Derek

Tutti la guardammo scendere da quella bicicletta cigolante; la verità era che da quel momento nessuno di noi avrebbe più smesso di guardarla, per un motivo o per l’altro. Quell’affare scassato era tirato a lucido, esattamente come lei, ma avrebbe avuto bisogno di una bella riverniciata, di nuovi copertoni e, di certo, di una passata di grasso su quella cavolo di catena agonizzante.
Che cazzo, avrebbe avuto bisogno di finire in pace i suoi giorni in una discarica, per quanto mi riguardava.
Ma lei scese, come da un cavolo di cavallo bianco, l’addossò con cura al muretto di mattoni e prese dal cestino il suo lucchetto per bici, fece passare il cavo tra i raggi, prima di assicurare i due capi, chiudere il lucchetto e infilare tutta contenta la minuscola chiave in tasca. A vederla faceva quasi tenerezza, come se un giro di catena potesse impedire a chicchessia di portarsi via quel suo catorcio. Quando entrò nel cortile dell’officina, s’era fatto così tanto silenzio che tutti sentimmo le suole delle sue ballerine bianche scricchiolare sulla ghiaia.
Era una visione talmente assurda tra i rottami e le lamiere che dovetti stropicciarmi gli occhi per assicurarmi che il caldo di quella stramaledetta estate non mi avesse fottuto definitivamente il cervello. La visione avanzò con un lucido sorriso color pesca sul faccino lentigginoso. Una morbida treccia rossa era appoggiata sulla spalla sinistra, il suo abitino di cotone verde chiaro arrivava un centimetro sopra le ginocchia mentre lo scollo dritto le solleticava la gola. Una sottile cintura bianca intrecciata le cingeva la vita in abbinamento alla borsetta appesa al braccio. Nessuno fiatava.
Guance morbide, pelle bianca e grandi occhi verdi.
È così che è cominciata.

«Non aggiustiamo le biciclette qui,» dissi accendendo una sigaretta. Quando il fumo che le avevo soffiato in faccia si dissipò, vidi che il suo sorriso si era fatto ancora più luminoso. L’effetto fu lo stesso di un gessetto che stride sulla lavagna.
«Lo so,» replicò semplicemente lei prima di mostrarmi una fila di dentini perfettamente allineati nell’ennesimo, stupidissimo, sorriso.
Faceva un diavolo di caldo, ero stanco morto ed ero solo a metà di quella merdosissima giornata. Non avevo nessuna pazienza per quella cazzo di Cenerentola.
«Sono qui per il lavoro,» disse con un tono appena più acido della melassa.
Quasi mi strozzai con la mia stessa saliva. Le lanciai un’occhiata significativa e sicuramente maleducata prima di dire, a voce un po’ troppo alta: «Mi prendi per il culo, principessa?»
Zio Bern mi rifilò un’occhiata carica di biasimo, certamente meritata, tuttavia lei allungò la sua minuscola manina aspettando con fastidiosa fiducia che la prendessi. «Erin Clare,» si presentò. Anche se sapevo perfettamente chi fosse.
Lasciai andare la sua mano liscia e delicata come se scottasse. «Già, ed è un bel nome; ma non c’è nessun lavoro per te qui.»
La delusione in quei grandi occhi luminosi fu quasi dolorosa da osservare; era come prendere a calci un cucciolo e mi sarei volentieri dato un pugno da solo, ma era meglio così. In città avrebbe trovato di meglio che un impiego in una sudicia officina piena di spostati, avanzi di galera ed ex alcolizzati. Le feci un cenno che voleva dire che avevamo finito, mi voltai e tornai a grandi passi verso la carcassa della Fiat che quell’idiota del figlio del sindaco Shannon aveva piantato contro un palo. Di nuovo.
Decisi che ignorare completamente Erin Clare e la sua bicicletta fosse la scelta migliore, visto che per qualche assurdo motivo la sua sola vista mi faceva l’effetto della sabbia nelle mutande. Per essere sicuro di non vedere neppure la sua schiena lasciare il cortile, tenni lo sguardo fisso sulla carrozzeria ammaccata della Cinquecento per un tempo fin troppo lungo. Mi stavo rendendo ridicolo ai miei stessi occhi. Zio Bern continuava a schiarirsi la voce per attirare la mia attenzione, ma ignorai anche lui e accesi l’ennesima sigaretta. Sapevo già quello che aveva da dirmi. Qualche stronzata sulla buona educazione e le maniere da tenere con una signorina per bene. Come se non l’avessi sentito imprecare come un indiavolato contro ognuna delle sue mogli.
«Ehi, capo.» Muddox, detto Buco per ovvie ragioni, mi sventolò davanti al naso una ricevuta.
Sapendo dove la cosa avrebbe portato, feci un bel respiro e mi preparai mentalmente a non sbraitargli di nuovo contro come morivo dalla voglia di fare. Sua madre si era già presentata una volta per dirmi che non potevo urlare in faccia a suo figlio o si sarebbe sconvolto. La Signora Madre di Buco era una casalinga tabagista di età indefinita, con le dita gialle di nicotina e un guardaroba che prevedeva esclusivamente grembiuli da casa troppo corti. Non avevo nessuna voglia di vedermela piombare in officina un’altra volta. «Che problema c’è, Buco?» domandai con un sospiro, dannatamente fiero del tono calmo e paziente della mia voce.
«Che cavolo se lo so, capo. Il signor Kelly dice che non va bene, ma ho fatto il conto con la macchinetta e… comunque il risultato è giusto. Non capisco perché si lamenti.»
Masticando un’imprecazione, presi il foglio di carta con la punta delle dita per non sporcarlo più di quanto già non fosse e gli diedi un’occhiata. «Amico…» cominciai, ma mi trattenni e mi passai una mano tra i capelli, che tanto erano già un casino.
«È il risultato che conta no?» biascicò il mio prezioso collaboratore, dondolando da un piede all’altro. L’abuso l’aveva lasciato con una perenne energia nervosa e quando era agitato era difficile stargli dietro.
Buco era maledettamente bravo con le carrozzerie, davvero. Un mago a tirare su le ammaccature, ma le sue competenze finivano lì. Non c’era proprio verso che potesse mettere mano alle ricevute e fare da cuscinetto tra me e i clienti come avevo sperato. Buttai il mozzicone e gli restituii il foglietto. «Di’ a Kelly che gli manderò la ricevuta dettagliata via mail entro stasera. Fatti lasciare il suo indirizzo e ci penserò più tardi.»
«Ok, ma tu non… vedi, lui…»
«Adesso ho da fare.»
Non lo guardai andare via con la sua andatura dondolante e gli scatti nervosi, e tornai a fissare come un coglione il muso devastato dell’utilitaria. Kelly godeva a rompermi le palle il più possibile ma quella non era proprio giornata. Chissà cosa era passato per la mente alla principessa delle fate per venire da me a chiedere un lavoro? Mi imposi di non guardare il punto della cancellata dove aveva legato la bicicletta con tanta cura. «’fanculo alle principessine tutte rosa e fiordipanna,» brontolai, infastidendo persino me stesso.
Non era proprio giornata, cazzo.

