CLELIA

Non avrei mai pensato che proprio io, Clelia Samperi, mi sarei spinta così in là! Andare a parlare con l’amante, anzi l’ex-amante, del mio fidanzato.
Salire nella sua auto, prendere un aperitivo con lei…
Eppure, ieri sera l’ho fatto, di incontrare mio padre o Umberto non c’era pericolo. Mio padre era a Roma. Umberto a Milano.
Se l’ho fatto è stato per lui, per Umberto. L’ho visto così avvilito di non riuscire ad avere le giuste gratificazioni sul lavoro. È capace, mio padre gli dà quel po’ di appoggio che non guasta… e continua a restare al palo: “facente funzione di caposettore”.
Cosa vuol dire? Che non vogliono nominarlo caposettore, aspettano qualcuno da fuori. Per metterlo davanti a lui.
Ho detto “vogliono”, ma è un “vuole”; il soggetto è l’ingegner Garavini.
Mio padre non l’ha detto, ma è chiaro.
E se Garavini non vuole è perché qualcuno lo sta mettendo contro Umberto. Chi può averne motivo? Soltanto la sua ex, incidentalmente collega.
Umberto… Tutto questo gliel’ho fatto dire a spizzichi e bocconi. Era molto reticente, non voleva parlare male di una collega, ma alla fine ha ceduto e mi ha raccontato tutto. Come lei è arrivata alla TEXA dopo di lui, quando lui era già “facente funzioni”.
Lei, prima gli ha impedito di mettersi in luce, ora lo sta ostacolando.
Per questo sono andata a parlarle. Veramente volevo vederla, conoscerla…
Perché Umberto mi ha descritto una donna fredda, avida, vendicativa. Ma come ha fatto a resistere per anni con una donna così? Forse ne era innamorato.
La amerà ancora?
Anche per questo sono andata a conoscerla: per rassicurarmi. Avrei trovato una donna davvero sgradevole e mi sarei tranquillizzata: Umberto era mio, senza rimpianti.
È simpatica. Un uomo può innamorarsi davvero di una così.
Sì, è molto decisa, più di me. Pim pum pam: date, indirizzi, controlli.
Non mi abbasserò a controllare. Se in un rapporto manca la fiducia reciproca, manca l’essenziale.
Me l’ha detto Umberto.

LAURA

È sabato sera e ho voglia di una notte genovese, così telefono a Maura e le propongo di uscire insieme, ma lei mi risponde che è stanca.
Maura stanca? Non vorrei aver perso un’amica.
Così esco da sola.
Aldo lo trovo al Vague. Un posto più tranquillo di quelli che frequenta di solito. A ripensarci, anche quando l’ho chiamato per ringraziarlo di tutto, l’ho sentito un po’ diverso.
Al Vague è tutto solo in un angolo, con un bicchiere di vino… Vicino agli scaffali dei libri. Sta tastando un libro di poesie. Da quanto ricordo dalla mia adolescenza, un libro di poesie in mano è un sintomo classico di innamoramento.
Lucy, il mio modello di innamorata, quando entrava nella stagione degli amori, leggeva, in bagno e a letto, le poesie del dottor Zivago (il libro, invece, non l’aveva mai letto tutto, saltando quelle pallate su guerra e rivoluzione e tutta l’ultima parte quando lui non è più con Lara). Mentre di solito si orientava su Tex, Topolino e Connelly (che poi le metteva spavento e per esorcizzare la paura doveva raccontarmi tutto nei minimi macabri dettagli, concludendo “tanto a te non fa paura niente”)
E così Aldo ha un libro di poesie in mano. Fingo di non notare la fretta con cui il libro viene posato ed al suo posto afferrato, come salvagente o copertura, un volume dallo scaffale vicino.
Mi avvicino ad Aldo e al libro sulla spedizione di Nobile verso il Polo. In copertina, bianchi, grigi e una tenda rossa. Povero Aldo!
