Tornano Raistan Van Hoeck e Guillaume de Joie, alle prese con nuove avventure e nuovi incubi. Vi ricordiamo che la storia è adatta solo a un pubblico adulto.

1

Un ampio soggiorno disadorno, in cui gli unici pezzi di mobilio erano un grande divano di pelle nera e un impianto home theatre contro la parete opposta, anch’esso nero.

Sul divano, due figure immobili e candide, simili a statue, giacevano abbracciate, una alle spalle dell’altra. Occhi chiusi. Non un accenno di respiro a spezzare il silenzio perfetto della stanza. Unica illuminazione una lampada a stelo, nera, accanto allo stereo. Luce soffusa, calda, intima.

A un tratto la figura più vicina al bordo del divano aprì gli occhi, rivelando iridi di un blu simile al mare prima di una tempesta. Non cambiò posizione. Non fece assolutamente niente. Sembrava soltanto prendere coscienza del luogo in cui si trovava. Le braccia dell’uomo alle sue spalle lo circondavano. Non stringevano, ma esprimevano comunque un forte senso di possesso. Una mano passava sopra la spalla e ricadeva all’altezza del cuore; l’altro braccio gli cingeva la vita. Una gamba sulle sue e i corpi che aderivano l’uno all’altro come una cosa sola.

Raistan dietro, Guillaume davanti. Su quel divano da più di 48 ore, senza quasi parlare. Nutrendosi l’uno dall’altro quando la sete si faceva sentire, sprofondando nel sonno quando la natura lo imponeva e amandosi con pigra rilassatezza quando uno o l’altro ne sentiva il bisogno.

Perfetto accordo, tranne che per il tacito rifiuto di Raistan di invertire le posizioni. Ogni volta, Guillaume aveva avvertito il disagio levarsi dal partner e non ha insistito. Andava bene lo stesso, purché gli fosse concesso di bere il suo sangue.

“Forse dovremmo…” borbottò, ma percepì la stretta dell’Olandese farsi più salda attorno al suo corpo e sospirò. Diavolo, a continuare così li avrebbero ritrovati mummificati su quel divano. Ci sarebbe voluto sangue umano, a un certo punto, inutile raccontarsi storie.

“Cheri, ho bisogno di muovermi” disse e si svincolò finalmente dal suo abbraccio. Notò la fulminea espressione di dolore sul viso dell’amico prima che l’impassibilità riprendesse possesso dei suoi lineamenti. Lo sentì sbuffare e vide il suo corpo ripiegarsi, come se la solitudine lo rendesse vulnerabile. Si alzò e fece ruotare le spalle un paio di volte, per riattivare la muscolatura, lo sguardo fisso sulle sembianze del compagno che gli appariva bello come un angelo caduto, anche se i capelli erano arruffati e il contorno delle labbra sporco di sangue secco. Mon ange… pensò e si abbassò per accarezzargli il viso.

“Dove te ne vai, fiorellino?” sussurrò l’Olandese, con voce rauca.

La sua paura più nascosta, quella che non avrebbe rivelato neanche sotto tortura, era che per il Francese quelli siano stati solo piacevoli momenti di sesso, senza un seguito. Anche lui avrebbe voluto che fosse così. Non avrebbe voluto provare nulla di quello che sentiva. Non l’attrazione quasi irresistibile. Non l’ansia per la separazione. Non il bisogno.

Non l’affetto.

Si odiava per esserci cascato come un allocco, lui che aveva giurato a se stesso di non affezionarsi mai più a nessuno. In quei due giorni si era ripromesso più e più volte di riprendere le distanze dal maledetto Francese, ma ogni suo gesto di gentilezza, ogni sua parola sussurrata con passione o dolcezza lo avevano avvicinato sempre di più a quell’abisso che sono i sentimenti.

“Visto che mi rifiuto di nutrirmi di quelle sacche disgustose che tieni nel tuo freezer, penso che uscirò per trovare compagnia per cena, e dovresti farlo anche tu” annunciò Guillaume stiracchiandosi. “Personalmente mi sento come se un rullo compressore mi fosse passato sopra e io so quanto del tuo sangue ho bevuto in questi giorni. Devo anche passare da casa per vedere Eloisa, non vorrei che si preoccupasse.”

“Hai risposto ai suoi SMS, sa che non sei morto. Non capisco che fretta ci sia…” borbottò Raistan, e si voltò di schiena con uno scatto fulmineo che tradiva la sua irritazione.

Guillaume restò a guardarlo perplesso, poi si abbassò di nuovo su di lui e gli baciò con dolcezza una spalla. “Se ci rimettiamo in forze, dopo possiamo ricominciare. Abbiamo tutta l’eternità, Raggio di sole…”

“Bene, vai, fai come ti pare. Se torni e non mi trovi, non te ne stupire. Anche io ho una vita, sai?”

“Lo so e non intendo privartene. Tu non farlo con me, va bene?”