Erin

A essere sincera, l’odore di copertone bruciato non era un granché. Mi sforzai di sorridere al signore che masticava un sigaro (e che sembrava un vecchio lupo di mare o il capitano sulle confezioni dei bastoncini di pesce surgelati) e, anche se probabilmente non era stato un sorriso all’altezza dei miei standard, Capitan Bastoncini mi mostrò la sua fila di denti un po’ storti.
Era un sorriso quello, o no? Decisi di sì.
Mi sentivo gli occhi di tutti addosso, ma lui era l’unico ad avere uno sguardo gentile. Gli altri sembravano solo… sbalorditi. Come se fossi una specie di drago a tre teste o uno di quegli strani gatti senza pelo. Quelli sì che sono assurdi, davvero, poverini. Vorrei tanto accarezzarne uno per vedere com’è. Allontanai il pensiero dei gatti nudi e sorrisi anche agli altri che mi fissavano con tanto d’occhi. Derek Doyle invece si era limitato a guardarmi come una cosa marrone e appiccicosa raccolta dal marciapiede. Tipico, era stato così tutte le volte che ci eravamo incontrati.
Se non fossi stata davvero disperata e fiduciosa, non avrei neppure fatto quel tentativo. Tuttavia, Ania mi aveva assicurato che Derek era nei guai e che gli serviva qualcuno per la contabilità e le scartoffie. Ero abbastanza brava con le scartoffie e mi ero detta che, beh, provarci non mi avrebbe uccisa. La nonna aveva insistito che mettessi il vestito nuovo che mi aveva cucito, ne era talmente fiera che non avevo avuto il cuore di dirle di no. Quando ero uscita di casa, aveva gli occhi lucidi e mi aveva detto che ero bella come un fiore. Di certo Derek Doyle non la pensava così, ma cosa ne sapeva lui di fiori? Proprio niente, ne ero certa.
Presi un bel respiro e mi passai le mani sulle guance bollenti, certo faceva caldissimo e in più mi ero dimenticata cosa succedeva al mio stomaco quando ero sotto gli occhi di quell’uomo. È davvero imbarazzante, come tanti minuscoli topolini che girano sulla ruota. E girano e girano senza sosta. Mi danno le vertigini e mi distraggono da tutto. A ogni modo, a quel punto lui si era voltato e non sembrava intenzionato a tornare sui suoi passi. Ero stata congedata.
Cercai di non mostrarmi troppo delusa, anche se sembrava che qualcuno mi avesse spruzzato polvere di peperoncino negli occhi; doveva essere per via dello smog. È proprio vero, l’aria non era più quella di una volta. Perché di certo non erano lacrime quelle che premevano per uscire. Oh, no. No no no, non avrei pianto. C’era il sole, io mi ero messa uno stupidissimo vestito nuovo e qualcuno in città mi avrebbe dato un altrettanto stupidissimo lavoro. Ci avrei pagato l’affitto, le bollette e non ci avrebbero cacciate di casa.
Feci per tornare verso la bici che mi aspettava legata al cancello, quando un giovane dall’aria desolata, che borbottava senza sosta, mi si parò davanti bloccandomi la ritirata. «È il risultato che conta no?» brontolò.
Non ero certa che la domanda fosse rivolta davvero a me, tuttavia risposi per gentilezza. «Quasi sempre.» Sorrisi. Il ragazzo si mise a gesticolare con scatti nervosi, tanto che feci un prudente passo indietro.
«Allora dimmi un po’ te perché quel testone di Kelly si lamenta tanto?» disse mettendomi in mano un quadrato di carta leggera. Sempre per gentilezza, e che diamine se non era una cosa davvero sottovalutata, posai gli occhi su una serie di cifre scarabocchiate. Era una ricevuta. Insomma, un tentativo di ricevuta.
Niente su quel foglio sembrava avere un senso. Mentre il giovane mi guardava speranzoso, io sospirai. Puntai il dito sulla cifra finale cerchiata in rosso e chiesi: «Questo è l’importo pagato?»
«Sì, signora… ehm, signorina.»
C’era della soddisfazione nel modo in cui annuiva frenetico. Povera me.
Resistetti all’impulso di bloccargli le braccia lungo il corpo e cercai il suo sguardo sfuggente per spiegargli brevemente dove aveva sbagliato. «Ma vedi…»
Lui mi interruppe, impaziente. «Lì ci devo mettere quello che ha pagato, no?»
«Sì, ma così non è corretto, devi…»
«Quindi tu sai come si fa?»
«Sì, è davvero facile se…»
Senza lasciarmi finire, il giovane mi agguantò per il braccio e mi trascinò attraverso l’ingresso verso un gabbiotto ricavato nella parte posteriore del capannone industriale. Un paio di uomini strisciarono da sotto un’auto e mi guardarono straniti, li salutai agitando la mano libera. «Qui c’è l’ufficio,» spiegò il mio anfitrione, «non fare caso al disordine. Da quando Ania ci ha mollati…»
Una volta tanto fui io a interromperlo. «Ania ha settantadue anni, non vi ha mollati. È andata in pensione.»
«Sì, beh, comunque fa schifo qui,» replicò con un’alzata di spalle.
I vetri erano oscurati da una patina di sporco e tutto sembrava ricoperto da uno strato sottile di polvere nerastra. All’interno, l’odore di gomma era mescolato a quello di caffè bruciacchiato che veniva da una macchinetta incastrata in uno scaffale di metallo pieno zeppo di faldoni, pile di cataloghi ingialliti e pezzi di ricambio.
Sulla scrivania, se così si voleva chiamarla, c’erano altre pile di scartoffie, mucchi di posta da aprire, una tazza scheggiata che fungeva da portamatite, un portatile vecchio come Noè, una stampante nuova di zecca e un blocco per fatture in duplice copia autoricalcante.
«Ehi, tu. Lavori qui?» Un tizio di mezza età, con un completo di lino tutto sgualcito e una camicia bianca, aperta sul petto abbronzato e piuttosto villoso, mi posò una mano sulla spalla per attirare la mia attenzione. «Ho bisogno di quella ricevuta, adesso.» I suoi occhi acquosi mi scivolarono addosso, lasciandomi sulla pelle una sensazione untuosa. Bleah, viscido come una lumaca.
Nervosetto annuì freneticamente, mi mise in mano il blocco e mi spinse verso la sedia da ufficio, aprii la bocca per protestare ma lui stava già dicendo: «Dalle tempo, Kelly. Adesso te la sistema.»
Il giovane mi rivolse un ampio sorriso e si avviò veloce come un furetto verso l’uscita. Feci di nuovo per parlare quando il tizio, Kelly, si mise a fissarmi con insistenza. «Allora? Pensi di farcela prima di sera?»
Scoccandogli un’occhiata severa, almeno nelle mie intenzioni, mi misi al lavoro cercando di venire a capo di quel documento pasticciato. Trovai una calcolatrice nel primo cassetto della scrivania e cominciai a battere sui tasti.
Me la presi comoda, concedendomi di essere un po’ dispettosa, presi il blocchetto, chiesi conferma dei dati del cliente, schiacciai il timbro dell’Officina Doyle sull’intestazione e con uno svolazzo consegnai la nuova ricevuta all’impaziente e viscido signor Kelly. Lui la osservò con occhio critico per qualche istante poi borbottò un ringraziamento, mi rivolse un’altra occhiata disgustosa e mi lasciò a me stessa.
Scivolai lentamente sul bordo della sedia fino ad appoggiare i piedi a terra, di sicuro chi la usava di solito era molto più alto di me. Fui tentata di fare un giro completo sulla vite, o almeno di mandare su e giù la leva che regolava l’altezza, ma mi trattenni, concentrandomi sul caos che regnava nell’ufficio. Avevo già sistemato mentalmente tutta una parete prima di ricordarmi che nessuno in realtà mi aveva assunta o aveva promesso di farlo. Di certo non Derek Doyle, con quei suoi occhi glaciali, il corpo mozzafiato e quelle labbra… Era meglio tagliare la corda. Mi alzai lisciandomi la gonna, preparandomi ad andarmene, quando il vecchio lupo di mare si sporse all’interno. Mi preparai a scusarmi per essere in un posto in cui davvero non avrei dovuto essere, ma non feci in tempo a parlare, di nuovo.
«Oh benone!» esclamò. «Alla signora Martini abbiamo fatto il cambio dell’olio, filtri e pastiglie dei freni,» disse, indicando dietro di sé una donna robusta e accaldata che mi fece un cenno di saluto con un mazzetto di banconote in mano. Boccheggiai come un pesce fuor d’acqua, certa che mi fosse sfuggito qualcosa, ma l’uomo continuò: «Non preoccuparti, tesoro. È tutto segnato lì.» Puntò un dito macchiato di nero verso quello che doveva essere un listino prezzi incorniciato. Il vetro sporco lasciava intravedere gli importi di ogni prestazione e io stupidamente annuii. Poi mi mostrò un cassetto chiuso da una minuscola chiave. «E qui c’è la cassa.»
«Ma io…»
«Farai un ottimo lavoro. Un ottimo lavoro,» disse dandomi un leggero buffetto sul mento. Poi si dileguò, lasciandomi sola con la signora Martini che si sventolava il faccione sudato con le sue banconote.
«Va tutto bene, cara?» domandò, assumendo un’espressione scettica.
«Ma certo, certo,» mi affrettai ad assicurarle prima di rimettermi seduta ben composta e compilare la ricevuta.
Quello doveva essere il momento di punta della giornata, perché i clienti si susseguirono quasi ininterrottamente per la mezz’ora successiva. Venivano accompagnati dai meccanici, che mi rivolgevano grandissimi, deliranti sorrisi. Mi dicevano quale riparazione era stata effettuata e si dileguavano prima ancora che potessi aprire bocca. Approfittai di un momento di calma per trovare qualcuno con cui parlare, per capire se stessi facendo una qualche specie di periodo di prova o cos’altro. Mi affacciai oltre la soglia, ma il vecchio lupo di mare mi si parò di nuovo davanti.
«Eccoti qui, tesoro. Sei un angelo mandato dalla provvidenza, vero? Io credo di sì!» disse d’un fiato con l’ennesimo sorriso storto.
Gli sorrisi anch’io, perché mi era stato insegnato così, poi presi fiato per parlare; una bella boccata, dal momento che erano un bel po’ le cose che volevo dire, tuttavia, di nuovo, non riuscii a espellere neppure una sillaba. Una manona dalle grosse dita ruvide scese sulla mia spalla per un’energica pacca, mi sbilanciai e di riflesso buttai fuori tutta l’aria che avevo immagazzinato, sgonfiandomi come un palloncino.
L’uomo sembrò vagamente imbarazzato, ma prevenne qualsiasi replica con un: «Perché adesso non prepari un po’ di caffè, eh? Sei capace, sì? È tutto lì, nel mobile blu.»
Fece un altro sorrisone e improvvisamente non sapevo più quello che volevo dire.
«Brava ragazza!» esclamò, approfittando della tabula rasa nel mio cervello e se ne andò, veloce come un giaguaro che scompare nella giungla. Mi voltai verso la macchinetta del caffè e sospirai. Se quella era una prova, tanto valeva andare fino in fondo.
Trovai un vassoio, delle tazze da asporto con il coperchio di plastica marrone e guardai il caffè scendere lento.