Lui rialza il viso e mi guarda. — Salve, Laura. Ti trovo bene.
— Anche tu. — Vero e non vero. È vestito meglio del solito, ma è meno vivace. — Faccio segno alla cameriera di portarmi un bicchiere come quello di Aldo e mi siedo accanto a lui. — Grazie per la casa: hai fatto un lavoro meraviglioso.
— Per gli amici… — Pausa. — Come è stata Ginevra?
— Ho lavorato da matti, sai, per divertirci non c’è stato tanto tempo.
Rimaniamo per un po’, zitti. Vorrei dire qualcosa, ma non so cosa. Non sembra il solito Aldo cui poter dire senza problemi la prima cazzata che viene in mente, certi di non offenderlo, di non spiazzarlo. Al massimo di farlo ridere. Ma ridere fa bene.
Aspetto tanto che Aldo finalmente si decide a sbottare. Veramente parla a voce così bassa che, ci fosse musica di sottofondo un filo più alta, sentirei solo un borbottio. — La mia vita è ad una svolta, Laura. — Beve un sorso. — Sei stata tu a farmi capire che non potevo continuare così per sempre, eterno ragazzo. Che dovevo impegnarmi…
Oddio, io gli ho davvero detto qualcosa di simile? Non solo con Lucy, ma anche con Aldo ho giocato a fare giudice e Lanterna? Con Lucy posso avere la scusante di essere consanguinea, affezionata a Matteo come ad un fratello, zia dei diavoli pupastri… Ma Aldo! Impossibile: Aldo deve aver frainteso. Mi preparo a rimetterlo sui giusti binari, ma lui continua impavido, ora anche a voce un pitin più alta. — In fondo potrei far fruttare il mio diploma di geometra. Dare un calcio al posto fisso e aprire un’agenzia immobiliare.
Un gran sollievo, nei territori “lavoro e affini” mi muovo con meno timore. Sono le faccende di cuore a spaventarmi. — Ti piacerebbe?
Gli occhi di Aldo ammiccano. — Eh, sì che mi piacerebbe! I soldi, dannati soldi! Sono quelli che mi mancano, anche per cominciare. Mi ci spacco la testa.
— Un leasing? — gli propongo. — Agenzie nazionali aprono succursali. Ci hai pensato?
— No, che referenze posso dare?
— Geometra. Se non provi non riesci. Avresti meno libertà… ma per cominciare non sarebbe male.
— Un posto mio. — Rigira il bicchiere. — E se finisco con le chiappe a terra?
— Ti rimetti in piedi e ti freghi le chiappe. Prima o poi il dolore passa. Dai, sei bravo.
— Io un po’ in ufficio e un po’ in giro. Mi ci vorrebbe qualcuno fisso. Per le faccende tipo ufficio: di tutto un po’. Rispondere al telefono, tenere un archivio…
— Ne hai parlato con Maura? — Lo dico e subito me ne pento. Perché mi sono ricordata, soltanto dopo aver aperto la mia gran boccaccia, che Maura è innamorata di lui. (Come potrà dirgli di no? E se dirà di sì… lavorare a fianco a fianco…)
— No.
Un no così rapido da essere spiazzante. Risolve il mio problema, ma è stato TROPPO rapido, come se neppure un pensierino ci si potesse fare. Quasi offensivo: per Maura e pure per me, che l’ho sponsorizzata. — Avete litigato? Mi sembravate buoni amici.
Aldo giocherella con il libro di viaggi che ancora è sul tavolo. — Amici? Ci si conosce da anni, non è che ci si sia mai frequentati davvero.
— Ma per la mia casa avete lavorato bene insieme.
— Eh, sì…
O sono rincretinita di colpo o anche Aldo è afflitto dal medesimo male di Maura. Tutti e due contemporaneamente dopo che hanno passato insieme più tempo del solito.