Quando Guillaume si avviò verso la porta ed uscì, richiudendola con delicatezza dietro di sé, Raistan rimase immobile, con le mani imprigionate tra le ginocchia. Forse per non vederle tremare. Si alzò soltanto quando la sete diventò insopportabile e si avviò con passo malfermo verso la cucina. Prima però accese la TV. Tutto quel silenzio lo faceva sentire ancora più solo.

Ma sì, va tutto bene. Anche se non torna, chissenefrega, sei sempre stato da solo, non hai bisogno di nessuno. Così dev’essere. Fai che sia così. Allontanalo, o ti spezzerà il cuore. Non ti puoi fidare di nessuno, solo di Shibeen. Solo lei ti ama. Solo lei tiene a te. Già. E allora perché non è qui?

Versò il sangue in una grande coppa e lo tracannò in pochi, frenetici sorsi, ma arricciò subito il naso: aveva un gusto così diverso da quello di Guillaume, o dal sangue fresco. Eppure si sforzò di berlo, perché l’idea di uscire era qualcosa che lo annientava del tutto, debole com’era.

Se tornerà gli dirò che se ne deve andare definitivamente e riprenderò la mia vecchia vita. Sì, farò così. È stato un divertente passatempo, ma deve finire qui e lui se ne farà una ragione. Non è un neonato e non lo sono nemmeno io. Ho la mia vita e lui ha la sua, lo ha detto chiaro. Amici come prima, ognuno per conto proprio.

Cazzo, ma quanto faceva schifo, quel sangue? Anche se aveva ancora sete gli sembrò di avere una mano artigliata alla gola e non riuscì a inghiottirlo. Si aggrappò al lavello, serrando gli occhi, con la sensazione che il suo stomaco si fosse risvegliato come per magia, dopo tre secoli, solo per trasformarsi in una serpente impazzito. Alla fine non resistette e rigurgitò ogni stilla di quello che aveva ingoiato a fatica, imprecando e maledicendo il mondo intero.

Barcollò fino in camera, attivò la chiusura blindata della porta, quella con la combinazione che teneva fuori gli intrusi, poi si buttò sul letto e nascose la testa sotto il cuscino, pregando che il torpore lo soccorresse prima possibile.

2

La notte accolse Guillaume de Joie come un figliuol prodigo infinitamente amato. Lo avvolse in un abbraccio possessivo, cullandolo tra le sue spire amorevoli.

Lui non era in grado di ricambiare quell’amore, non in quel momento.

Gli era costato troppo staccarsi da un altro abbraccio, più di quanto riuscisse ad ammettere. Sarebbe stato per poco, il tempo di nutrirsi, e di procacciare nutrimento anche per lui, per Raistan, si ripeteva, mentre percorreva le vie oscure, veloce come un respiro.

Una pioggia sottile velava l’asfalto trasformandolo in una lastra argentea. Spinto dall’urgenza di tornare, più che da quella di trovare ciò per cui era uscito, Guillaume fermò la macchina nel primo luogo il cui degrado avrebbe potuto garantirgli una caccia fruttuosa e soprattutto veloce.

Una ragazza sedeva al riparo di una pensilina che non avrebbe visto passare un autobus almeno fino al mattino dopo. Ma non era un autobus che stava aspettando. Era la grande fuga, il salto nel vuoto, l’ultimo bagliore prima dell’oscurità. Guillaume non ebbe bisogno di bere il suo sangue o di leggere i suoi pensieri per saperlo. Gli bastò guardarla attraverso il parabrezza punteggiato di pioggia per riconoscere il vuoto dell’anima dietro gli occhi troppo truccati. Quella ragazza camminava un passo dietro alla morte, perché perfino quest’ultima si era dimenticata di lei.

“Posso fare qualcosa per te, cherie?” le domandò. Si era materializzato davanti a lei senza un suono, un angelo paludato di bianco, le mani in tasca del soprabito che gli pendeva sulle spalle come un paio di ali flosce e madide. Conosceva già la risposta, e probabilmente la conosceva anche lei, perché dopo lo stupore iniziale le sue labbra si incurvarono in un sorriso.

“Sei venuto a prendermi” mormorò. Non era una domanda. Se lo fosse stato avrebbe contemplato la possibilità di un rifiuto, e non c’era più spazio per i rifiuti, in quel corpo macilento, in quello sguardo prosciugato di ogni speranza.

Guillaume rispose al suo sorriso, porgendole la mano con un gesto galante. Lei accettò l’invito, e non ebbe paura nemmeno quando avvertì quanto fosse fredda quella pelle bianca. Era giusto che fosse così. Gli angeli venivano dal cielo, dovevano essere freddi come le nuvole, come la neve.

Le sedette accanto, avvolgendola nel soprabito. Lei gli si accasciò sulla spalla con un singolo sospiro, come se all’improvviso i fili che la trattenevano fossero stati recisi. L’angelo aveva un odore così buono, di erba bagnata e pioggia, di fiori di carta e biscotti. La riportava ai pomeriggi della sua infanzia, quando tutto era così pulito, innocente come maggio. Le venne da piangere.

