La telefonata
La telefonata arriva che è da poco passata mezzanotte. Sono sveglia perché, come spesso accade a chi alterna turni di giorno a quelli di notte, il sonno non è facile da raggiungere. Mio marito e i miei figli sono nel mondo dei sogni già da un pezzo, e io mi sono appena decisa a prendere mezzo Tavor in modo da poter riposare un po’. Così, mentre me ne sto seduta sul divano pensierosa e intorpidita, con la pillola in una mano e il bicchiere nell’altra davanti al televisore muto, da qualche parte della stanza il cellulare comincia a ronzare. Prima di rispondere guardo il display. Chiamano dalla struttura per anziani dove lavoro. Spero solo non ci siano guai in vista. Rispondo.
«Cosa c’è?» domando in tono burbero. «Sapete che ore sono?» aggiungo indispettita.
«Anna? Sei sveglia?» mi chiede con voce incerta Luisa, l’infermiera del turno di notte.
«Adesso lo sono certamente» mugugno. «Che cavolo è successo per chiamarmi a quest’ora? Sono libera fino a dopodomani» le ricordo senza alzare il tono della voce.
«Oscar…» sussurra con un tono carico di angoscia, e poi tace.
«Oscar?» domando, mentre artigli affilati mi graffiano il cuore.
«Oscar, sì. Proprio lui» risponde, e io capisco che ha voglia di piangere.
«Era da un paio di giorni che non si vedeva. L’avete trovato?» chiedo, mentre i graffi sul cuore diventano più profondi.
«Purtroppo sì» singhiozza.
«È morto?» continuo a interrogarla. La voce mi esce in un sussurro rauco, come se quelle terribili parole si rifiutassero di venir fuori.
«Sì» risponde. Poi prosegue: «Si era nascosto nel sottoscala, fra i cuscini e le coperte che non si usano più. Lo sai che i gatti hanno bisogno di privacy, per morire?».
«Lo so» annuisco. I graffi si sono fatti tanto profondi da frantumarmi il cuore. «Avviso Roberto e arrivo» la rassicuro.

Mio marito
«Cosa succede, Anna?» all’improvviso, mio marito mi si materializza alle spalle.
«Devo scappare in clinica, Roberto.»
«A quest’ora?» mi chiede. La voce venata di sonno e di preoccupazione.
«È morto Oscar» sussurro e mi copro il viso con le mani per nascondere le lacrime che hanno iniziato a bagnarmi le guance.
«Mio Dio! Non ci posso credere!». Si lascia cadere sul divano, accanto a me, poi mi abbraccia forte. La luminosità che proviene dal televisore acceso gli dipinge sul viso un’aria smarrita. «Non è possibile, Anna! Quel gatto era in grado di prevedere la morte di ogni paziente di quella dannata casa di riposo. Possibile che non sia stato capace di prevedere la sua?».
«Lo ha fatto, te lo assicuro. Solo, si è rifiutato di informarci» singhiozzo, senza nascondere più il pianto.
Lui mi stringe ancora più forte e mi asciuga le lacrime con le dita forti e calde: «Come è successo?»  domanda.
Scrollo le spalle e accetto il conforto di quelle mani: «Era sparito da un paio di giorni. Luisa ha scoperto che si era nascosto nel sottoscala dove sistemiamo i cuscini e le coperte che non usiamo più, prima di buttarli via. Si era nascosto per morire.»
Roberto annuisce: «I gatti fanno così» tenta di consolarmi. «Era vecchio? Quanti anni aveva?»  chiede ancora.
«Chi può dirlo? Nessuno di noi lo sa con precisione. Un bel giorno è arrivato alla clinica e poi non se ne è più andato. Lo abbiamo chiamato Oscar, ma in quanto all’età, quella non siamo mai riusciti a saperla. Quel gatto aveva tanti doni, ma gli mancava quello del la parola.»
«I gatti sono magici» sorride Roberto. «Dovremmo adottarne uno anche per i bambini» suggerisce poi. Si alza e va verso la cucina. «Ti faccio un caffè. Ne hai bisogno, se devi guidare.»
Quando il caffè è pronto, Roberto me ne versa un po’ nel bicchierino di vetro e me lo porta. Ringrazio. Ne vorrebbe bere un po’ anche lui. Mi dice che vorrebbe accompagnarmi, ma io lo costringo a tornare a letto. Domani ha una dura giornata di lavoro e abbiamo due figli ancora piccoli. Anche se dormono, non voglio che rimangano abbandonati in casa. Non si sa mai. E poi, c’è un’altra ragione per cui desidero andare da sola. Ho amato Oscar teneramente, e voglio piangerlo come una madre potrebbe piangere il suo bambino perduto. Forse Roberto, che pure i gatti li ama, non capirebbe. Dopotutto, io sono la madre dei suoi figli.

