sul letto e teneva il fiato fino a morire.)
Erano cominciate le conferenze sui cibi sani. Pesce ai ferri, insalate di stagione. Un bicchiere di vino, non di più.
Laura aveva continuato ad aumentare di peso: meno mangiava più si sentiva goffa e pesante.
Nonostante la dieta. Prima aveva mangiato qualsiasi schifezza e la bilancia era stata ferma ad un rassicurante 55 chili che con il suo uno e sessantadue era un ottimo peso forma. Ora basava una lista di focaccia intravista nel banco del fornaio e il peso schizzava in su.
E se metteva peso amen: aveva bisogno urgente di conforto. Odori, colori, forme del Mercato orientale erano meglio di un Tavor.
L’istinto o forse l’abitudine di anni, perché aveva studiato al liceo a due passi da lì e quello era il suo rifugio quando marinava, le rifecero fare i vecchi percorsi: i banchi con erbe aromatiche e spezie. Ci sentivi un profumo che altro che Dior e Gucci e Je t’adore.
Rosmarino, maggiorana, origano, dragoncello, mentuccia… Pepe nero, verde e rosa… Laura se le passò in rivista centellinandosi quei nomi. E senza sensi di colpa, perché, lo dicevano tutti, gli aromi non ingrassano.
Umberto li odiava, per lei sapevano di mamma.
Alla terza volta che passava davanti al suo banco preferito, quello che teneva i mazzetti essiccati, si sentì chiamare: — Laura. — Veramente, non Laura, ma Laurà.
Quella voce! Si fermò.
Da quasi cinque anni non la vedeva ma quella era Zobeida!

Ampia, nera, con turbante afro, rosso e giallo e marrone. La bocca grande e gli occhi che spiccavano candidi su tutto quel nero e quei colori.
Fece appena in tempo a girarsi che si trovò fra le sue braccia. Materne, senza essere soffocanti.
— Laurà, Laurà, da quanto non vieni più qua.
La voce di Zobeida era melodiosa e insieme tonante. Qualcuno si girò, ma solo un attimo. I genovesi veri non palesano curiosità, da nessuna parte. E al Mercato Orientale ancor meno, sono più concentrati che nella chiesa della Consolazione che è lì a due passi.
— Zobeida, Madame Zobeida — farfugliò Laura fra quegli abiti che sapevano d’Africa.
Già Zobeida la sistemava comoda sullo sgabello dietro il banco e la guardava. Più attenta lei di un medico. — Sciupata, Laurà. Mangi?
— Sì che mangio. Ho anche messo peso.
— Peso, peso. Cos’è questo peso? — Si mosse facendo oscillare il suo corpo carnoso. — Tu sei triste.
Laura tirò su con il naso.
— Non dire di no alla tua amica Zobeida. Tu sei triste, bambina mia. — La riguardò. — Solo un uomo stronzo può ridurre così la mia bambina così intelligente. Uomo stronzo?
— Uomo stronzo.
— Lo ami?
In quello Zobeida era più precisa di un bisturi.
— Non lo so.
Zobeida sistemò meglio il turbante. — So cosa ti serve. — Si chinò sul banco e pizzicò da un bel po’ di contenitori, mettendo il tutto in un sacchetto che poi porse a Laura. — Ecco qui, bambina mia, questo ti farà bene. — Perché, secondo Zobeida, tutto passava dal corpo, anzi dalla bocca. Il bene e il male. Aveva aromi per tutto. La gente credeva che vendesse salvia e ginepro per l’arrosto, cannella per il vin brûlé… Lei vendeva rimedi per malinconia, collera, tristezza, infusi per la felicità e per l’armonia.
Laura prese il sacchetto. — A cosa serve?
— Tuo il malanno, tua la cura. Non trovi la cura se non vedi chiaro.
— Come lo prendo?
La risata di Zobeida riuscì a scuotere non solo il suo ampio petto, ma anche l’imperturbabilità di chi stava gironzolando in zona. — Mica una medicina! Hai un bel tegame di coccio?
Laura annuì, era proprio cambiata di brutto: un tempo avrebbe riso con Zobeida, ora voleva solo fuggire via prima che qualcuno la notasse (e magari lo dicesse a Umberto).
— Ci metti tre o quattro belle cipolle, olio d’oliva. Poi una bella spolverata. Te la mangi calda con pane e ci bevi un bel vino che fa sangue.
Da quanto non mangiava cipolle? No: con i Negroni aveva spiluzzicato la ciotola con quelle sottaceto.
Umberto odiava le cipolle. Anche l’aglio. E tutto quello che dava sapore.
— Ora vai, Laurà. E non dimenticarti della tua amica Zobeida.
Così Laura lasciò il mercato con il suo sacchetto in borsa. Non ne avrebbe fatto nulla… Non digeriva più le cose piccanti, anche se le bastava sentir nominare qualcosa di saporito per avere l’acquolina in bocca.
No, non si sarebbe cucinata le cipolle: non voleva star male. Doveva partire. A far cosa non lo sapeva, ma partire doveva.
Per dimenticare la voglia di quel bel tegame di cipolle con pane e vino a volontà si buttò in Via San Vincenzo. Negozi e negozietti. In una bottega di intimo era esposta una guepière da urlo. Nera, di pizzo, con nastri rosso fuoco.
Umberto non avrebbe apprezzato, ma lei, almeno una volta, uno sfizio voleva toglierselo. Un po’ da puttana… ma i nastri erano dello stesso rosso di smalto e rossetto.
Entrò cercando di non pensare. Era della sua misura. Finì per prendere calze abbinate e pantofoline con un tacco vertiginoso. E la vestaglia di pizzo che non copriva niente… Soldi ne aveva.
Nel portone incrociò una vicina. La sua occhiata la trapassò da parte a parte. Salirono insieme sull’ascensore e quella non riuscì a trattenersi (Laura aveva scommesso con sé stessa che la vicina non ci sarebbe riuscita e si sentì soddisfatta di sé per averla imbroccata).
— Ha cambiato pettinatura, signorina Arnolfini?
— Sì, vado in vacanza. Ho pensato di rinnovarmi un po’ — le rispose tenendo la fronte alta. Che spettegolasse pure, lei si piaceva.
— Sta bene. La ringiovanisce. Ma già, lei è giovane.
Laura annuì. Aveva ragione: era giovane, anche se per un po’ l’aveva dimenticato.