“Anche tu hai un buon odore” le sussurrò lui, ed era vero. Sotto il profumo dozzinale la sua pelle aveva una fragranza intima e perduta. Con le punte delle dita gelide raccolse le lacrime che le erano scivolate lungo le guance, nere di trucco. Ne seguì il percorso fino alle labbra, indugiandovi un istante, poi giù, fino al collo e al seno scarno lasciato impietosamente scoperto dall’eccessiva scollatura. Le labbra scesero a ripercorrere lo stesso tragitto, fermandosi sul collo tiepido, tra i capelli scoloriti. Lei reclinò il capo da un lato, docile, affondando il volto nelle pieghe vellutate del soprabito bianco.

Quando l’angelo entrò in lei lo fece senza alcun dolore, solo una puntura lieve, una puntura buona. Subito il dolore iniziò a scorrere via, e tutto il male, in rivoli scarlatti. Le dita di lui tra i capelli la carezzavano gentili, mentre la cullava piano nel suo abbraccio. Non si sentiva così amata da un tempo infinito.

Quando Guillaume si staccò da lei la sentì afflosciarsi come un fiore tra le sue mani. La posò delicatamente contro la parete di plexiglass della pensilina e le sistemò i capelli intorno al volto. Con gli occhi chiusi e i lineamenti distesi appariva così giovane. Avrebbe voluto coprirla di fiori e adagiarla in una bara di cristallo, come una principessa di una fiaba triste.

Ma ovviamente non avrebbe fatto nulla del genere.

Le sfiorò la fronte con un bacio e si alzò, dispiegando il soprabito.

Ora doveva pensare a Raistan.

Il pensiero di lui, solo, il corpo bianco come un ferita nella pelle nera del divano, lo colmò di un inaspettato languore. Non era avvezzo ad avere un luogo in cui tornare. Le sue passioni erano effimere come il colore delle foglie, capricciose come il vento. Perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso? Eppure l’Olandese lo richiamava prepotentemente a sé e alla penombra del salotto, al torpore cosciente che avevano condiviso. Era il richiamo del sangue, ma non solo. Guillaume era troppo coerente per mentire a se stesso, ma era anche incosciente, a suo modo. Non aveva senso interrogarsi riguardo quell’attrazione, non fintanto che assecondarla gli dava piacere. E non perché la vita fosse breve, au contraire! Proprio perché era lunga, eterna, un susseguirsi di notti identiche ad altre notti, un rosario sgranato infinite volte, fatto di preghiere solitarie e prive di significato. Non sarebbe stato certo lui a privarsi di quella novità.

Non gli fu difficile individuare il protettore della ragazza della pensilina. Gli bastò seguire le tracce nel sangue di lei, nei suoi ricordi dolorosi. Nessuna delicatezza per lui, nessuna soavità. Gli angeli sanno essere crudeli.

Lo tramortì e lo caricò in macchina. Era bello grosso, Raistan avrebbe avuto di che saziarsi, e quando avesse finito, Guillaume avrebbe potuto ricominciare con lui senza timore di prosciugarlo.

3

“Consegna a domicilio!” annunciò, entrando nel salotto.

Trascinava l’uomo svenuto per la collottola, come un sacco. Fu con un certo disappunto che non trovò Raistan dove lo aveva lasciato. Eppure era ancora nella casa, ne percepiva la presenza.

Lasciò il suo fardello e percorse le stanze silenziose, fino alla porta della camera da letto. Chiusa.

“Olandese, sei lì?” domandò, bussando.

Al di là della porta, sul letto, Raistan alzò di scatto la testa dal materasso, una staffilata di sollievo a percorrerlo come una scarica elettrica. Subito dopo ricordò il proposito che si era imposto e si tirò la coperta sul capo. Aveva percepito l’odore di umano ferito e la sua sete si era acuita al punto da seccargli del tutto la bocca in pochi secondi, ma era abituato a sopportare. Quando fosse riuscito a liberarsi una volta per tutte dello scocciatore Francese sarebbe uscito e avrebbe rimediato.

“Tornatene a casa, lasciami in pace.”

Un silenzio attonito aveva accolto le sue parole, seguite da alcuni deboli gemiti maschili. Lo pensava così inetto da aver bisogno che qualcuno gli procurasse la cena?

“Non ho capito. Che cos’hai detto, cheri?”

“Sei sordo, cazzo? Ho detto di andartene e di lasciarmi in pace. Il giochino è finito, tanti saluti!”

Altro silenzio, pesante come un macigno. Raistan desiderava e temeva nello stesso tempo il momento in cui avrebbe sentito la porta d’ingresso richiudersi. Sapeva che la solitudine gli sarebbe apparsa ancora più spaventosa, ma era solo questione di qualche giorno. In fondo per lui era la normalità, faceva in fretta a riabituarsi.

“Andiamo, non farai così ogni volta che uscirò per cenare, vero? Apri, ti ho portato un tipo bello appetitoso! Si sta riprendendo, però, se non vieni a prendertelo dovrò giocarci io…”

“Fai come ti pare, basta che alla fine tu pulisca.”

Guillaume non stava apprezzando per niente quel cambiamento così radicale nell’atteggiamento di Raistan. Che fosse lunatico lo aveva capito, ma non riusciva a comprendere quel voltafaccia improvviso.