Sto cercando di valutare se mi lascio portare fuori strada da assurde fantasie quando mi squilla il cellulare.
— Ciao, Laura, sono Tom.
Tom? Fatico un attimo a mettere a fuoco la persona collegata al nome. — Oh, Tom, come va? — E trattengo con un gesto Aldo che si sta allontanando.
— Bene. Sai uno di questi sabati vengo a Genova, pensavo di fare un salto a trovarti.
— Sì, certo, Tom. Ti rivedo con piacere.
Saluti da una parte e dall’altra. Forse Tom vuole ricominciare, anzi avviare una relazione. No, non è il caso. Amici e stop.
Mi giro verso Aldo. — Uno che ho conosciuto a Ginevra.
— Simpatico?
Lo studio con attenzione: c’è interesse amichevole, ma neppure un segno di gelosia. Per fortuna Aldo non si sta innamorando di me.
Non ho voglia di un’altra storia. Non sono pronta.
Voglio amici, allegria. Un’illuminazione. — Ho deciso di festeggiare la casa nuova, uno di questi giorni. Sei il primo sulla lista. E non dirmi che non puoi perché mi offendo. — Se lui è il primo, la prima è Maura.
A tutti è capitato di vedere un film in costume, quelli con i minuetti. Lui e lei aprono le danze… Aldo e Maura.

Domenica

Ho una sensazione strana. Come buttare una pietra in uno stagno: i cerchi si allargano, si allargano, si allargano…
È come se i cambiamenti nella mia vita stiano cambiando anche le vite di chi mi sta vicino: Lucy, Matteo, Aldo, Maura. Umberto, forse Clelia. Che poi siano miglioramenti è tutto da verificare.
Telefono a Lucy. — Se oggi sei a casa vengo a trovarti.
— La casa nuova? Non hai da sistemarla?
— È vivibile.
— Matteo porta i bambini ai baracconi. Ho la lavastoviglie guasta da tre giorni, domani viene l’operaio. Ho da stirare. Ne ho una pila eterna. Ho anche compiti da correggere.
— Se do noia…
— Figurati, Laura. Almeno mi sfogo un po’. Ho il cuore pesante.
Non ho mai sentito mia sorella dire una frase così aulica. È più sul genere “ne ho le palle piene”. Sono preoccupata davvero. Con il mio biglietto ho combinato un disastro? Probabilmente sì.

La cucina di Lucy, di solito con una tranquilla e rassicurante aria vissuta, somiglia a uno spot, prima dell’arrivo di Mastro Lindo.
L’acquaio è pieno di pentole e piatti. Certo, è uno di quelli piccoli, da incasso, non quello grande alla genovese, di marmo… Ma i piatti sporchi sono tanti davvero. — Devo lavarli, Laura, ho cercato di tirare fino a domani, ma ho finito anche il servizio buono.
— Piatti usa e getta?
— Servizio buono di pentole. Usa e getta non le hanno ancora inventate. E ai bambini non posso dare sempre precotti.
— In due facciamo presto.
Sembra proprio un pomeriggio sereno. Insieme cominciamo a lavare. Come un quadretto tratto da “Le piccole donne” con le sorelle che si vogliono bene e si aiutano.
La pila degli sporchi si è già ridotta parecchio…
All’improvviso Lucy posa il tegame che aveva in mano e che sta strofinando per eliminare il segno di bruciato. — È inutile.
— No, sta andando via.
— Non dicevo di questo. — E con un colpo sposta il tegame. — Quello che ho non va via strofinando un po’.
— Marco…
— Che Marco e Marco. Su quello ci ho fatto una croce. — Scoppia a piangere. — Anche se lo amo da impazzire.
Poso la mia pentola e la abbraccio stretta. — Dai, Lucy.
— Dai, dai, a forza di dai e dai, di coccole e tenerezze il guaio è successo. Sono di nuovo incinta!