Verso la clinica
Quando esco da casa, il freddo notturno mi assale. Corro a rifugiarmi nella macchina parcheggiata in cortile. Metto in moto e accendo i fari. C’è nebbia, questa notte, una foschia densa e lattiginosa che avvolge come un lenzuolo funebre tutte le cose. Guido piano, con attenzione, seguendo come punto di riferimento la linea di mezzeria. Per vederla devo tenere il finestrino aperto e sporgermi ogni tanto, per assicurami che sto andando nella giusta direzione. Per fortuna, la clinica non è troppo lontana da casa.
Luisa è in attesa nella guardiola del portiere di notte. Quando mi vede arrivare, mi viene incontro. Ha gli occhi pieni di lacrime e regge tra le braccia una scatola di cartone, una di quelle dove si tengono i flaconi del detersivo per i piatti.  Me la consegna, io la apro e rimango immobile e senza respiro a contemplare il piccolo gatto nero dalle ghettine bianche che dorme il suo ultimo riposo. Sono assalita dai ricordi.

Oscar
La prima volta che vidi Oscar è stato circa dieci anni fa. Si era presentato alla clinica per anziani, dove lavoravo e ancora lavoro come infermiera specializzata, ed era rimasto sulla soglia, immobile e ieratico come una sfinge, a fissare con attenzione tutti quelli che gli passavano davanti.
«È da due giorni che viene qui, sempre alla stessa ora,» mi disse la vecchia signora Gismondi.
Sorrisi. Non era difficile capire cosa volesse il gatto nero, magro come un chiodo e con il pelo malandato: voleva cibo. Dopo che gli ospiti della clinica avevano terminato di mangiare, andai in cucina, raccolsi i bocconi migliori che avevano lasciato nei piatti, li sistemai in un recipiente di carta e andai da lui.
«Micio, micio,» lo chiamai e posai il piatto in un angolo nascosto del giardino, dietro un cespuglio di rose bianche. Non volevo che nessuno mi vedesse comportarmi da gattara. Il micio mi seguì in silenzio, poi si fermò accanto al cibo e i suoi limpidi occhi gialli mi donarono uno sguardo triste e severo. Compresi che aveva sofferto, e non solo per la fame. Allungai una mano esitante e gli accarezzai il pelo arruffato. Lui drizzò la coda in alto, piegando la punta verso il basso. Il modo che i gatti hanno per dire: sono pazzo di te.
«Certo che sei pazzo di me, micio,» ridacchiai. «Ti ho appena portato tutti gli avanzi di petto di pollo che c’erano in cucina» gli sussurrai prima di andarmene. Quando tornai, la ciotola dell’acqua tra le mani, il piatto era stato tirato a lucido e il gatto nero era sparito.
Si ripresentò la mattina successiva e si impadronì della cuccia vuota del cane morto l’anno precedente. Se io non ero in servizio, c’era sempre qualcun altro che si preoccupava di dargli da mangiare e di portargli dell’acqua fresca. Era un gatto dolce e gentile. Così socievole che non ci mise molto a conquistarsi l’affetto di tutti: medici, infermieri, inservienti e degenti. Alla fine, decidemmo di dargli un nome. Lo chiamammo Oscar.