Appoggiò un piede sulla schiena dell’umano ai suoi piedi, che stava dando segni di risveglio sempre più evidenti, e si passò una mano tra i capelli.

“Dai, piantala di fare la primadonna, apri questa porta! Qualunque cosa abbia fatto per contrariarti, ne possiamo parlare seduti di fronte a un bel drink. O hai paura a guardarmi in faccia e dirmi quello che devi?”

Si accettavano scommesse su quanti minuti Raistan avrebbe resistito a una sfida del genere, se lo conosceva. L’umano spalancò gli occhi e tentò di rimettersi in piedi, masticando imprecazioni, ma Guillaume lo rispedì a terra con un calcio nelle reni ben piazzato, sferrato con noncuranza.

La serratura scattò e l’Olandese apparve sulla soglia con un’espressione che prometteva tempesta. Si era rivestito con un paio di boxer neri e una maglietta grigia; aveva i capelli ancora più arruffati e gli occhi stretti in due fessure che mandavano lampi. A Guillaume apparve ancora più bello. Non riuscì a trattenere un sorriso.

“Ohhh, bonsoir, mon ami… sapevo che puntare sul tuo coraggio era la mossa giusta. Allora? Che cosa c’è che non va? Guarda cosa ti ho portato, ti piace? È bello in carne e nessuno sentirà la sua mancanza. Prego, serviti, è tutto tuo. Io ho già cenato!” esclamò allegro, strizzando l’occhio a Raistan che lo fissava con la medesima espressione ostile.

Si tolse il soprabito e scavalcò l’umano che stava di nuovo cercando di alzarsi e prometteva terribili rappresaglie tra un lamento e l’altro, poi si lasciò cadere sul divano, ostentando una sicurezza che in realtà non provava. Iniziava a sentirsi furioso, per dirla tutta. Come si permetteva l’Olandese di prendere decisioni che coinvolgevano anche lui senza nemmeno discuterne? Era davvero completamente pazzo e agiva solo in base all’impulso del momento?

Quando l’umano riuscì a rimettersi in piedi, Raistan volse gli occhi su di lui con aria distratta, poi gli abbrancò il capo e glielo torse in maniera fulminea. Lo schiocco secco delle vertebre che andavano in frantumi risuonò nella stanza come una fucilata, così come il tonfo del suo corpo quando ripiombò a terra, inservibile. Sul viso gli era rimasta stampata un’espressione di totale sorpresa e un sottile rivolo di sangue prese a colargli da un orecchio, decorato da un anello d’oro grosso come una noce.

Raistan si passò il dorso della mano sulla bocca e alzò gli occhi su Guillaume, il cui volto si era paralizzato in una maschera di gelo: “Mi so ancora procurare il cibo da solo, fighetto. E adesso alza il culo dal mio divano e vai fuori di qui, portandoti via la tua immondizia.”

Detto questo si voltò per tornare in camera, scostando i capelli di lato con un gesto nervoso della mano.

Gelo e compostezza. Questo ci si aspettava da lui.

Questo soprattutto Guillaume si aspettava da se stesso. Era un immortale che aveva assistito allo scorrere dei secoli senza esserne toccato. Più di quattrocentotrenta anni gli erano passati attraverso senza scalfirlo. Ma Guillaume De Joie aveva fatto molto di più. Era stato presente ad avvenimenti storici che avevano mutato il destino dell’umanità. In una certa misura aveva preso parte ad alcuni di essi, ponendo il proprio veto sul capo delle generazioni future. Era stato testimone di vicende che avevano coinvolto i vampiri più antichi e potenti del mondo. Aveva prestato il suo braccio e il suo consiglio a regnanti e capi dei maggiori Clan. Si era schierato nei contenziosi tra opposte fazioni, a volte sostenendo contemporaneamente entrambe le parti. Ovviamente all’insaputa l’una dell’altra. Aveva contribuito a sedare faide che duravano da secoli. In alcuni casi aveva contribuito a scatenarle. Ma la perfezione non è di questo mondo.

E ora quell’Olandese pretendeva di suscitare una qualche reazione in lui, di infrangere l’imperturbabilità conquistata nel corso dei secoli con bizze inaccettabili perfino per il più irragionevole dei neonati. Era il colmo! Non gli avrebbe dato certo la soddisfazione di vederlo furioso. Non gli avrebbe permesso di vedere quanto a fondo lo ferisse quel rifiuto, e proprio in un momento in cui aveva mostrato il fianco.

Gelo e compostezza. Qualsiasi sentimento bandito, qualsiasi emozione che si fosse concesso in quegli ultimi giorni, in quelle ultime notti senza fine, messa da parte.

Rimase a fissare la figura di Raistan che occupava quasi interamente il vano della porta, il volto composto in una maschera inespressiva.

Poi, con un gesto fulmineo, staccò la testa del pappone e la scagliò con violenza contro di lui, centrandogli la nuca. Senza attendere una reazione fece lo stesso con un braccio, poi l’altro, lanciandoli attraverso la stanza come in un macabro tiro a segno.