Rimango zitta. Ricordo bene che Lucy, qualche mese prima mi ha confessato che avrebbe volentieri fatto un altro bambino. Che anche se è fatica tirarli su però…
— E così di lasciare Matteo nemmeno parlarne.
— Gliel’hai detto?
— A nessuno, non l’ho detto a nessuno. Figurati, se lo dico a Matteo! La sua faccia contenta! Non so se riuscirei a sopportarla. Questo bambino. — Si posa una mano sullo stomaco, un po’ troppo in alto, per la verità. È biologa, ha avuto due figli, la nostra mamma ci ha spiegato tutto da quando eravamo piccine… Dovrebbe sapere che il cantiere è più in basso. — Non che non lo voglia, ma avevo deciso di farmi coraggio e di dire a Marco che ero innamorata di lui. Non si può pensare solo agli altri — indica la cucina con un gesto vago. – Anch’io sono una persona, non solo una moglie e una madre. Avrei confessato a Marco il mio amore, lui mi avrebbe confermato quello che ho già intuito, che è innamorato di me. Così ci saremmo rifatti una vita.
Melò.
Se c’è una cosa che mi dà sui nervi è il melò.
— Lui non si è mai fatto avanti per correttezza.
Un’altra cosa che mi dà sui nervi è ritenere corretti gli uomini fifoni.
— Temeva di spaventarmi — aggiunge Lucy. — Se avessi avuto il coraggio di dirgli che i suoi sentimenti erano ricambiati, mi avrebbe parlato. Ora saremmo insieme.
Ancora una cosa che ma dà sui nervi: ritenere gli uomini così timorosi di spiazzare le donne. E così non riesco a trattenermi: — Lo sa, Lucy. Lo sa.
— Lo sa? — Lucy smette di grattare pignatte.
— Gliel’ho detto… — mi impapino. — Veramente gliel’hai detto tu, ma sono stata io a farglielo sapere…
— Spiegati.
Ecco, il gelo nella voce di Lucy dovrebbe farmi capire che devo negare, inventare una palla qualsiasi. Quando voglio riesco ad inventare delle palle che sembrano più vere del vero. La verità è troppo pericolosa.
Dannazione a mamma che mi ha educata a non mentire, soprattutto nelle situazioni peggiori. “Almeno hai il conforto di essere nel giusto. E se sei agitata ti imbrogli ed è ancora peggio.” C’è tutta mia madre in quelle frasi: l’integrità e il senso pratico.
— Spiegati, Laura.
— Gli ho dato un biglietto dove c’era scritto che lo amavi. Di tuo pugno e firmato Lucy.
— Quando?
— Prima di partire per Ginevra.
— Come l’hai avuto? — la voce di Lucy è sempre più fredda.
— Anche quando eri ragazzina seminavi bigliettini con dichiarazioni d’amore. Ne ho preso uno e gliel’ho messo in tasca.
Silenzio.
— Ti rendi conto di cosa hai fatto?
— Tu eri innamorata di lui, non avevi il coraggio di dichiararti. L’ho fatto al posto tuo. L’ho fatto per bene. — Concludo, sentendomi nel folto gruppo di quelli che ammazzano per migliorare il mondo: per bene.
— E così ora è tutto risolto, vero? Lui sa che lo amo, ma non si è fatto avanti. Fine della storia. Infatti: fine. — Lucy si alza. — Vattene. Non voglio più vederti.
— Lucy…
— Vattene.
A quel punto dovrei capire che più parlo peggio è, invece la mia boccaccia sente l’esigenza di continuare. — L’ho fatto anche per Matteo, non capiva cosa ti stava capitando. Pensava che tu fossi malata e continuava a trovare bigliettini amorosi. Destinati a M. Era convinto che tu fossi gravemente malata e cercassi il suo aiuto.
Ma le ultime parole le borbotto già nel corridoio e poi nell’ingresso, mentre Lucy, che è sempre stata la più robusta delle due, mi trascina fuori di casa.