Derek

Stava filando tutto liscio. Buco saltellava contento attorno alle lamiere della Fiat, lo zio Bern fischiettava soddisfatto e, cosa migliore, Kelly se ne era andato facendomi un cenno con la mano senza trovare necessario venire a rompermi le palle lì dove stavo. Davvero tutto liscio.
Annuii verso Stecco e Biagio, che si prendevano una pausa seduti su dei cassoni. Bevevano caffè dalle tazze di carta e sembravano fin troppo felici. Anche zio Bern li raggiunse con una tazza in mano: se era stato lui a fare il caffè, c’era poco di cui stare allegri. In ogni caso, un caffè schifoso era meglio di nessun caffè: avevo bisogno della mia tazza anch’io. E quella, contro ogni previsione, doveva essere proprio la mia giornata fortunata, perché una tazza fumante si materializzò davanti ai miei occhi. Presi la tazza e subito mi resi conto che qualcosa non tornava. Se tutti stavano davanti a me e nessuno era più in grado di guardarmi in faccia, chi mi stava porgendo il caffè?
Mi voltai di scatto, incontrando due enormi occhi verdi contornati da ciglia color rame; vi colsi l’espressione del cerbiatto quando incontra il lupo. Porca puttana!
«Che cazzo ci fa lei ancora qui?» sbottai verso i miei collaboratori. Ben sapendo che, se Erin Clare se ne andava in giro distribuendo caffè, difficilmente l’idea era stata sua.
Biagio sputacchiò il caffè sul davanti del grembiule di Stecco, che scartò di lato imprecando; zio Bern si nascose dietro la tazza e Buco… Buco neppure dava segno di aver sentito. Mi sorrise alzando i pollici e si concentrò tutto contento sulla sua lamiera fracassata. Mio malgrado, tornai con gli occhi su Erin Clare. La pelle candida delle sue guance era soffusa di rosa, le sue labbra erano strette e, ciononostante, non riuscì a mascherarne il tremito. Se ne stava lì immobile, un agnellino al macello. Mi faceva venire voglia di scuoterla, mi faceva venire voglia di…
«Allora?» la incalzai, agitandole la tazza davanti al naso. Usai un po’ troppa veemenza perché il caffè bollente sbordò, finendole sulla mano che teneva ancora protesa.
Lei emise un piccolo squittio di dolore, lo stesso suono di una coltellata dritta nel mio cuore scuro.
«Cazzo!» inveii, per qualche assurdo motivo ero davvero furioso con lei. Se non fosse stata lì, non le avrei fatto del male. Ecco perché ero nero. Erin si strinse al corpo la mano scottata e mi rivolse uno sguardo esasperato, come se averle gettato addosso del caffè bollente fosse null’altro che uno stupido inconveniente. «Cazzo,» dissi di nuovo, e sì, ero dannatamente ripetitivo, cazzo. «Fammi vedere,» latrai, facendo un passo avanti nello stesso momento in cui lei ne faceva indietro.
«No.»
«Sì!»
«Non credo proprio,» replicò scuotendo la testa come una bambina cocciuta.
«Principessa…» Ghignai, perché con quell’espressione testarda era così deliziosa che me la sarei mangiata in un boccone. «Scommettiamo?» Non mi fermai neppure di fronte ai suoi occhi sbarrati, le agguantai il braccio e vinsi, senza neppure usare la forza, la sua inutile resistenza. Il suo sbuffo indignato mi divertì, ma non ebbi il coraggio di guardarla di nuovo negli occhi. Ero uno stronzo, nessuna novità, però non sempre mi piaceva.
Il dorso della sua minuscola mano era chiazzato di rosso e la pelle delicata un po’ gonfia. A confronto con la sua, la mia mano sembrava quella di orco delle fiabe: grossa, sgraziata, macchiata e troppo forte. Scacciai lo stupido pensiero e la sensazione di toccare quella pelle così pura e digrignai i denti. Tenni la bocca ben chiusa per paura di dire qualcosa di cui poi mi sarei pentito. Mi stava sfuggendo il controllo e la cosa mi dava decisamente sui nervi.
«Andiamo,» ringhiai e la trascinai verso l’interno, facendo attenzione che non sfiorasse nulla di sporco con quel suo vestitino lindo. Il piccolo bagno era stato appena ristrutturato e fui contento di averci speso un sacco di soldi. Andai al lavandino e feci scorrere l’acqua fredda, poi le misi la mano sotto il getto. La sentii trattenere il respiro e ancora una volta mi maledissi.
«Questo non sarebbe successo se…» cominciai, ma un sospiro mi interruppe.
Mi voltai a guardarla e lei si strinse nelle spalle.
«È solo una lieve scottatura,» disse dolcemente, «un po’ di pomata e andrà benissimo.» Il suo tono era poco più che un sussurro ed Erin sembrava perfettamente ragionevole e composta, tuttavia era rossa fino all’attaccatura dei capelli. I suoi occhi erano enormi e spalancati. Mi guardava come se fossi completamente suonato e probabilmente aveva ragione. Fece per ritirare il braccio ma io mantenni la presa salda.
«Ancora un po’,» dissi. La voce di cartavetro.
«Non è necessario. Io…»
«Non avresti dovuto essere qui, tanto per cominciare!» esclamai, più duramente di quanto volessi.
«Be’… il fatto è che…»
«Smettila di tormentarla, Derek!» Zio Bern arrivò sbuffando come una locomotiva, seguito da Biagio e Stecco. Tutti avevano un’aria allarmata. «Le ho detto io di portare il caffè!»
«E io, visto che c’era, le ho fatto fare il conto di Willy,» brontolò Biagio, lanciando un’occhiata di venerazione pura al visetto congestionato di Erin Clare. Lei fece per aprire bocca quando Stecco la interruppe con un: «Diavolo se non sa il fatto suo! Il vecchio Mose era tutto contento quando è andato via con la sua ricevuta. E il suo portafoglio piangeva, te lo assicuro. Quella vecchia bagnarola…»
«Sì sì ho capito, ma…» tentai di inserirmi, anche se sapevo che non si sarebbe fermato finché non avesse finito la sua invettiva.
«… ogni settimana è la stessa storia, a quest’ora…»
I tre annuirono concordi e io smisi di ascoltare l’ennesima tirata sull’auto di Mose; visto che non mi restava che aspettare di tornare su ciò che mi premeva, mi concentrai sull’espressione di Erin. La ragazza guardava i suoi tre difensori con un sorriso appena accennato e una luce benevola in quegli occhi da fata dei boschi. Poi si voltò verso di me e la sua espressione cambiò, un miscuglio di emozioni. Nessuna che mi piacesse davvero. Tirò di nuovo il braccio verso di sé e questa volta la lasciai andare. Grazie a dio non c’erano segni sulla sua pelle, dove l’avevo tenuta.
Le passai un paio di salviette di carta per asciugarsi e lei le prese con un grazie appena sussurrato, per poi abbassare subito lo sguardo. Una sensazione di perdita immediata. Come se qualcuno avesse spento la luce e stronzate del genere. Digrignai i denti tanto da sentirli scricchiolare. La deliziosa Erin Clare se ne doveva andare subito.
«Va bene!» dissi sovrastando la tirata di Stecco, ne avevo abbastanza. «Quello che vorrei sapere è cosa vi ha fatto pensare che…»
«Sono stato io!» sentii gridare dal fondo del magazzino e mi trattenni a stento dal portarmi le mani al volto per la disperazione. «È colpa mia, capo! Mi ha aiutato con Kelly.» Buco si fece largo a forza di agitare le sue lunghe braccia nodose fino a incunearsi nel vano della porta.
Erin mosse un paio di passi verso di me per togliersi dalla traiettoria del suo gesticolare. Eravamo troppo vicini, tanto che mi arrivò in pieno il suo profumo leggero e potei contare le lentiggini chiare sul suo naso. La vidi sorridere con dolcezza. Una fottutissima principessa al cospetto dei suoi cavalieri in armatura scintillante. Guardai Buco balbettare e pensai che, Cristo, le sarebbe potuta andare meglio.
«Buco…» cominciai con più pazienza di quanta pensassi di avere, «lei non lavora qui. Ti avevo detto che…»
«Sì, ma Ania mi aveva promesso che avrebbe mandato una ragazza carina e credevo che fosse lei. È così carina, vero, capo?» Buco fece scattare il braccio verso Erin, che di riflesso si fece indietro; nel giro di un respiro mi ritrovai con un braccio attorno al suo corpo per sorreggerla e le sue curve morbide contro di me. Per un assurdo momento battibeccai con il mio cervello, che insisteva perché la lasciassi andare mentre il resto di me voleva stringerla un po’ più forte, ancora un po’. Era da troppo tempo che mi chiedevo come sarebbe stato tenerla contro di me. Avevo la mia risposta, cazzo.
Con uno sforzo la lasciai andare e mi spostai di lato, per quanto fosse possibile in quell’ambiente minuscolo. Poi tornai con lo sguardo su Buco; altro che non sbraitargli addosso, sarebbe stato un miracolo se non lo avessi ucciso su due piedi.
«Lascia perdere Ania! Mica decide lei. Chi firma i tuoi assegni?»
Stecco, Biagio e zio Bern si alternarono tra sbuffi, schiarite di voce e occhi sfuggenti. Tuttavia, per Buco la questione non era chiara.
«Chi paga il tuo stipendio, Buco?»
Finalmente il suo sguardo vacuo ebbe una schiarita. «Tu, sei tu il capo?» replicò a mo’ di domanda.
Cristo!
«Sì, sono io. E voi quattro idioti dovreste ricordarvelo, ogni tanto!»
Erin si mosse accanto a me, la guardai e capii subito che stava per ergersi a paladina dei suoi cavalieri. «Ehi ehi, facciamo così: ho fatto un paio di ricevute, non è niente di che. Adesso me ne vado a cercare un lavoro in città e ci dimentichiamo di tutta questa storia,» disse dolcemente, sollevando entrambe le mani. Fece un sorrisone a tutti, poi si spostò verso l’uscita.
Stecco e Biagio si divisero come le acque per Mosè per lasciarle il passo. Zio Bern borbottò qualcosa che probabilmente non era un complimento nei miei confronti e Buco guardava tutti sbattendo le palpebre. Cercai freneticamente nella mia testa qualcosa di intelligente da dire o da fare, ma vi trovai solo un grumo essiccato di segatura. Zio Bern aveva ragione da vendere. Guardai Erin camminare verso l’uscita del garage, la lunga treccia che dondolava ipnotica. Mi sentivo un cretino colossale.
«Quindi vuoi continuare a comportarti da imbecille totale?» Zio Bern mise le mani sui fianchi, guardandomi malissimo da sotto le sopracciglia cespugliose.
«Non voglio quella bambolina qui!» ringhiai.
«E perché mai? Che potrà mai averti fatto Erin Clare? Dubito che esista al mondo qualcuno di più innocente!»
«Appunto! Non è il suo posto questo!» dissi incrociando le braccia sul petto.
«Ah, ma certo! Quella bambina ha un bisogno disperato di un lavoro! Suo padre se n’è andato, sua madre è morta il mese scorso e lei e la nonna devono campare con una pensione da fame!»
«Troverà di meglio in città e…» tentai ma Bern era partito e, quando si infervorava così, non c’era modo di fermarlo. Mi si avvicinò con il suo faccione arcigno rosso di rabbia per interrompere qualsiasi idiozia stessi per dire.
«Sì, eh? È pieno di impieghi per una ragazzina che ha dovuto lasciare la scuola. Te la immagini al pub di Murphy? A scansare le palpatine di quei quattro ubriaconi? O peggio a fare la stagista da Kelly mano lunga? Ti facevo più sveglio, ragazzo!»
«Non è affar mio quello che…»
«Tu hai bisogno di quella ragazza, stupido somaro! Sa Dio perché fai tante storie!»
Già, perché diavolo facevo tante storie? Erin mi era sempre parsa lontana e intoccabile, ma non mi era mai sembrata una di quelle stronzette con la puzza sotto il naso. E nonostante fossi sempre stato il genere di ragazzo da evitare come la peste, lei era sempre stata gentile con me.
«Merda!» sbottai, col cavolo che l’avrei lasciata andare a lavorare per Kelly, quel pezzo di guano putrido. Scostando con una spallata il corpo massiccio di zio Bern, uscii a grandi falcate dal garage. Fuori il sole era tanto caldo e luminoso che dovetti strizzare gli occhi. Per fortuna lei era ancora lì ad armeggiare con il lucchetto del suo catorcio di bici.
«Erin!» la chiamai e lei sollevò la testa di scatto.
Lasciò andare il lucchetto di colpo come se l’avessi beccata a rubare la sua stessa bicicletta. Prese fiato, e forse anche una dose di coraggio, e mi guardò negli occhi. «Senti, mi dispiace, ho lasciato che…» iniziò, ma io la interruppi.
«No, va bene. So che non è stata colpa tua.»
Lei annuì, chiuse la bocca poi abbassò gli occhi e prese a torcersi le mani.
«Erin,» la richiamai. «Guardami.» Sembrava incredibilmente sconsolata e deliziosa. «Sei venuta per il lavoro,» dissi, quando finalmente rialzò gli occhi su di me. «Ania ti ha detto di cosa si tratta?»
«Sì, prendere appuntamenti, fare ricevute, ordini ai fornitori…»
«Pensi di essere in grado?»
«Sì. Lo facevo per mia madre prima…» Prima che si ammalasse, dovesse chiudere il negozio e morisse. Sapevo come era andata.
«Il lavoro è tuo,» la interruppi ancora.
Il suo sorriso luminoso mi abbagliò e dovetti subito smorzare quella cosa sfolgorante. Non meritavo la sua riconoscenza. «Cerca di venire vestita in modo adatto, principessa. Cominci domani alle otto e mezza.»
«Puoi contarci! Non vedo l’ora,» cinguettò piena di entusiasmo e fossette sulle guance.
Mi voltai dandole le spalle e me ne tornai indietro. Per qualche motivo, tutta quella deliziosa innocenza mi faceva sentire instabile. La piccola Erin Clare non sapeva in che guaio si stava cacciando.