Raistan si voltò di scatto, tradendo la tensione con un ringhio, ma quando si accorse di cosa stava combinando il Francese la sua espressione, da irata, si fece prima incredula e poi divertita. Allora era possibile scalfire la corazza del piccolo bastardo, se ci si impegnava a fondo…

L’aspetto inquietante della faccenda era l’assoluto silenzio di Guillaume mentre portava a compimento lo scempio del cadavere. Non un grido di rabbia, come ci si sarebbe aspettati. Non imprecazioni, insulti al suo indirizzo, nemmeno minacce, niente. Solo gli orribili suoni della carne che si lacerava e i tonfi raccapriccianti delle membra quando piombavano a terra o centravano il bersaglio, mentre il Francese lo fissava con sguardo mortifero.

“Hai finito? Stai sporcando dappertutto, fiorellino. Non mi piace.”

“Fammi causa, cheri” ringhiò Guillaume, guardandosi intorno come a cercare qualcos’altro da fare a pezzi.

“Basta che tu pulisca, prima di smammare…”

“Prima devi crepare” ringhiò Guillaume con ancora maggiore ferocia. Com’era possibile che quell’essere riuscisse ad attentare in quel modo al suo autocontrollo, qualcosa di cui era sempre andato fiero?

Eccolo lì, conciato come se si fosse rotolato sul pavimento di un mattatoio, a scambiare battute di bassa lega con quel pazzo.

“Non in questo secolo, fiorellino…” ridacchiò Raistan.

“Non ci scommetterei, sei a rischio.”

“Devo impressionarmi?”

“No, ma mi metterei in guardia. Fammi divertire un po’.”

“Ohhh, sì, divertiamoci entrambi, allora…” rispose l’Olandese, avvicinandosi di qualche passo con aria spavalda e un sorriso diabolico, gli occhi che brillavano di folle divertimento.

“Alla buon ora! Vediamo quanto ti sostiene la merda in plastica che ti sei bevuto!”

“Non ho bisogno di bere un cazzo per spaccarti quel bel culetto bianco, stronzo…”

“Vediamo chi spacca il culo a chi, scimmione!”

“Fatti sotto, frocio” ruggì Raistan con tono letale. Contemporaneamente si acquattò in posizione di attacco, mostrando i denti e soffiando come una tigre inferocita. Per un attimo, un orribile attimo che quasi gli diede le vertigini, si chiese come fossero arrivati a quel punto nel giro di un paio d’ore.

Perché ti comporti così? La domanda. La maledetta domanda che Shibeen gli aveva posto talmente tante volte da stentare a ricordarlo era lì che gli vorticava nella mente come un’insegna al neon, di una malata sfumatura di rosso. Ma adesso conosceva la risposta. Vero? Vero? Quel bastardo stava tentando di… cosa? Di fare cosa?!

Guillaume se ne stava immobile di fronte a lui e non faceva nulla. Niente di niente. Si limitava a guardarlo con pazienza inesorabile.

“Allora? Troppa fifa, stronzetto? Paura di sporcarti il tuo bel completino? Vedo già qualche macchia… Fare a brandelli umani ha controindicazioni, per gli abiti bianchi…”

“Mi prendo il mio tempo, Olandese. Perché, vai di fretta?”

“No, anzi. Ho intenzione di prendermela con molta calma, con te, prima di sbatterti fuori al sole.” L’Olandese aveva preso a muoversi avanti e indietro davanti a Guillaume, le mani che si allargavano e si stringevano, i muscoli che si tendevano in un’equivocabile danza di guerra.

“Beh, rallegrati, hai tutta la notte per girarmi intorno…” rispose lui, con le labbra carnose arricciate in un sorriso crudele “… visto che ti è passata la voglia di impiegare il tempo in modo più costruttivo…”

“Chi dice che fosse più costruttivo? Era distruttivo, invece. Comunque, se proprio insisti…”

Con una finta rapida come un battito di ciglia, Raistan si spostò sulla sinistra, per poi attaccare dal lato opposto. Sferrò un violento pugno al viso del Francese, aspettandosi che lo schivasse e sorprendendosi quando andò a segno.

Guillaume rimase immobile. Semplicemente. Non cercò di parlare o di abbassarsi. Lasciò che il colpo lo investisse in pieno e gli spaccasse un labbro. Il setto nasale scricchiolò in modo sinistro. Indietreggiò soltanto di qualche passo e socchiuse gli occhi per un istante, attraversato da una scarica di dolore, mentre il sangue gli colava come un torrente dalla bocca lungo il mento.

Poi riaprì gli occhi, fissò Raistan e sorrise di nuovo.

“Tutto qui, bifolco?”

Ancora nessun accenno di movimento. Le mani abbandonate lungo i fianchi, tranne quando ne sollevò una per sfiorarsi le labbra e osservare per un istante il proprio sangue con espressione ineffabile, remota.