Il dono
Non tardammo a comprendere che quel gatto tenero e affettuoso aveva un dono: Oscar sentiva le vibrazioni che i corpi emanavano quando si avvicinavano al momento del trapasso.
La prima persona che Oscar accompagnò nell’altrove fu la vecchia signora Gismondi. Una mattina, saltò sul suo letto (cosa che normalmente non aveva l’abitudine di fare), le si accucciò sui piedi e rimase lì, immobile per tutto il giorno, ronfando sommessamente. Non si allontanò da lei neppure per mangiare. Quella sera stessa, la vecchia signora se ne andò via serena. Quando la trovai senza vita, aveva le labbra schiuse in un sorriso. Capii che la vicinanza di Oscar le aveva addolcito il momento del trapasso.
Poi fu la volta la volta del dottor Alberti. Oscar andò a dormire sul suo letto che erano le dieci di sera. Alle otto di mattina, il cuore del vecchio medico aveva cessato di battere. Anche lui se ne era andato serenamente, con un’espressione felice stampata sul viso.
Fu allora che cominciammo a sospettare, ma la certezza che Oscar percepisse le vibrazioni che precedono il trapasso arrivò solo più tardi. Nessuno capì mai come facesse, ma io sapevo che, a volte, gli animali avevano strani doni. Non avevo mai dimenticato la mia gatta Cipollina, una vera esperta nel dare l’allarme contro i terremoti. Lei, di solito così tenera e dolce, prima di ogni scossa diventava furiosa e graffiava tutti quelli che tentavano di avvicinarsi per tranquillizzarla. Poi, dopo la scossa, all’improvviso si calmava, mentre noi, increduli, ci domandavamo come avesse fatto a sapere.
Oscar era come lei, quando sentiva che uno dei nostri vecchi pazienti stava per andarsene, gli si accucciava accanto e restava con lui sino alla fine.
In clinica avevamo preso l’abitudine di avvisare i parenti ogni volta che Oscar saliva a dormire sul letto di uno dei degenti. Nessuno aveva mai pensato che portasse sfortuna. Semplicemente, lui avvertiva le vibrazioni che portava la morte e faceva del suo meglio per consolare chi era giunto alla fine dei propri giorni.
All’inizio, qualcuno aveva un po’ paura di quel gatto nero e dolce, dallo sguardo grave. Poi, cominciammo tutti ad amarlo. Oscar era un angelo venuto in mezzo a noi, a rendere meno dure le sofferenze della vita.

L’addio
Appoggio la scatola sul cofano della macchina e rimango a contemplarlo, in silenzio. La morte non ha infierito su di lui. È bello come lo è stato in vita. Poi mi faccio coraggio e lo accarezzo. Quel corpicino rigido e freddo è appartenuto a una creatura tenera e gentile, amica dei tanti anziani ospiti della nostra clinica per lungo degenti.
Piango, permettendo alle lacrime di scorrermi copiose lungo le guance, fino a raggiungere il bordo della camicetta. Luisa mi ha seguita asciugandosi gli occhi con un klinex zuppo. Chiudo la scatola e faccio per metterla in macchina, ma lei mi ferma.
«Cosa fai, Anna?» chiede.
«Lo porto via, a casa mia. Lo seppellirò nel giardino.»
«Oh, no. Non puoi,» mi dice. «Lui resterà qui, insieme a noi. Questa era la sua casa. Ho parlato con il direttore sanitario. Siamo tutti d’accordo.»
Stringo la scatola al petto con aria possessiva. In fin dei conti, ero io quella che si prendeva cura di lui, io più di tutti gli altri: «Cosa volete fare?» sibilo.
«Domani mattina, alle 10. Celebriamo il funerale. Lo seppelliremo sotto al cespuglio di rose bianche che gli piaceva tanto. Verranno tutti: personale e ospiti. Oscar merita l’amore di ognuno di noi.»
Stringo la scatola al petto per l’ultima volta, poi la restituisco a Luisa. È giusto così, mi dico. Questa è la sua casa. È qui che deve riposare.
«Ci sarò anch’io» prometto, tirando su con il naso e asciugandomi le guance con un pezzo di Scottex che ho trovato in fondo alla borsa.
«Ci saremo tutti» conferma, e mi abbraccia.
Certo: Oscar avrà un funerale da favola. Tutti vogliono salutare un vecchio amico che se ne va verso il suo ultimo viaggio.
Risalgo in macchina, metto in moto e accendo i fari. Quando mi allontano dai lampioni che illuminano lo spazio della clinica, la nebbia torna a scendere su di me con la sua coltre spessa e ovattata, coprendo il paesaggio circostante con un manto carico di dolore. Fa freddo, l’estate sta morendo e l’autunno è in arrivo. È quello che io reputo il periodo più triste dell’anno e senza Oscar la nostra vita alla clinica sarà ancora più amara. Mi dico che forse, quando il dolore si sarà un poco stemperato, farò un salto al gattile e adotterò due gatti: uno vivrà in clinica e l’altro a casa mia. Forse sarà un sollievo, anche se so che un pezzo del mio cuore se n’è andato via per sempre, insieme a quel micio dolce e sereno.
Quando arrivo a casa sono ormai le quattro. La notte è pronta a cedere il posto al nuovo giorno. Roberto se ne sta accucciato sul divano, semiaddormentato, ad aspettarmi.
«Ti amo» sussurra, e poi mi abbraccia. Io mi stringo a lui e ci addormentiamo, vicini come forse non siamo mai stati.

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