Erin

«Vieni vestita in modo adatto, principessa!» brontolai, cercando di imitare la vociona scorbutica di Derek Doyle mentre aprivo l’armadio e spostavo le grucce.
«Con chi stai parlando, tesoro?»
La nonna mise la testa nel vano della porta e le sorrisi. «Con nessuno, parlavo tra me e me.»
«La colazione è pronta.»
«Scendo tra un attimo,» le assicurai tirando fuori un paio di pantaloncini di jeans e una camicetta azzurra. Che caspita voleva dire “in modo adatto”? Voleva che indossassi una tuta da lavoro? Immaginai che l’avrei scoperto presto. In assenza di disposizioni più precise, avrei tentato con un abbigliamento informale. In ogni caso, faceva troppo caldo per qualsiasi altra cosa. Mi vestii in fretta e scesi gli scalini a due a due.
Quando arrivai all’officina, due dei meccanici stavano parcheggiando sullo spiazzo di fronte. Uno alto e magrissimo mi fece un rapido sorriso e si avviò all’interno. L’altro si avvicinò tendendomi la mano. «Io sono Biagio,» disse con un accento che tradiva le sue origini.
Strinsi la sua mano e sorrisi di rimando. «Erin Clare.»
«Lo so. Sono contento che Derek si sia dato una svegliata.»
«È stato gentile da parte sua darmi una possibilità,» replicai. Per quanto brusco e autoritario, Derek mi stava facendo un gran favore. Non avevo mai dato credito a chi lo additava come un poco di buono.
Biagio si strinse nelle spalle e mi strizzò l’occhio, poi raggiunse il suo compagno che stava armeggiando con un elevatore. Mi guardai intorno e vidi Derek che aspettava davanti alla porta dell’ufficio. Il suo sguardo azzurro ghiaccio era fisso su di me, per un istante trattenni il fiato certa che potesse farmi un buco nel petto come un laser.
Diamine.
Mi feci coraggio e gli rivolsi un piccolo sorriso, strinsi la borsa e proseguii verso di lui. Non si era rasato e la barba rossiccia gli incorniciava le labbra strette in una linea severa; portava jeans macchiati e rattoppati, una t-shirt blu sbiadita e tesa sui pettorali esposti dalla sua posa a braccia incrociate. Deglutii e mi sforzai di fare un altro passo. Non ero in ritardo. Era impossibile che avessi già fatto qualche passo falso. Per quale motivo mi stava fissando con quell’aria così truce?
«Buongiorno, Derek» esordii, sorridendo come un’inetta.
Lui mi squadrò da capo a piedi tra le palpebre assottigliate. Vidi un muscolo fremere sulla sua mascella e per poco non indietreggiai. «Ciao,» disse infine.
Dopo il suo attento scrutinio mi sarei aspettata qualche altra critica sul mio abbigliamento, invece mi fece cenno di precederlo dentro il piccolo ambiente. Averlo alle spalle mi rendeva un tantino nervosa, ma cercai di mantenere la calma. Qualcuno aveva dato una parziale riordinata e il profumo di detersivo che aleggiava mi disse che ci avevano anche dato dentro con lo spray sgrassatore. Tuttavia, mi ci sarebbe voluto un po’ prima di rendere quel posto agibile.
«Ti ho messo sulla scrivania una lista di ricambi da ordinare.» Sussultai lievemente al suono della sua voce, però mi affrettai ad annuire guardando il foglio di carta sul piano della scrivania. Derek schiaffeggiò la tastiera e il computer prese vita. «Puoi telefonare ai numeri che ti ho lasciato o puoi ordinare via mail. Sta’ attenta ai codici.»
«Va bene.» Annuii, sentendomi come uno di quei pupazzi a molla che si vedono sui cruscotti delle auto. Mi immobilizzai e cercai un posto dove lasciare la borsa; la appoggiai su un ripiano che era stato liberato e non riuscii più a trovare nessuna scusa per non guardarlo in faccia. Mi voltai e incontrai di nuovo i suoi occhi laser.
Mi mordicchiai nervosamente le labbra e il suo sguardo si fece un po’ più scuro. Fece un passo indietro e rilasciai il respiro che non mi ero resa conto di trattenere. Perdinci. Derek finalmente uscì dall’ufficio, che d’improvviso sembrò tre volte più grande. Mi lasciai cadere sulla sedia da scrivania, che molleggiò uggiolando, e mi premetti una mano sul cuore. Dovevo farmi passare quella specie di crisi isterica, subito.
«Erin!» mi richiamò e per poco non strillai come una pazza, non mi ero resa conto che fosse ancora nei paraggi.
«Sì?» riuscii a biascicare, mettendomi in piedi come se mi fosse andato a fuoco il sedere.
«Due cose: i pantaloni sono troppo corti e non puoi accettare proposte dai ragazzi dell’officina.»
«Pro…poste?» balbettai prima che il senso delle sue parole penetrasse nel mio cervello pieno di segatura.
«Inviti, uscite di coppia, appuntamenti!» specificò in modo asciutto come se fossi un po’ tarda, e non aveva neanche tutti i torti.
«Oh… sì, certo,» replicai un po’ incerta e vista la sua espressione mi affrettai ad assicurargli: «Ma certo, nessun appuntamento, mai e poi mai.» Avevo troppo, troppo bisogno di quel lavoro.
Le sue sopracciglia si sollevarono fino all’attaccatura dei capelli poi sospirò impaziente, non gli andava proprio mai bene niente. «Non voglio che tu esca con i ragazzi dell’officina, non che tu non veda più il tuo fidanzato o…»
«Ma io… non ho un fidanzato,» lo interruppi con un sorriso radioso. Visto? Nessuna distrazione.
«Bene!» disse, poi scosse la testa come se una mosca fastidiosa gli ronzasse attorno e mi guardò in cagnesco, proprio come se fossi io quella mosca fastidiosa. «Non è quello che ti ho chiesto, Erin.»
Mi sentii la faccia bollente e non trovai niente di intelligente da dire. Tuttavia, non ne ebbi bisogno, perché lui girò i tacchi brontolando e mi lasciò a fissare il suo delizioso fondoschiena che se ne andava.
Barcollai verso la sedia sventolandomi con la mano. Caspiterina se era difficile da accontentare quel Derek Doyle.

Ero rientrata da venti minuti dalla pausa per il pranzo, avevo indossato la mia bandana blu e bianca da grandi pulizie e stavo perseverando con la mia battaglia per far tornare i vetri del cubicolo trasparenti. Lavoravo all’Officina Doyle da due settimane e le cose andavano benone. Insomma, riuscivo a non inciampare sui miei stessi piedi quando Derek mi parlava, cosa che comunque accadeva piuttosto di rado, e mi ero ambientata piuttosto bene. Credevo di aver indovinato il dress code abbinando magliette di cotone un po’ sformate e bermuda di jeans al ginocchio, abbigliamento che non mi aveva attirato la solita occhiata di biasimo, ma un secco cenno del capo. Da quell’impressionante sfoggio di benevolenza avevo dedotto che andasse finalmente bene.
Mi stabilizzai sulla scaletta traballante per evitare che il mio fondoschiena facesse conoscenza con il pavimento e salii sulle punte per raggiungere una macchia troppo in alto. Quella mattina mi ero svegliata con in testa l’intera colonna sonora di Grease e non facevo altro che canticchiarla ininterrottamente. Era quasi impossibile non pensarci, guardando i ragazzi lavorare con la testa infilata in qualche cofano. Più che altro mi incantavo a guardare Derek, o meglio il suo favoloso fondoschiena, quando si chinava nella bocca spalancata di un’auto. Sentii la pelle delle guance bruciare, presi un bel respiro e canticchiai: «Go grease lightning you’re burning up the quarter mile…»
Chissà se Derek era in grado di fare lo stesso movimento di pelvi di John Travolta e chissà come sarebbe stato se avesse indossato un bel paio di pantaloni di pelle… Perdinci, dovevo togliermi quell’idea dalla testa, immediatamente.
Strofinai con più vigore la finestra senza cedere alla tentazione di sventolarmi la faccia. Ero davvero una pessima persona. Una sciocca, viziosa, allupata ragazza.
Strizzai con forza il panno sulla bacinella sforzandomi di non starnutire quando i fumi di ammoniaca mi arrivarono al naso. «Go grease lightning you’re burning up the quarter mile…»
Era proprio stupido da parte mia indulgere in certe fantasie. Per Derek Doyle non esistevo neppure. A volte avevo l’impressione di essere completamente trasparente ai suoi occhi. Non che facessi alcunché per farmi notare, anzi facevo il possibile per stare lontano dai suoi occhi laser. Mentre tutti gli altri erano gentili con me, come Biagio e Bern, o meglio zio Bern come aveva insistito per essere chiamato, Derek mi ignorava il più delle volte. Mi ringraziava quando gli portavo il caffè di metà mattina, a dire il vero emetteva più una specie di grugnito che un vero e proprio grazie, ma sapevo accontentarmi. Per il resto mi parlava lo stretto necessario e io gliene ero abbastanza grata. Non tirava fuori esattamente il meglio di me. A dirla tutta, in un minuto riusciva a trasformarmi in una cretina balbettante. Ne facevo anche a meno, grazie tante.
Mi allungai per passare il panno su un punto lontano e oscillai sulla scaletta. Appoggiai i talloni e ondeggiai cautamente per testarne la stabilità, non era il massimo ma era tutto quello che avevo. I ragazzi non sarebbero rientrati che tra una mezz’ora e per allora contavo di aver finito.
«Sei impazzita! Scendi subito di lì!»
Quel grido furioso mi colse talmente di sorpresa che non solo strillai come un’ossessa, ma sussultai talmente forte che mi sbilanciai perdendo la presa sulla scaletta.
Pensai con un lamento che alla fine il mio fondoschiena avrebbe davvero fatto la conoscenza del pavimento.