“No, ho appena iniziato.” Il sorriso sfrontato era scomparso dal viso di Raistan. Adesso era furioso, anche con se stesso, perché in realtà non gli era piaciuto colpirlo. Aveva sentito qualcosa spezzarsi anche dentro di sé e aveva accolto quella sensazione con orrore crescente. Che diavolo stava facendo, santo dio?

Sferrò un altro pugno al volto di Guillaume per cancellare quel sorrisetto dalla sua faccia e di nuovo lui incassò, retrocedendo di un passo per la violenza del colpo, il collo che si fletteva dolorosamente all’indietro, il sangue che schizzava fino al soffitto.

Lo vide chiudere ancora gli occhi e riaprirli solo per fissarlo, i bei lineamenti contratti. Poi il Francese sollevò due dita per afferrarsi il naso, che aveva assunto un’angolazione anomala, e lo rimise in sede con un movimento secco. Gli occhi erano insolitamente brillanti, nel volto tumefatto.

“Ancora, Olandese” sibilò, il sorriso finalmente evaporato dal volto.

Raistan lo accontentò, colpendolo al viso un’altra volta, ma trovava orribile la sua immobilità e la sua passività. Voleva solo chiudere quegli occhi che lo trapassavano come spilloni ardenti. Voleva solo che smettesse di fissarlo. Il pugno fu particolarmente violento e si abbatté sulla mascella di Guillaume, di lato, accompagnato da un ruggito selvaggio. Le ossa scricchiolarono, mentre una miriade di crepe si diramavano dal punto di impatto, irradiandosi come una ragnatela di dolore urlante attraverso il cranio. Questa volta Guillaume volò all’indietro, andando a rovinare contro la parete. Restò accasciato per un momento, i capelli biondi che gli ricadevano in avanti a coprirgli il volto, la mano a saggiare l’integrità della mascella. Rialzò il capo, reggendo con le dita la parte inferiore del viso, che il sangue aveva trasformato in una maschera grottesca. Solo gli occhi scintillavano, in quello sfondo scarlatto, chiari come il mattino, limpidi come vetro. Fissavano ancora Raistan, come se volessero imprimersi nella retina la sua figura. Quando si riassestò la mascella il rumore fu terribile quanto doveva esserlo il dolore che provava.

Poi si staccò dalla parete, barcollando appena, scosse la testa e si avviò verso la porta.

Raistan lo fissò incredulo per un momento, ansimando in modo irregolare, poi scattò come un lampo verso la porta e ci si piazzò davanti ringhiando, curvo in avanti come se fosse sul punto di scattare.

Si sentiva malissimo. Avrebbe voluto mettersi a urlare, forse anche a piangere, abbracciarlo e non lasciarlo più andare, la rabbia sostituita da un orribile senso di colpa, ma tutto quello che si limitò a fare fu sospingerlo all’indietro.

“Dove cazzo credi di andare? Eh?!” ruggì.

“Mi sembrava mi avessi invitato ad andarmene da un pezzo, Raistan” rispose Guillaume con voce distante, come se parlasse da un altro luogo. Da un altro tempo. “Il giochino è finito. Tanti saluti. Alza il culo dal mio divano e vai fuori di qui. Non è così che hai detto?”

Sollevò di nuovo una mano a raccogliere il sangue che gli colava dalla bocca e dal naso spaccati.

Dalla sua imperturbabilità sembrava emanare un gelo artico, una solitudine siderale.

“Inoltre sto sporcando il tuo prezioso pavimento. Togliti dalla porta e lasciami passare. È meglio per tutti…”

Raistan perse quel briciolo di controllo che ancora conservava. Lo colpì di nuovo e soltanto per impedirgli di andarsene, ora. E quando Guillaume cadde, lo abbrancò per la camicia e lo colpì ancora.

“No” ringhiò.

“No?” scandì il Francese, prima che un altro colpo si abbattesse su di lui.

Ma fu l’ultimo.

Con uno scatto alzò le mani e bloccò i polsi di Raistan. Una presa ferrea, non dolorosa, ma inamovibile. Poi lo costrinse a guardarlo negli occhi. “Non hai ancora finito, Van Hoeck?” sibilò, sputando sangue.

Raistan tentò di sottrarre i polsi alla sua presa, ruggendo di rabbia.

“Lasciami. Lasciami o comincerò a prenderti a calci. Lasciami!” L’inaspettata resistenza gli fece venire di nuovo voglia di picchiarlo e quel groviglio inestricabile di sentimenti contrastanti quasi lo fece urlare.

“Ah… i calci. Giusto…” Guillaume si passò la lingua sulle labbra. Non mollò la presa, ma si alzò, facendo leva sul resto del corpo. “No, credo tu abbia già dato il meglio di te. Togliti dalla mia strada, Raistan…” disse, con la voce che si incrinò appena nel pronunciare il suo nome. “… non voglio farti del male.”

“Allora perché me ne stavi facendo? Eh, bastardo? Perché?” urlò Raistan, con disperazione nella voce e negli occhi. Cercò ancora di sottrarre i polsi alla presa di Guillaume, ma poiché non ci riusciva gli sferrò una testata violentissima sul naso. “PERCHE’?!!!”