Il colpo con cui mi spinge oltre la soglia mi lascia quasi tramortita. Rimango lì, ebete e scema, a ricevere sacca e giubbino e quest’urlo che farà la felicità dei condomini pettegoli.
Le Arnolfini: ci hanno viste nascere e venir su allevate da una famiglia un po’ sgemba. Tutti si aspettavano che prendessimo una cattiva strada. Invece affiatate e normali.
Affiatate non più.
Fanculovattenebruttastronzanonfartipiùvedereacasamia.

Bella scema, bella scema, me lo grido allo specchio. A quella scema che ho davanti e che ha finto di essere dio onnipotente.
Con Lucy? Rapporto finito. Mia sorella. Mi ha sbattuto fuori di casa sua, alla grande, tirandomi anche giù dalle scale sacca e giaccone e gridandomi:
— Fanculovattenebruttastronzanonfartipiùvedereacasamia.
Tutto così senza prendere fiato che credevo mi morisse, lei che non riesce a stare con la testa sott’acqua neppure mezzo secondo perché dice che le manca l’aria.
Il peggio è che ha ragione.

Matteo arriva due ore dopo. Occhio spento, faccia grigia. Ha pianto.
Mi frego gli occhi per nascondere che sto piangendo. — Cosa c’è, Matteo?
— Mi ha sbattuto fuori, Lallina. Almeno sapessi perché. Non me l’ha detto.
Lucy può essere innamorata, ma sa mettere insieme gli indizi. Mica scema, lei, ha capito presto che il bigliettino incriminato deve esserle stato sottratto dal marito. E così ha deciso di prendersela anche con lui.
— Vedrai che le passa. Lo sai, quando si avvicina Natale è sempre un po’ nervosa.
— Mica è colpa mia se i miei ci vogliono a mangiare da loro.
A quanto so, a Lucy è sempre piaciuta la grande famiglia di Matteo. — Non ti preoccupare.
— Ti dispiace se dormo qui?
— Se ti va bene il divano letto in soggiorno.
— Benissimo. Se non ti rovino qualche incontro.
— Niente. Sono di nuovo single.
Si guarda attorno. — Simpatica. Più dell’altra. Per fortuna che avevo l’indirizzo sul palmare.
— Hai mangiato?
— Non ho fame, Lallina. Ho lo stomaco chiuso.
Per fortuna che ha lo stomaco chiuso perché fra una cosa e l’altra fa sparire le due pizze surgelate nel freezer e la vaschetta di gelato al cioccolato, salvagente dei momenti di tristezza.
Poi si sistema comodo nel divano letto dicendo che darà un’occhiata al calcio per scaricarsi… Proprio soltanto per passare il tempo che senza i bambini non passa mai.
Mi chiudo in bagno a guardarmi allo specchio e a darmi della scema. Io sì che non sono riuscita a mangiare niente, forse oppressa dalla colpa.
Ritorno in soggiorno, sperando di trovare una parola di conforto in Matteo, il mio quasi fratello. A chi posso spiegare il panico che mi sta prendendo alla gola.
Ho sbagliato tutto…
Oppure posso confortare lui, anche quello mi farà sentire meglio.
Matteo si è scaricato così bene dalla tensione che si è addormentato di colpo con il telecomando in mano. Per fortuna che ha il guscio di gomma, perché, conoscendolo, presto lo farà cadere a terra. Quando non avevano il guscio, Lucy doveva comprare telecomandi nuovi a raffica. Si vergognava tanto a dire che li faceva cadere suo marito che tirava in ballo i bambini.
Tanto che quello del negozio le aveva consigliato di essere più severa.
Lucy, Matteo e i pupastri sono una famiglia e so di averla distrutta. Io, non Lucy, non quel tipo egocentrico. Non il povero addormentato davanti alla tv.