Derek

Mi resi conto quasi immediatamente del mio errore. Ma quella ragazza, diavolo se mi faceva perdere la testa. Arrivai appena in tempo perché non finisse con il suo delizioso culo per terra. La strinsi forte e inalai il suo profumo. Sapeva di caramella e detersivo per i vetri. Mi si strinse addosso come una scimmietta: le braccia attorno al collo e le gambe attorno ai fianchi… e mi piaceva fin troppo.
«Cosa diavolo credevi di fare, razza di idiota?» ringhiai trattenendola contro il petto, dove il cuore martellava impazzito. Quella pazza stava cercando di uccidermi?
«Io?» replicò ansante. La punii con una leggera scrollata. Prese ad agitarsi come un pesce nella rete e strinsi ancora di più le braccia di riflesso. «Stai buona!» le intimai trasportandola poco gentilmente verso l’ufficio.
Mi presi quei pochi secondi per cercare di mettere d’accordo corpo e cervello. Le mie braccia non volevano lasciarla andare, mentre la testa risuonava di una moltitudine di allarmi rossi. La scaricai a sedere sulla scrivania e lei mi lasciò andare come se scottassi. La guardai in quella sua faccina rossa come un peperone e cercai di impormi di stare a una distanza minima di sicurezza. Tuttavia, non potei evitare di torreggiare su di lei.
«Come ti è saltato in mente?» ruggii.
C’era una voce dentro di me che cercava di dirmi che forse stavo un tantino esagerando. Che forse, e solo forse, avrei dovuto essere un po’ più distaccato. Ecco, poteva andare a farsi fottere. Si sarebbe potuta rompere il suo delicato osso del collo cadendo da quella maledetta scaletta.
Avevo detto a Buco di buttarla via un secolo prima. E chissà per quale diavolo di motivo pensavo ancora che chiedere qualcosa a Buco fosse una buona idea.
I suoi enormi occhi verdi si spalancarono colmi di sacrosanta indignazione. Esatto, tesoro, pensai, sono tutto il contrario di uno dei tuoi cavalieri in armatura scintillante.
Ero uno stronzo, sai che novità. Erin prese una serie di lunghi respiri, non sembrava in grado di starsene ferma su quella dannata scrivania. Mi lanciò una di quelle sue occhiate da principessa delle fate. Sapevo qual era il suo gioco. Cercava di farmi impazzire sbattendo le sue lunghe ciglia. Ma con me non funzionava. Certo che no, cazzo.
Appoggiai le mani sul piano accanto alle sue cosce e mi piegai su di lei, guardando dritto in quegli occhi color di foglia «Allora?» la incalzai, la voce un po’ troppo roca per essere davvero minacciosa. Il suo profumo lieve entrò in circolo e capii che i miei metodi intimidatori, così efficaci con i bastardi del quartiere, con lei mi si stavano velocemente ritorcendo contro.
Aggrottò le sopracciglia e storse la sua boccuccia in un modo che mi mandò il sangue al cervello. Si schiarì la voce e, gli occhi bassi sulle proprie mani nervose, disse finalmente: «Mi dispiace, Derek, non sapevo di non dover usare la scala.»
Il suo tono dolce si abbatté su di me come una tonnellata di mattoni. Cazzo, era stata davvero una pessima idea assumerla. Inclinai la testa verso il basso e respirai, gli occhi puntati sulle sue ginocchia agitate. Quando sentii il suo tocco esitante sulla spalla, risollevai il capo per incontrare il suo sguardo. Sembrava tormentata e tesa.
«Non vuoi… licenziarmi, vero?» domandò. Stava facendo di tutto per non apparire disperata. In quel preciso istante, seppi di essere in assoluto il più grande figlio di puttana sulla faccia della terra.
Aveva davvero bisogno di quel lavoro, lo sapevo fin troppo bene. «No, Erin,» le assicurai con voce resa ruvida e incerta da quel sentimento di inferiorità che lei mi suscitava.
Sentii il suo sospiro di sollievo anche nelle ossa. «Grazie,» disse piano.
Sollevai lo sguardo, frugai di nuovo i suoi occhi e lasciai cadere le armi a terra, sconfitto. «Non ringraziarmi, cazzo.» Sospirai, trattenendo il bisogno di lanciare qualcosa; tuttavia, se non potevo sfogare la frustrazione, mi sarei tenuto impegnato in altro modo. In un modo che desideravo disperatamente. Le mie mani circondarono le sue guance arrossate, le dita frugarono tra i suoi capelli sotto quella ridicola bandana. Mi godetti la fitta di apprensione quando pensai di baciarla. Sapevo di non poterlo fare, e non l’avrei fatto, per quanto fossi un maledetto stronzo. Non l’avrei toccata, ma non potevo impedirmi di desiderarlo, esattamente come non potevo ignorare il suo battito accelerare sulla tempia. Strofinai il polpastrello proprio lì.
Sorrisi appena quando mormorò: «In effetti non sarei caduta, se tu non ti fossi messo a urlare come un matto.»
«Quell’affare è una trappola mortale,» insistei. «Non avevi nessun bisogno di salirci sopra.» La durezza nella mia voce era una farsa cui solo lei poteva credere.
Erin deglutì, probabilmente imbarazzata da quella vicinanza a cui la stavo forzando; di certo mi credeva un pazzo furioso e non scappava a gambe levate solo perché aveva bisogno dei miei soldi per campare. Cosa diceva di me tutto quello? Oh, lo sapevo già, ero uno stronzo fatto e finito. Potevo conviverci.
Quello che non mi riusciva proprio di fare in quel momento era lasciarla andare.
Mi lanciò un’occhiata di sottecchi e indurii lo sguardo, o almeno ci provai. Non mi sentivo affatto padrone delle mie azioni, cosa resa evidente dal fatto che avevo ancora le mie maledette mani su di lei.
Avevo un bisogno disperato di ritrovare il controllo.
«Derek,» sussurrò, allora feci scivolare via le dita da sotto la bandana. Erano leggermente umide del suo sudore e liberarono l’odore di fiori del suo shampoo.
Feci un passo indietro, stringendo i pugni nel tentativo di tenere a bada le mie manacce, e poi un altro fino a conficcarmi nella schiena il piano dello scaffale. «Non usare più quell’affare!» ribadii. Sembravo un cavolo di disco rotto, ma era l’unico punto che riuscissi a tenere. Non c’era nulla che potesse spiegare il mio atteggiamento folle, il mio bisogno di toccarla e di respirare il suo odore. Se avessi insistito abbastanza su quella maledetta scala, forse lei non ci avrebbe fatto troppo caso.
«Sì, va bene,» mi assicurò abbassando lo sguardo. Odiavo quando lo faceva, ma forse era meglio così visto che dovevo essere uno spettacolo davvero patetico.
Il raschiare del cancello che scorreva sulle sue rotaie annunciò il rientro degli altri dalla pausa. Ed era ora, cazzo.
Ne approfittai per darmela a gambe. «Bene,» lasciai cadere lì, secco come un bastone, poi uscii dall’ufficio senza voltarmi.
Il primo che vidi entrare fu Buco. Quel cretino mi rivolse appena uno sguardo prima di decidere con inaspettata saggezza di sparire dalla mia vista, veloce come un furetto.
«Buco!» gridai.
Tornò sui suoi passi mulinando nervosamente le braccia e mi guardò vacuo. «Capo,» mi salutò.
«Perché quella roba è ancora in circolazione?» domandai indicando la scala arrugginita ancora davanti al cubicolo.
«Io l’avevo messa fuori, nei ferri vecchi per… ehm buttarla, poi.»
«E invece è ancora qui, cazzo!» berciai.
Buco balbettò qualche parola insensata e divenne ancora più nervoso, i suoi occhi si puntarono su qualcosa alle mie spalle, poi sorrise come un idiota e disse: «Erin, ciao.»
Mi voltai e lei era lì, come una cavolo di Cenerentola sfigata con la sua bandana impolverata e gli abiti dimessi e informi. Sapevo perché se ne andava in giro così, perché ero un coglione fatto e finito. La guardai negli occhi e per la prima volta vi lessi qualcosa di diverso dalla solita grazia benevola da principessa delle fate.
«Sono stata io a prendere la scala da fuori, non prendertela con lui, Derek!» Mi stava fissando con quei suoi occhi verdi, le sottili sopracciglia aggrottate e le labbra strette in una linea sottile. Sembrava un gattino spruzzato d’acqua, indignato e vagamente disgustato dall’intera faccenda. E, nonostante l’impegno che avevo messo nel costringerla a conciarsi in modo così sciatto, era tanto bella da bruciarmi il cuore. Era stato tutto inutile. L’avrei voluta anche se fosse andata in giro con un sacco sulla testa.
«Non immischiarti!»
Biagio arrivò quasi correndo «Che succede?» domandò, poi si fermò accanto a Erin, cercò il suo sguardo turbato e lei gli sorrise. Gli sorrise, maledetto.
Poi mi si avvicinò, abbastanza perché potessi contare le lentiggini leggere che aveva sul naso e sugli zigomi. «Capisco che se mi fossi fatta male avresti potuto passare dei guai, ma non è successo niente e…»
«Pensi che sia quello il problema?» la interruppi.
Il tono della mia voce dovette allarmare Biagio, perché si mosse per frapporsi tra me e lei, facendomi letteralmente vedere rosso. «Ehi, calmati, Derek!» si inserì, le mani sollevate a placare gli animi. Erin sgusciò da dietro di lui e mi fronteggiò con le mani sui fianchi, io lanciai un’occhiataccia a Biagio e gli sputai un «Fatti i cazzi tuoi!»
Se Erin mi avesse conosciuto meglio, avrebbe saputo che era proprio il momento di cambiare aria, invece continuò, come una piccola paladina del cazzo. Allungò una mano e la appoggiò sul braccio di Biagio, poi strinse appena le dita prima di lasciarlo andare. Digrignai i denti abbastanza forte da sentirli gemere.
«È stata colpa mia, per favore, non prendertela con loro.» In qualche modo riusciva a sembrare dolce come miele e combattiva come una leonessa.
Istinti contrastanti presero il sopravvento e, tanto per cambiare, mi comportai da completo imbecille. «Tu,» la indicai, «non devi occuparti delle pulizie. Non ti arrampicherai mai più su una maledetta scala!» ordinai assurdamente. Come se potessi obbligarla a fare alcunché nella sua vita. Erin mi guardò e chiuse la bocca di scatto. Rinunciò a qualsiasi cosa stesse per dire, batté le palpebre e annuì una volta. Mi stava assecondando, come si fa con i pazzi. Inspirai poi le voltai le spalle, incapace di sostenere il suo sguardo smarrito; trovai invece il ghigno divertito di Biagio e lo fulminai con la peggiore occhiataccia del mio repertorio. «E voi due imbecilli fate sparire quella trappola di scala. Adesso!» intimai.
Il silenzio era assordante. Tanto che potei sentire distintamente i miei passi pesanti sul pavimento mentre me la filavo. Ero fin troppo consapevole di aver fatto l’ennesima figura del cavolo. Quando incrociai Zio Bern, non ebbi bisogno di dire nulla perché mi lasciasse il passo con un sospiro rassegnato. Lo sentii brontolare qualcosa e accelerai verso l’uscita. Ci avrebbe pensato lui a rassicurare Erin.