Guillaume lo lasciò e portò entrambe le mani al volto. La sua imperturbabilità sembrò incrinarsi impercettibilmente e Raistan, seppur preso dal suo parossismo di rabbia, percepì per la prima volta lo sforzo spaventoso che doveva costargli non reagire.

Quando il Francese parlò di nuovo, lo fece tra i denti. “Hai ragione. Hai proprio ragione, Van Hoeck. E io avevo torto. Adesso, per l’ultima volta, togliti dalla porta e fammi uscire da questa casa. Preferisco serbare il ricordo di te nudo su quel divano piuttosto che smembrato sul pavimento. Fatti da parte.”

Raistan gli rifilò un’altra spinta che lo fece indietreggiare di diversi passi, il viso distorto nella furia e nella disperazione.

“Non mi hai risposto. Non mi hai risposto, cazzo, perché non hai le palle per rispondermi? Io… sarebbe andata come tutte le altre volte. Voi vi prendete un pezzo di me e poi mi lasciate solo. Lo fate sempre tutti. Tutti. E io… non voglio più…” Rimase davanti alla porta con le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa bassa, poi, come se avesse preso il coraggio da chissà dove, si scostò per farlo passare, ma senza osare guardarlo.

Il silenzio cadde pesante tra loro, un silenzio sospeso, che avrebbe potuto preludere alla fine del mondo o al nulla. Fu Guillaume a spezzarlo. Se nel suo petto avesse albergato ancora il respiro avrebbe sospirato.

“Sei veramente un essere assurdo, Raistan Van Hoeck. Trecento anni solo per fotterti il cervello più di quanto non dovesse già essere fottuto quando eri vivo.”

Di nuovo scosse il capo, e all’improvviso sembrò accusare tutte le percosse. La bocca assunse una piega amara e lui si passò le dita sugli occhi, massaggiando le palpebre. “E io sono più assurdo di te, questo è anche più grave. Massacri di botte tutti i tuoi amanti o solo quelli a cui ti affezioni particolarmente?” domandò e nella sua voce vibrò per un istante l’eco dell’antica irriverenza.

Raistan non gli rispose, il capo chino.

“Sto parlando con te, Olandese, e ti assicuro che l’impresa richiede un certo sforzo, visto come mi hai conciato la faccia. Tu es une bête…”

Una stilla di speranza si stava diffondendo nel cuore morto dell’Olandese, paralizzato dal rimorso e dalla paura. Tutto quello che riusciva a fare, tuttavia, per il momento, era fissarsi le nocche insanguinate delle mani e scrollare la testa con aria esausta. Gli sembrava di essere imprigionato in un incubo, sapendo di dover fare qualcosa, dire qualcosa, per non far svanire l’unica chance che aveva di trattenerlo, ma non ci riusciva. Scrollò di nuovo la testa, vinto.

“No, est ce que tu n’es pas une bête?” lo incoraggiò Guillaume, come se si stesse rivolgendo a un bambino recalcitrante. Allungò le dita e gli cercò il mento dietro la cortina impenetrabile dei capelli. Glielo afferrò tra le dita e lo sollevò. “Sono le bestie che non hanno il coraggio di guardare in faccia le loro paure, Raistan. Le bestie e i vigliacchi.”

Il tono era tranquillo, ma dalle sue parole non traspariva alcuna emozione, come se le avesse bandite ai confini di sé, lontano da quella stanza, da quel momento.

“Ora, non sei un vigliacco, almeno non credo. Quindi restano solo due alternative, n’est-ce pas?”

“Sono entrambe le cose, temo. Una bestia e un vigliacco.” Raistan si sottrasse al tocco di Guillaume e chinò di nuovo la testa, indietreggiando. “Niente con cui valga la pena mischiarsi, ne c’est pas? Almeno adesso lo sai. Nessun rimpianto, quando te ne andrai. Ti ho fatto un favore…”

Guillaume lasciò cadere la mano lungo il fianco.

“Il favore me lo hai fatto quando sei entrato in quel bagno, Raistan Van Hoeck. E quando mi hai aspettato fuori da quel pulcioso locale” disse, scrollando le spalle con noncuranza. “Ti do l’impressione di essere uno che vive di rimpianti? O che non sa con chi valga la pena immischiarsi? Apri gli occhi, Olandese!” Lo afferrò per le spalle con una presa ferma, ma gentile. “Te l’ho già detto una volta, te lo ripeterò ancora e poi basta. Se sono qui non è per necessità, non è per disperazione. Solo per scelta. E se ora varco quella porta sarà per una tua scelta, e nient’altro. Posso perdonarti se mi riduci la faccia a una tartare, ma non pretendere di decidere cosa sia meglio per me. Ci hanno già provato un paio di volte e nonostante tutto sono riuscito a sopravvivere finora! Ora, ripetimi che vuoi che me ne vada. Che vuoi che esca da quella porta e dalla tua vita e non torni più. Ma guardami negli occhi mentre lo fai” disse, lasciando la presa sulle spalle dell’Olandese.