Piano me ne vado in camera. Che dorma! Se si è addormentato così deve averne bisogno.
Prendo una scatola di Kleenex e mi siedo sul letto.
Non ho mai sentito così vuota la mia vita. Perché anche nei momenti peggiori c’è stata Lucy. Mi immergo in progetti di riconciliazione e li scarto uno dopo l’altro.
Lucy non mi perdonerà mai.
Perché ora Lucy sa che Marco non l’ama.
Chi ha detto che ambasciator non porta pena ha detto una gran cazzata. La porta, eccome.
Per completare il quadro, verso le undici, quando ormai mi sono rassegnata a prendere un tranquillante per dormire qualche ora, arriva un’altra telefonata. Forse è Lucy…
È mia madre. Un sobbalzo. — Ciao, mamma, sta male papà?
— Perché dovrebbe stare male? — Pausa. — Sì, se vuoi saperlo, sta male, come sto male io. Cosa è successo con Lucy?
— Niente, ma’. Ho fatto una sciocchezza.
— Mi ha telefonato e mi ha raccontato quello che hai combinato.
— Pensavo di far bene.
— La prossima volta pensa di più. Lucy sta male davvero.
Quanto ha raccontato Lucy? — Sì, certo.
— Matteo è lì da te?
— Sì, ha mangiato e si è addormentato.
— Bene, Lucy temeva che avesse fatto una sciocchezza.
— Devo dirgli che può tornare a casa?
Sento mia madre consultarsi con Arnolfini padre e poi: — Meglio che aspetti qualche giorno, un po’ di quarantena. Ma potrebbe telefonarle. Diciamo per dirle che le vuol bene o per i bambini.
Ecco, i bambini: chi dice che non servono?
— E io?
— Lucy non ti vuole neppure sentir nominare. Due figlie che non si parlano! Proprio a me doveva capitare!
— È lei che non mi vuole parlare.
— Ha ragione. Se non fosse stato per sapere di Matteo, che si era tutti in ansia, neppure io ti avrei chiamato.
Riattacca.
Bene: ostracismo completo.
Fra poco sarà lunedì, bel modo di cominciare la settimana lavorativa.

Il venerdì prima di Natale
Io sono qui, in solitario, a darmi della bella scema davanti allo specchio. Di venerdì sera.
Rimpiango la collera verso Umberto, rimpiango il desiderio di vendetta: almeno mi sentivo viva.
Alt! Non voglio più vendicarmi? È vero: il desiderio di vendetta è scomparso. Quando? Non me ne sono resa conto… Forse allontanarmi da Genova per un po’, non vederlo. Forse le parole ed i fatti che testimoniano l’apprezzamento di Garavini.
La mia vendetta è inutile, ci penserà lui a rimettere le cose a posto, sul lavoro.
E il cuore? Dopo la mia fallita recita nella parte di dioonnipotente nella storia di mia sorella Lucy, non mi sento più così sicura di me. Anche Clelia… Ecco, mi fa pena.
Ma tutto smorzato. Mi sento morta.
Fra l’altro non ho ancora avuto abbastanza sprint da organizzare una festa per la casa nuova.
Devo essermi rincoglionita: ho tanto desiderato questa casa, è proprio come la sognavo, come quella prima di Umberto… Ma io sono cambiata. Non la sento mia.
Vedo un pitin di mare, i tetti, il cielo, i vicini sono simpatici, ho fatto già qualche amicizia. Ma mi sento di passaggio. Non ho sballato tutti gli scatoloni con i libri, li ho soltanto aperti per pescare il mio salvagente (Conrad, I duellanti). Anche i CD: tutti imballati. Non ho voglia di musica.
Me ne sto seduta a rimuginare. L’acquisto dei doni natalizi, di solito così divertente, è stato faticoso. Cosa regalare ad una sorella che ti tratta da appestata assassina? Eppure, un dono gliel’hai sempre fatto. E lei te lo farà? Una corda con il nodo scorsoio bello fatto? Una coppa di cicuta?