Erin

Tutta quella storia dell’autocombustione doveva essere davvero una fregatura. Perché se fosse stata vera, ero certa che a quel punto sarei stata cenere. Un mucchietto fumante ai piedi di Derek Doyle.
Accantonai momentaneamente l’idea di andare a controllare che non mi si fossero liquefatte le mutandine e raccolsi l’energia per fare un piccolo sorriso a zio Bern, che mi stava venendo incontro con aria preoccupata.
«Va tutto bene, tesoro?» domandò.
Annuii sentendomi di nuovo avvampare. Il cielo sapeva perché. Derek mi aveva solo toccato le tempie, ecco. La zona meno erogena che ci potrebbe essere, oppure no? E che caspita potevo saperne io? Presi un gran respiro per calmarmi. E sorrisi, ero campionessa mondiale di sorrisi idioti. Qualcuno prima o poi mi avrebbe assegnato un premio. Me lo meritavo, eccome. «Ehm…» farfugliai e Biagio mi tolse d’impiccio.
«Derek ha dato di matto perché…» cominciò con quel suo delizioso accento italiano, poi mi guardò aggrottando le sopracciglia cespugliose. «Già, perché?»
Feci spallucce. «Sono salita sulla scala per pulire i vetri lassù e gli è preso un colpo.»
«Sei salita su quella scala?» domandò zio Bern scuotendo il capo e indicando il povero ferro vecchio.
«Caspiterina! Non mi sembrava tanto instabile quella scala, insomma…» cercai di difendermi, ma lui continuò a guardarmi con quell’aria esasperata.
«Adesso capisco,» disse.
«Meraviglioso, perché io no,» commentai mettendo su il broncio.
«Vieni, bambina.» Zio Bern mi prese per il gomito e mi esortò a precederlo verso l’ufficio. Entrai nella stanzetta e mi sorpresi a cercare un segno tangibile della presenza di Derek. Inspirai alla ricerca del suo odore muschiato, o che so io, attesi un brivido residuo ma rimasi delusa. Purtroppo, doveva succedere solo nei romanzi d’amore, perché sentii solo odore di gomma bruciata e caffè. Andai alla macchinetta per tenermi occupata, mentre zio Bern masticava il suo sigaro e mi guardava con un’aria stranamente soddisfatta.
«Così ha dato di matto, eh?» domandò e ghignò appena.
«Se mettersi a urlare per tutta l’officina e abbaiarmi contro ordini assurdi significa dare di matto… allora sì.»
«Derek è un po’ suscettibile.»
«Tu dici?» Stavo diventando una sfacciata. Mi sarei scusata, ma la grassa risata di zio Bern riempì il silenzio che seguì la mia battuta sarcastica.
«Derek era con noi quando la mia prima moglie cadde da una scala simile a quella, mentre cercava di recuperare il gatto del vicino dal sottotetto. Fu lui a trovarla e a chiamare i soccorsi. Io ero al lavoro e quando tornai era sconvolto. Aveva tredici anni e i suoi non facevano che…» La frase finì in un borbottio intellegibile, ma tanto mi bastava.
Abbassai le mani che mi ero schiacciata sulle labbra a quella notizia sconvolgente. Fu più forte di me, immaginai quel povero, piccolo Derek. Scacciai quel pensiero, davvero non mi serviva altro materiale con cui fantasticare. Avevo già una cotta pericolosa per il mio datore di lavoro.
«Mi fece un cu… una ramanzina tremenda, quella sera. Era un ragazzino, ma aveva già le idee piuttosto chiare,» continuò Bern ridacchiando. «Maggie se la cavò con qualche punto sulla fronte e un trauma cranico. Il suo problema purtroppo era di tutt’altro genere.» Allungò pollice e mignolo e alzò il gomito nel segno universale che si usa per indicare qualcuno che si attacca alla bottiglia.
Mi schiarii la voce e versai il caffè nelle tazze.
«Capisci, tesoro?»
Stavo per rispondere qualcosa di vago, ma ero già sola.
Per la miseria. «Non capisco più un accidenti,» dissi stizzita alla macchinetta per il caffè, che per fortuna non rispose. Presi il vassoio per fare il mio giro con le tazze, il cuore che andava a mille per la possibilità di vedere di nuovo Derek, però lui non c’era da nessuna parte. Tornai nel piccolo ufficio con la sua tazza piena e un pizzico di desolazione.

Doveva essere così che si era sentita Cappuccetto Rosso poco prima di venire sbranata, pensai, nel momento in cui Derek mi fulminò con la sua occhiataccia. Quando la nonna mi aveva passato il vassoio zeppo di biscotti e l’avevo messo nel cestino della bicicletta, mi erano sfuggiti tutta una serie di parallelismi. Mi rassicurava il fatto che, avendo i capelli rossi, difficilmente avrei mai indossato qualcosa di quel colore. E poi faceva troppo caldo per le mantelline, quindi la fantasia si esauriva lì: un cestino pieno di biscotti, uno sguardo da lupo e una ragazza troppo sciocca per stare alla larga.
Avevo lasciato la bici legata alla staccionata e stavo andando verso i ragazzi, che sapevo essere in pausa a quell’ora. Derek aveva decretato che il sabato sarebbe stata la mia giornata libera, e io l’avevo passata a fare i biscotti. Ne avevo fatti talmente tanti che la nonna aveva insistito perché li portassi ai miei colleghi. Non ero così sicura che fosse una buona idea, ma sul momento non avevo trovato nessuna argomentazione valida da opporre. Tutti, al di fuori di Derek, mi salutarono con entusiasmo, in effetti Buco con fin troppa energia. Dovetti fare un salto all’indietro per impedirgli di rovesciare il vassoio.
«Biscotti per tutti!» esordii, cercando di non sentire lo sguardo di Derek perforami la schiena. Essendo la mia giornata libera non avevo indossato gli abiti da lavoro, ma un prendisole di cotone bianco e sandali. L’abitino era fresco e leggero. Perfetto per quel caldo insopportabile. Proprio il genere di vestito capace di far digrignare i denti al capo. Accidenti a me!
«Che profumo delizioso, angelo mio!» esclamò zio Bern. «Perché non pensi anche al caffè, tesoro? Sai che non è il mio forte.»
«Ero passata solo per lasciarvi ques…» cominciai ma, come al solito, stava già proseguendo per la sua strada con il vassoio ben saldo tra le mani. Rassegnata, andai verso l’ufficio e misi su il caffè; colsi un movimento con la coda dell’occhio e per un niente non strillai come un’aquila. Derek riempiva completamente il vano della porta.
«Perché sei venuta oggi? Ci tieni davvero a farmi impazzire?»
«Cosa? Io… no. Volevo solo…» La voce mi morì in gola, mentre il cattivo ragazzo che popolava i miei sogni fin da ragazzina si faceva avanti prosciugando tutto lo spazio, tutto il fiato e ogni mio pensiero coerente.
«Ah… Derek…» farfugliai, abbozzando un sorriso. Risolvono un sacco di cose i sorrisi, però con Derek non funzionò. Il suo sguardo si affilò e la sua bocca divenne una linea sottile sul volto non rasato. Fuggii i suoi occhi per piantare i miei sul suo petto scolpito: la maglietta bucata lasciava intravedere pochi centimetri di pelle tesa e soda. Combattei il desiderio di infilare un dito e allargare la stoffa lisa e toccarlo. Tanto valeva che mi buttassi giù da una rupe.
Feci un passo indietro, ma lui ne fece uno in avanti in uno strano balletto di cui non conoscevo i passi. Un intero stormo di farfalle prese a svolazzarmi nello stomaco.
«Erin,» disse. Poche sillabe che rimasero sospese nell’aria satura. Ruvide, pesanti. Il mio nome non era mai stato detto così. Da nessuno.
Sentii premere contro il fianco il piano della scrivania e dovetti fermarmi. Guardai a bocca aperta le sue mani che venivano verso di me ed espulsi tutto il fiato che avevo in corpo quando si posarono sui miei fianchi e lui mi sollevò, facendomi sedere sul piano fresco. Fresco benedetto sulla pelle rovente. Deglutii a vuoto.
Il profumo di caffè invase il piccolo ufficio, ma Derek non sembrava per niente interessato al liquido che stava riempiendo la caffettiera. Spinse per infilarsi tra le mie ginocchia e le mie stupide gambe non fecero nessuna resistenza, anche così torreggiava su di me e io non trovai nulla di più intelligente da fare che alzare il viso per incontrare il suo sguardo. Inspirai a corto di ossigeno e respirai il suo odore. Non sapeva di muschio o prateria come piaceva alle eroine dei romanzi, no signore. Derek Doyle odorava di olio per motori, sudore e sigaretta. E mi piaceva da morire.
«Adesso,» disse a bassa voce, «ti dimostrerò perché non dovresti essere qui così, principessa.»
Sentii il suo braccio scivolare dietro la schiena e la stoffa ruvida dei suoi pantaloni da lavoro tra le cosce mentre mi stringeva a sé. Le sue dita si allargarono alla base del mio collo, infilandosi tra i capelli, inclinandomi il capo affinché la sua bocca dura e le guance scabre avessero facile accesso al punto così sensibile tra la gola e la spalla. Avevo troppa pelle esposta ma non era abbastanza. Le mie mani corsero sulle sue spalle, con le gambe gli circondai i fianchi stretti e venni premiata con piccolo gemito. La mano che mi stringeva in vita si serrò, l’altra mi afferrò la coscia nuda sotto il vestito e strinse con quasi troppa forza. Quasi. Nessuno mi aveva mai toccata così.
«Derek,» mugugnai.
In risposta mi strinse ancora un po’, portandosi via il mio respiro in un colpo. Annaspai preda di un bisogno che non avevo mai sperimentato prima. Sentii la pelle che bruciava mentre con il mento ruvido strusciava contro la curva del mio collo, pizzicò con i denti la pelle sottile sotto l’orecchio e il mio corpo pulsò in tutti i punti in cui non mi stava toccando.
Era una specie di tortura?
«Derek,» lo chiamai ancora, in un sussurro disperato.
Si fece pietra tra le mie braccia. Sentivo il mio cuore battere furiosamente, il sangue ronzare nelle orecchie, la pelle troppo sensibile e il mio corpo che pulsava a tempo. Allentò la presa e le sue mani si staccarono come se scottassi e forse era davvero così. Era ancora chino su di me e lo sentii dire pianissimo, contro la pelle: «Dio, principessa.»
Sembrò un insulto. Sembrò una preghiera.
Abbassai le gambe lasciando che scivolassero sulle sue, mi portai le mani in grembo e lui si allontanò. Quando trovai il coraggio per guardarlo in faccia, i suoi occhi erano lucidi e la pelle arrossata. Le sue labbra erano tese mentre il petto ampio si alzava e abbassava con affanno. Mi squadrò dalla testa ai piedi, sembrava soddisfatto e furioso al tempo stesso. «Ecco perché non saresti dovuta venire oggi, Erin.»
Mi guardai il vestito stropicciato e pensai che non me ne importava un fico secco. Dove la stoffa candida era stata a contatto con i suoi abiti da lavoro c’erano aloni scuri e qualche macchia. La treccia era disfatta e mi sentivo sudata e insoddisfatta. Sbuffai e lo guardai dritto negli occhi, «Sai? Contrariamente a quello che pensi, non mi dispiace sporcarmi un po’!»
«Sei impazzita, principessa?» La sua voce bassa e roca mi strappò un sussulto rinfocolando tutte le terminazioni nervose che aveva acceso e che mi davano il tormento.
«Sono un po’ stufa di farti da giocattolo.» Non sapevo da dove venisse fuori tutta quella boria che sentivo, ma stavo scoprendo che la frustrazione sessuale poteva trasformarmi in una piccola arpia. Mi sentivo come una lattina di soda agitata e pronta a esplodere.
Derek mi fissò, poi sollevò le sopracciglia e piegò le labbra in quello che poteva definirsi solo come un sorriso.
Wow, Derek Doyle sapeva sorridere. Purtroppo, stava ridendo di me.
Saltai giù dalla scrivania e lo fronteggiai con le mani sui fianchi. «Non ho capito cosa volessi dimostrare con il tuo teatrino, Derek.» Ero molto più bassa, la mia voce era stridula e forse tremavo anche un po’, ma non mi sarei mai più data per vinta. Mi aveva strapazzata mandandomi in pappa il cervello e non aveva avuto neppure la decenza di baciarmi come dio comandava?
«Questo non è il tuo castello incantato. Ma tu proprio non lo capisci, vero?» rispose tornando improvvisamente serio.
«Cerchi sempre di sconvolgermi, per quale motivo?»
Derek fece un passo in avanti e abbassò il volto abbastanza perché sentissi il suo respiro sulle labbra. A quella distanza i suoi occhi sembravano neri e profondissimi. Il cuore mi schizzò in gola; lui emise una specie di basso gemito poi, quando ero quasi certa che mi avrebbe finalmente baciata, si allontanò di scatto.
«Perché non riesco a controllarmi, cazzo.»