Dopo quella che parve una vita intera, Raistan alzò lo sguardo per un attimo, puntando gli occhi nei suoi. “Vattene e non tornare più” disse, poi abbassò di nuovo gli occhi, solo per alzarli un’altra volta con aria di sfida mentre faceva roteare le spalle massicce, come se si stesse preparando a picchiarlo di nuovo.

Non ce ne fu bisogno.

In un attimo Guillaume fu all’esterno, nella notte gonfia di pioggia trattenuta, solo un’ombra argentea al limitare del prato, il soprabito bianco simile a un paio di ali in procinto di aprirsi e spiccare il volo. A ogni passo aveva l’impressione di avanzare sul filo di mille spade, ma non poteva impedirsi di andare avanti, perché lo strazio che gli dilaniava il petto era più tagliente, più doloroso.

Dietro la porta ormai chiusa, Raistan si appoggiò al legno con la schiena, poi scivolò a terra con le mani nei capelli e lo sguardo fisso nel vuoto. Un istante dopo si ritrovò piegato in due, scosso da conati a vuoto, un braccio premuto sullo stomaco e l’altro come sostegno, per non crollare a terra.

E adesso? E adesso? Ascolta il silenzio, piccolo idiota. Ascoltalo. Sarà di nuovo la tua unica compagnia. Ti piace? Ti piace davvero?

Colto da un impulso disperato l’Olandese si alzò, spalancò la porta e si scagliò fuori, sul prato, guardandosi attorno febbrile, sperando di individuare la chiazza bianca del Francese da qualche parte nel buio della notte. Quando finalmente lo vide, gli sembrò di precipitare in un abisso per poi risalirlo a velocità impensabile, come quella della propria corsa. Non diede a Guillaume nemmeno il tempo di voltarsi prima di travolgerlo nel suo abbraccio, stringendolo a sé con un torrente di parole in tante lingue diverse che gli sgorgavano dalla bocca, incontrollabili. Guillaume ne colse soltanto un paio. Quelle che lo trattennero dall’annientarlo.

“Ti prego…” ripeteva l’Olandese, il volto nascosto contro la sua spalla, le mani che gli accarezzavano il petto per poi tornare ad artigliarsi ai suoi vestiti. Pronunciava quelle parole, ma senza una vera speranza. Quelli come lui ne avevano poche, dopo gli atti orribili di cui si macchiavano. Eppure non riusciva a smettere. Se solo… per una volta…Ti prego…

Non vide gli occhi del Francese chiudersi, né il suo volto contratto sciogliersi per un sollievo che negava persino a se stesso.

Il corpo nel soprabito sembrò sul punto di svanire, di sciogliersi in nebbia, in rugiada. Guillaume subiva quell’abbraccio come ogni altra cosa, quella sera. Subiva perché se avesse dovuto agire, se avesse dovuto prendere l’iniziativa nei confronti dell’Olandese, lo avrebbe ucciso. Eppure a un certo punto si voltò, sciogliendosi dalla stretta di quelle braccia e di nuovo afferrò Raistan per le spalle, spingendolo contro il tronco di un platano i cui rami frondosi disegnavano una cupola d’ombra nel prato. Gli prese il volto tra le mani e cercò con la bocca la sua, in un bacio duro, che gli corrose come vetriolo la carne martoriata.

Raistan rispose al bacio con altrettanta urgenza, afferrandolo per i capelli, mugolando nella sua bocca parole che nessuno avrebbe mai colto, poi si staccò dalla sua bocca e gli accarezzò il viso in modo frenetico, tastando le ferite con delicatezza e posandoci sopra piccoli baci, come per cancellarle, gli occhi fissi nei suoi a contenere un rimorso e una richiesta di perdono che non poteva esprimere a parole. Poi lo abbracciò ancora, abbassandosi a nascondere il viso contro la sua spalla, deciso a non lasciarlo più andare.

Guillaume sopportava quella dolcissima tortura. Ogni carezza di quelle dita, di quelle labbra sommava dolore al dolore, ma ci sarebbe stato tempo e modo per lenire quella sofferenza.

“Vieni, torniamo dentro” sussurrò tra i capelli dell’Olandese, avvolgendogli il capo con la mano. Lo sospinse dolcemente attraverso il prato, l’umidità della sera che impregnava l’orlo dei pantaloni e copriva le scarpe lucide di rugiada. Sapeva che Raistan aveva bisogno di nutrirsi, ma intuiva anche che in quel momento lui era tutto ciò di cui aveva bisogno.

Rientrarono in casa, aggrappati l’uno all’altro. Perfino quando si lasciarono cadere sul divano Raistan non lo lasciò, il volto sempre affondato nel suo collo, le braccia che lo cingevano come se dovesse essere per sempre. Per sempre… per sempre era un tempo così dannatamente lungo… Lo sapeva bene lui.

Si accomodò meglio che poteva sul divano, sistemandosi addosso l’Olandese, che continuava a farfugliare parole ineffabili quanto il suo antico dolore.

Per sempre era un tempo così lungo, ma c’era l’adesso, e adesso andava bene così, e quel divano era una zattera alla deriva verso un’alba che avrebbe anche potuto non arrivare mai.