Le ho comprato una cintura con le borchie e le frange. Poi mi sono ricordata che il suo giro vita sta lievitando. Un tempo ci saremmo fatte una bella risata su un dono così poco azzeccato. Ma ora? Ho ripiegato su una pirofila da forno, di marca. Comprata da Radif, non al mercato.
A Matteo un paio di pantofole, come tutti gli anni.
Ad Arnolfini padre pure.
A mamma, dopo tanto pensare, anche a lei una pirofila da forno.
Gli unici facili sono stati i pargoli indiavolati che tramite il padre mi avevano comunicato che si aspettavano mostriciattoli vari.
Anche fare regali ad Umberto non era facile, perché MAMMA avrebbe indagato sulla provenienza. Sapendo che usava i gemelli il nostro primo Natale avevo preso quelli di acciaio con l’iniziale in oro.
Non glieli ho mai visti.
Lui mi ha sempre regalato una confezione di profumo. Quest’anno niente profumo.
Una storia finisce e lascia certi piccoli vuoti assurdi.

Venerdì sera
È passato il Natale e anche il Capodanno, ora siamo a metà gennaio.
Mi sento in colpa per Lucy. E per Matteo.
Da quella famosa domenica mia sorella non mi parla, comunichiamo solo per interposta persona. Matteo è stato perdonato, dopo un breve periodo di purgatorio, e non riesce a capire che cosa è successo fra me e sua moglie. Di certo non mi sono sognata di spiegargli il motivo della lite.
Il pranzo di Natale è stato una tortura: fino alla fine ho sperato che Lucy andasse dai genitori di Matteo. Invece Lucy ha deciso di passarla con mamma e papà, a Rapallo. Forse per farmi soffrire di più.
Per tutto il tempo non mi ha rivolto la parola. Perché i miei mi hanno invitato; freddi, però.
Freddi con me, fra di loro caldi amichevoli.
Ormai tutti sanno della nascita e Matteo sprizza gioia. Attribuisce le stranezze della moglie alla gravidanza.
L’unico neo nella felicità totale è la mia personale infelicità. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse importante Lucy per me.
Mia madre mi parla. A stento. Ho commesso una delle poche colpe che riconosce: impicciarmi, non richiesta, nella vita degli altri.
È stata la reazione materna ad impedirmi di portare a termine un progettino su Maura ed Aldo. E ora mi sento in colpa per non averlo fatto: sono due tipi tosti, ma girano con l’aria di cani bastonati. (Fra l’altro non ho ancora festeggiato la casa nuova)
Quando sono insieme si evitano, quando sono lontani si cercano. Dannazione, nessuno dei due ha il coraggio di fare il primo passo.
Capodanno l’abbiamo fatto in gruppo: quei due non hanno fatto un ballo insieme. Forse hanno paura di prendere fuoco, se si toccano.
Un po’ per noia, un po’ per educazione e, forse, riconoscenza, ho provato varie volte a chiamare Giovanna: senza risultato.
Che sia in veste di Nelly con il suo Rodolfo?
Dannazione, come sembrano lontani quei giorni!
Anche se è venerdì sera me ne sto rintanata in casa.
Casa? Ho anche perso quello slancio di renderla abitabile. Questa è un posto dove essere felici, dal terrazzino si vede anche il mare e i tetti e le terrazze sono belli quanto il mare. Non sono felice.
Ha telefonato Tom, due o tre volte, ma ho tagliato corto.
Non ho voglia di andare a letto con lui. È un buon amante, senza dubbio meglio di Umberto, ma non ne ho voglia.
Ho una sorella, Lucy, che non mi parla.
Ho un’amica, Pupa, che non risponde alle mie telefonate.
Ho un’amica, Maura, così presa dai suoi casini che non riesce a capire neppure una frase semplice.