Erin

Sapevo che sarebbe successo. Dal momento che avevo riconosciuto la macchina di Matt Shannon parcheggiata nel cortile di fronte all’officina, ero certa che prima o poi me lo sarei trovata davanti. Biagio mi aveva detto che Buco aveva finito con la Fiat e che il proprietario sarebbe passato a ritirare l’automobile quel giorno stesso. Ero pronta, o meglio, pensavo di esserlo.
Matt entrò nel cubicolo preceduto da una zaffata della sua costosa colonia, arricciai il naso e preparai un bel sorriso per accoglierlo.
«Erin?»
«Ciao, Matt. Ti trovo bene,» lo salutai fiera del mio tono perfettamente cordiale.
I capelli dal taglio alla moda lo facevano sembrare un idiota e le sue sopracciglia erano un po’ troppo perfette per non essere frutto del lavoro dello studio estetico di Bree. Caspiterina, non le avevo creduto quando mi aveva detto che era strapiena di ragazzi che prendevano appuntamento per depilarsi le sopracciglia. Lui scosse la testa e sorrise, mettendo in mostra un incisivo su cui luccicava un brillante. «Da quando lavori qui, piccola?» domandò venendomi incontro nello spazio angusto.
Misi tra noi la sedia da ufficio e feci spallucce. «Qualche settimana.»
«Ma se non ne sai niente di automobili.»
Mi trattenni dal sollevare lo sguardo al cielo e sorrisi di nuovo. «Non lavoro sulle auto, Matt. Solo sulle scartoffie.»
«Giusto,» disse. I suoi occhi mi percorsero dalla testa ai piedi indugiando un po’ troppo sul petto. Cercai di non pensare al ricordo delle sue mani sudaticce e della sua bocca bagnata sulla pelle. Repressi un brivido e presi la ricevuta che avevo già compilato, sperando che avesse fretta di cambiare aria. «Ecco, questa è tua e qui,» dissi, porgendogliela insieme al cartoncino con i dati bancari, «ci sono gli estremi per il pagamento. Se tornerai entro settembre per controllare olio e filtri avrai in omaggio…»
Non riuscii a finire la frase. Invece di prendere la ricevuta, Matt agguantò il mio braccio per tirarmi a sé. «Sei ancora arrabbiata per quella storia?» domandò, i suoi occhi cercarono i miei e in qualche modo riuscì a sembrare triste e abbattuto. Quasi gli avessi fatto un torto terribile. Non l’avevo voluto più vedere dopo che mi aveva forzato un po’ troppo sui sedili della sua dannata macchina. Non si era trattato di un evento troppo traumatico, ma di certo aveva finto di non sentire i miei no troppo a lungo per potergliela perdonare.
«Arrabbiata non è il termine che userei, Matt. Lasciami andare, per favore.»
«Ho diritto a una spiegazione, non credi, piccola?»
«Ti ho detto perché ho voluto rompere.» O almeno gli avevo detto una verità che sarebbe stato in grado di capire.
«Sì, per via di tua madre. Ma adesso…» Mi circondò con un braccio lasciando la frase in sospeso. Dio, non poteva dire sul serio.
«È morta?» conclusi per lui.
«Sì. Ecco.» Non ebbe neppure la delicatezza di mostrarsi partecipe.
Spinsi sul suo petto con entrambe le mani. «Non sono interessata, Matt.» Mi dimenai, buttando giù dalla scrivania un vaso pieno di viti e bulloni che trovavo ovunque abbandonati in ufficio. Si infranse spargendo pezzetti di vetro e metallo per tutto il pavimento. Matt si scansò, trascinandomi con sé e facendomi sbattere la fronte contro un pensile. Gridai cercando di liberarmi dalle sue braccia simili a tentacoli.
«Lasciami, Matt!»

Derek

Controllai per l’ennesima volta l’elenco arrivando fino in fondo, ma nemmeno un dato mi rimase impresso. Appallottolai il foglio e lo misi in mano a Stecco senza neppure una parola. Lui lo prese, scrollò le spalle e se lo infilò in tasca. Se c’era qualcuno su cui potevo contare per essere lasciato in pace, era proprio lui. Erin era arrivata da un’ora e da quel momento non ero più riuscito a concentrarmi su niente. Continuavo a pensare a quello che era successo l’ultima volta. Alla sua pelle morbida, a come si era abbandonata contro di me, così dannatamente piccola e fiduciosa.
Avrebbe lasciato che la baciassi?
Lo avrebbe fatto?
Continuavo a sbirciare verso il cubicolo nella speranza di cogliere qualche immagine di lei. Quel giorno indossava dei pantaloni blu che arrivavano sotto il ginocchio e una camicetta bianca, che doveva aver messo apposta per farmi dispetto. Ricordai il suo visetto furioso e il suo sguardo indignato dopo che avevo lasciato le impronte delle mie manacce sulla sua pelle. Quando era arrivata, mi aveva ignorato ostentatamente, le guance rosse e gli occhi lucidi. Una piccola principessa indispettita.
Vidi quell’idiota del figlio del sindaco scendere dalla macchina del padre, attraversare il cortile e andare dritto verso Buco, che stava lucidando la carrozzeria della sua Fiat Cinquecento ultimo modello. Gli augurai di cuore di incontrare un altro paracarro entro il prossimo fine settimana. La stupidità di quel figlio di papà si stava dimostrando piuttosto redditizia per l’Officina Doyle. Gli feci un cenno di saluto mentre entrava nel garage per andare a ritirare la ricevuta da Erin. Lo tenni d’occhio finché non si infilò nel minuscolo ufficio, per qualche motivo non mi piaceva l’idea che le stesse troppo vicino. Gli avrei concesso cinque minuti, poi sarei andato a controllare che quel vermiciattolo borioso non facesse il furbo. Conoscevo quello stronzetto, si credeva la manna dal cielo.
Mi avvicinai alla vecchia Ford di Malloy e sollevai il cofano; la cinghia era partita, andava sostituita. Nonostante i rumori costanti dell’officina, sentii piuttosto chiaramente lo schianto di vetri in frantumi che provenne dall’ufficio. Scattai come una molla. Quello che vidi attraverso la porta aperta mandò in cenere qualsiasi briciola di buon senso io avessi mai avuto.
Erin era in un angolo, gli occhi enormi sul viso pallido come cera. Aveva una piccola ferita sulla fronte e stava spingendo lontano Shannon che farfugliava imprecazioni.
Non mi fermai a riflettere neppure per un secondo. Agguantai lo stronzetto per la camicia e lo scaraventai fuori dall’ufficio. Lanciai un’occhiata all’interno dove Erin sembrava pietrificata, con le mani schiacciate sulla bocca e gli occhi spalancati. Mi bastò un istante per decidere che stava bene e mi concentrai su Shannon, che si stava rialzando tirando giù diversi santi dal calendario.
«Sei fuori di testa, amico?» bofonchiò.
«Hai capito male,» gli dissi rialzandolo con mala grazia. «Cosa credevi di fare?» Lo tenni quasi sospeso per il davanti della camicia, con le dita che mi prudevano dalla voglia di dargliele di santa ragione.
«Ehi! Sei impazzito?» starnazzò.
L’espressione terrorizzata di Erin mi passò davanti agli occhi e caricai il braccio.
«Derek! No!» Mi voltai per trovare la mia principessa delle fate appesa al braccio, lo stesso che stavo per abbattere sulla faccia da scemo di Shannon. «No no no, ti prego. Ti prego, lascialo perdere.» Sembrava fin troppo preoccupata per lo stronzetto.
«Perché?» le domandai, sentendo già il sapore della bile in fondo alla gola. C’era qualcosa che mi sfuggiva.
«Non è come pensi lui… io… noi…»
«Erin!» la richiamai, esasperato.
Lei interruppe il balbettio e prese finalmente fiato. Aveva un bozzo sulla fronte e gli occhi più verdi che avessi mai visto. «Noi… stavamo insieme e così lui… è stato un incidente!»
Non volli sentire altro. Lasciai andare Shannon, che finì di nuovo con il culo sul pavimento; un gusto acidulo mi riempì la bocca e mi scrollai le mani di Erin di dosso. Era proprio da lei innamorarsi di un coglione simile.
«Ho capito,» dissi, il fiele che dalla bocca impregnava ogni sillaba.
La principessa mi guardò allarmata mentre mi accorgevo di avere un pubblico rapito e mi rendevo conto, per l’ennesima volta, di non essere l’eroe ma il drago.
Era il caso che andassi a sbollire altrove. Zio Bern mi lanciò un’occhiata severa, ma non cercò di fermarmi. Ignorai Shannon, che stava urlandomi dietro qualche minaccia da figlio di papà, e pure il «Derek! aspetta!» di Erin. Avevo avuto le risposte che cercavo. Si trattava solo di farmene una ragione.
Uscii al sole accendendomi una sigaretta e camminai verso il sentiero che costeggiava il canale. Occhieggiai la bicicletta accuratamente assicurata alla staccionata e sentii una fitta al petto. Mi ero proprio bevuto il cervello. Comminai più veloce e trattenni un’imprecazione quando sentii scricchiolare la ghiaia dietro di me.
«Derek! Vuoi ascoltarmi per un minuto?»
«No, principessa.» Aumentai il passo e tirai una boccata sputando fuori il fumo. Ero il drago, o no?
«Per favore, Derek! Io ho bisogno di…»
Mi bloccai di colpo e mi voltai per vedermela rovinare addosso. Sentii le sue mani sul petto e la presi per i polsi, staccandola da me. Aveva corso e aveva le guance paonazze in contrasto con gli occhi chiarissimi nella luce piena del sole. «Lascia perdere, Erin,» le dissi mettendola dritta e allontanandomi in fretta.
«Perché?» chiese con il tono di voce più alto che le avessi mai sentito usare. «Perché fai sempre così, accidenti?»
La ignorai. Come al solito, quando si trattava di lei, non avevo nessun controllo di me stesso. Non volevo affrontarla. Non volevo starle accanto sapendo di non poterla avere. Continuai per la mia strada sperando che quell’atteggiamento fosse abbastanza villano da farla desistere. L’avevo sottovalutata.
Una spinta mi fece sbilanciare in avanti, poi furono le sue parole a colpirmi, veloci, affilate come piccoli pugnali. «Stupido asino che non sei altro!» strillò. Riconobbi rabbia e un pizzico di disperazione. «Sono stufa marcia di te e delle tue scenate!»
Mi bloccai ed Erin mi aggirò per fronteggiarmi. Presi l’ultima boccata dalla sigaretta e gliela soffiai in faccia prima di buttare il mozzicone. Sollevò il piccolo pugno e me lo piantò sul braccio.
«Sei proprio un idiota!» dichiarò con rabbia.
Le risi in faccia e feci per scansarla, ma non me lo permise. «Esatto! Ci sei arrivata, principessa. Sono uno stronzo.»
«Oh, sei molto più di quello.» Quella replica sibillina mi piombò le scarpe; la fissai, cosa voleva dire? Non erano molte le persone che pensavano che fossi… più di qualcosa.
«Mi fai ammattire,» disse piano. Sembrava aver perso il coraggio.
«Non succederà più,» le assicurai. Questo doveva bastarle.
Erin pestò i piedi sollevando un po’ di polvere. «Ma certo! Ti sei divertito a farmi impazzire e adesso te ne vai?» Calciò un po’ di ghiaia sulle mie scarpe. «E… e non mi hai neanche baciata come si deve!»
Dovetti controllare che la mia mascella fosse ancora attaccata al resto della faccia. «Cos’hai detto?» Feci un passo nella sua direzione e lei un passetto indietro. Il nostro tipico balletto. «Ripetilo!»
«Hai sentito benissimo.» La mia principessa sbuffò, appoggiò le mani sui fianchi e sbatté le palpebre. Inspirò e sembrò riprendere coraggio, mentre il mio cuore prendeva a battere con furia. «Come ti sentiresti se venissi da te, mi strusciassi, dicessi cose senza senso e me ne andassi senza una parola?»
Allungai un braccio nella sua direzione, ma non arrivai a toccarla. Balzò da un lato per sfuggirmi e mi puntò un dito contro. «No no no. Non toccarmi!»
«Principessa…»
Scosse la testa. «No.» Stese il braccio per tenermi a distanza, come se potesse bastare a fermarmi. Incrociai le braccia sul petto e mi limitai a guardarla. C’era qualcosa di simile alla speranza che mi stava montando dentro. Non potevo abbassare la guardia.
«Allora, ci hai pensato? Come ti sentiresti?» mi incalzò. Avevo totalmente perso il filo del suo discorso.
«Eccitato,» risposi. Quando si trattava di lei era una risposta che andava bene, sempre.
Non lo credevo possibile, ma arrossì ancora di più. Annuì. «Esattamente.»
La sua voce bassa e roca mi fece mollare gli ormeggi. La raggiunsi in due falcate bloccandole le braccia dietro la schiena.
«Cosa fai?» farfugliò agitata. Non cercò di divincolarsi né di fuggire la mia presa. Alzò il viso verso il mio e mi guardò dritto negli occhi. Sentii il suo fiato bagnarmi le labbra.
Le tenni le braccia ferme con una sola mano mentre le facevo scivolare l’altra dietro la nuca. «Ti bacio, Erin. Non ti ho ancora baciata come si deve. Non fai che lamentartene.»
Aspettai che aprisse la bocca per replicare poi mi presi le sue labbra. Aveva un sapore meraviglioso. Delicato e arrendevole. L’avevo immaginato così tante volte, eppure non mi ero impegnato abbastanza. La mia fantasia non poteva competere con quel momento. Le baciai troppo dolcemente il labbro superiore, quindi le feci sentire i denti sulla carne sottile al di sotto. Un piccolo gemito era tutto quello che mi serviva per approfondire il bacio. Penetrai con uguale prepotenza e disperazione. Per un poco mi illusi di avere la cosa sotto controllo, ma presto scoprii che se mi avesse respinto sarebbe stata dura da mandare giù. La strinsi un po’ più forte e mi resi conto delle sue mani che scivolavano sulle spalle, mentre mi tirava a sé con un’urgenza che mi sorprese.
«Principessa…» sussurrai su quella bocca che avevo sognato. Su una pelle che non ero in diritto nemmeno di immaginare di toccare. «Non dovresti essere qui con me.»

Erin

«Che zuccone!»
Derek piegò le labbra in quel quasi sorriso che mi piaceva tanto. «Continui a dirlo. Non è carino.»
«È vero.»
«No, che non lo è.»
Derek sorrise, un po’ di più, poi mi circondò il volto con le mani. Erano ruvide e sapevano di olio per motori e sigaretta. Il suo odore, lo adoravo. Mi tenne ferma per guardarmi con troppa insistenza, come se potesse spogliarmi, sezionarmi senza pietà. «Non puoi essere fatta per me,» disse in un sospiro. Capii che diceva sul serio.
«Perché no?»
«Le principesse delle fate non baciano i draghi.»
Non ero d’accordo. «Le principesse, in quanto tali, baciano chi pare a loro,» dissi convinta prima di posare un bacio lieve sulle sue labbra tese. Era davvero fissato con quella storia della principessa.
Si rabbuiò. «Cosa è successo con Shannon?»
Mi vergognavo un po’ di essere uscita con quel cretino. «Te lo racconterò.»
«Ti ha fatto del male?»
«È solo un idiota,» sentenziai. Mi rivolse uno sguardo tagliente e mi mancò il respiro. Stava per mollarmi di nuovo senza una spiegazione? Impugnai il colletto della sua t-shirt e mi preparai alla lotta. Avrebbe dovuto scrostarmi da sé come una patella da uno scoglio.
«Lo vedrai ancora?» Se le voci avessero avuto un colore, la sua sarebbe stata nera.
«No, neanche lui è esattamente un principe azzurro.»
«Ed è quello che cerchi? Un principe azzurro del cazzo?»
Sospirai. «A questa principessa piacciono i draghi.»
Derek mi guardò con una strana espressione che non seppi leggere appieno, di certo c’era una buona dose di incredulità. «Non ci so fare con le principesse.»
«Ho notato qualche difficoltà di dialogo…»
Gli tremarono le labbra in un sorriso piccolissimo, mi sollevai sulle punte per baciare quel dono sospeso. Derek, da buon drago, emise un ringhio soddisfatto e mi strinse a sé. In effetti, non sembrava che volesse lasciarmi tanto presto.
«Credo che ce la caveremo, d’ora in avanti,» dissi.
«Pensaci bene, principessa. I draghi sono gelosi, possessivi e ingordi.» Derek rilasciò l’ultima parola con un carico tale di lussuria che sentii le ginocchia cedere.
«Non ho fatto altro che pensarci da quando ho messo piede all’officina.»
Fu allora che sorrise davvero. Lo squarcio di un fulmine in un cielo buio. Poi mi baciò ancora.

Avevo sentito dire che i draghi, una volta ammansiti, erano compagni meravigliosi. Di certo non c’era principe azzurro al mondo che reggesse il confronto. Almeno per me.
«La miseria, era ora!»
Derek sospirò pesantemente, poi mormorò un «Razza di stronzi», mentre finalmente mi accorgevo del capannello di persone che ci fissavano con diversi gradi di soddisfazione. Erano tutti appoggiati alla staccionata del cortile. Stecco sorseggiava una tazza di caffè, mentre Buco annuiva con vigore.
Zio Bern sorrise compiaciuto, mi strizzò l’occhio e poi diede una pacca a Biagio prima di tornare verso l’officina. Derek si voltò per guardare in cagnesco la sua squadra; avevo pensato che potesse voler prendere le distanze, invece mi tenne un braccio intorno alle spalle mentre con l’altro indicò il garage.
«Tornate al lavoro, imbecilli!» tuonò.
I ragazzi si mossero senza fretta, sapevano bene anche loro che drago che abbaia… non morde.

Giuditta Ross è, prima di qualsiasi altra cosa, una sognatrice, un’irriducibile latitante dalla realtà. Giuditta è una lettrice affamata, una divoratrice di emozioni. A tenerla con i piedi per terra ci sono un marito, una figlia e una gatta che fanno a turno per reclamarla al presente. I suoi pensieri, preda di ispirazioni improvvise, vagano fin troppo spesso tra le faccende quotidiane e qualche scena di quel libro che piano sta prendendo forma, con risultati spesso improbabili. È una seguace dell’immaginazione, una schiava della fantasia, un’adepta del sogno a occhi aperti. In fondo, Giuditta non è che il frutto di un sogno che incredibilmente si avvera.