LAURA

Sabato sera

È stato un fine settimana intenso. Venerdì mattina, cioè ieri, ho visto l’appartamento che mi aveva indicato Aldo, l’ho fissato. Dopo pranzo ho fatto vedere il mio. Si prenderebbero anche i mobili. Li trovano di buona qualità come adesso non li fanno più. Non quelle cose di adesso che durano un anno e basta.
Lui dice a lei: — Fra cinquant’anni saranno ancora come nuovi, basterà averne cura.
Ma quanto pensa di vivere? Pensa di portarseli appresso? Come i faraoni nelle piramidi, con tutti i loro arredi e corredi. Però non discuto: scemenza sua, vantaggio mio. Un rigattiere me li pagherebbe molto meno.
Ho chiamato Aldo e ho seguito i suoi consigli. Ho comunicato al padrone di casa la mia intenzione di lasciare l’appartamento e che dei miei conoscenti lo prenderebbero volentieri. Ci sono ancora da sistemare i dettagli, ma sembra tutto verso il porto.
Lascerò questa casa, senza rimpianti, se non per il tempo che ho perso per far funzionare una storia già sbagliata in partenza.
Ho ripreso in mano il mio guardaroba, decidendo che voglio vestirmi come piace a me. E ho riportato i miei capelli ai loro ricci.
Ma questi sono soltanto dati accessori.
Maura mi ha dato copia di tutto il materiale che è stato consegnato ad Umberto: mi sento Mata Hari.
Anche un po’ indegna.
Mi conforto dicendomi che è legittima difesa e che non ho intenzione di danneggiarlo ma soltanto di vederlo come è, non come ho voluto vederlo.
All’ingegner Follini sono stati affidati tre possibili brevetti. E non robetta da poco, cose serie. Chi li acquisterà avrà da guadagnarci. Se il brevetto sarà in regola in tutti i dettagli, inattaccabile: non una copia e con una registrazione tipo botte di ferro per evitare imitazioni.
Me lo sono studiato e ho fatto i miei controlli.
Maura mi ha anche dato copia delle relazioni provvisorie stilate da Umberto. È una sciocchezzuola procurarsela.
Conosco la sua Password, non che me l’abbia detta ma l’ho scoperta senza difficoltà. Una bambinata: OTREBMU.
Da un ingegnere ci si aspetterebbe di meglio, fra l’altro non ha neppure pensato a cambiarla. Un operatore prudente non conserva la sua password per anni. Io cambio la mia ogni due o tre settimane, niente date fisse, sono pericolose.
La mia è un po’ più intricata.
Con la password che le ho dato Maura è entrata nelle sue cartelle recenti, ha copiato le relazioni su file e me l’ha spedite per mail, da casa sua. Ci passerò una nottata a studiarmele, facile, ormai so quali sono i suoi punti deboli.
Mi sento come un combattente la sera prima della battaglia. Come tecnica diversiva (in mattinata) ho telefonato ad Umberto. Non vuole che lo chiami… L’unico momento consentito è la domenica mattina fra le undici e le dodici, sul suo cellulare. Esce per l’aperitivo e per comprare il giornale.
Ma come ha fatto a ridurmi in schiavitù?
C’è riuscito perché sono stata io a porgere mani e piedi per le catene.
Ma il problema di fondo è come smettere di aiutare Umberto senza suscitare sospetti e quindi ritorsioni (lui ha Samperi dalla sua) …
Sabato sera sto cercando di analizzarlo con calma quando mi squilla il telefono.
— Laura, sono Lucia.
— Dimmi, Lucy.
— Matteo sta giocando con i bambini. E così riesco a chiamarti.
— Cosa c’è, Lucy?
— Non mi si stacca un attimo di torno. Sai cosa fa adesso? Viene anche a prendermi a scuola.
— Quante volte è venuto? — Mi faccio due conti, al massimo venerdì e sabato. Erano solo due, però due su due. Povero Matteo!
— Venerdì. Avevo collegio al pomeriggio, sapeva che non tornavo a casa e così mi ha detto che potevamo mangiare insieme. Di solito mangio con i colleghi. Invece mi ha portato da Mannori.
— Bene — commento. Un uomo, anche se marito, che ti porta a mangiar bene, perché da Mannori si mangia bene (non stranezze ma roba toscana autentica), non è da buttare.
— Ha ordinato lui. Tutte cose sane: bistecca e insalata. E poi torta casalinga. Dice che mangio troppo poco.
Non è così tragica, mi dico… Ed è in linea con le paure di Matteo. Da bravo marito innamorato si prende cura della salute della moglie, senza sapere che l’unico evento capace di far perdere l’appetito a Lucy è un innamoramento.
Ora che ci penso avrei dovuto rendermi conto che la mia sorellona ha perso qualche chilo, dalla sua quasi 48 è scivolata alla 46 scarsa. Forse anche 44.
— Mi è rimasto tutto sullo stomaco. — Pausa. — Ma non gli è bastato! Sabato è venuto a prendermi con i bambini all’uscita e ci ha portati di nuovo tutti a pranzo fuori. Pesce a Nervi. Se continua così ne risentiranno le finanze.
— Dai, di cosa ti lamenti?
— Mi lamento che mi sta appiccicato come…
— Cerotto?
— Sanguisuga. Ecco.
— E Marco?
— Non me ne parlare, non voglio parlarne.
Conoscendola, so che mia sorella ha una voglia matta di parlarne, ma ha bisogno di una spalla che le dia la giusta battuta d’inizio. Il ruolo della spalla, ingiustamente sottovalutata, ma anche i grandi attori ne hanno bisogno… Lucy è la mia unica sorella, e molto cara, così non si faccio pregare: — Come ti capisco…
— Lo amo. Non è un’infatuazione passeggera. — Si soffia il naso. — Sono abbastanza adulta da capire la differenza. Siamo fatti per stare insieme.
Che Lucy sia adulta è tutto da vedere, ma continuo con le mie battute di rito: — E lui cosa dice?
— È un uomo serio, un gentiluomo, capisci. Chiaro che non si è fatto avanti, sa che ho marito. Ma le sue occhiate sono più chiare di tante parole. I miei sentimenti sono ricambiati, ne sono certa.
Resto zitta. Ricordo bene le occhiate ammaliatrici che il prof Marco Bagliomi, detto Bagliozzo, fotocopia di Claudio Baglioni, ha dispensato alle due colleghe che gli zampettano attorno.
Dai miei ricordi di liceale i prof maschi, appena appena decenti, devono essere così rari da funzionare peggio che da magneti in limatura di ferro. Ma la voce no… Non ha voce seducente.
Nel frattempo, Lucy sta continuando il suo discorso con Matteo e i bambini e il lavoro e Marco, tutto in libertà. Un’insalata russa di casini con maionese di buoni sentimenti. E sta concludendo con il classico: — Cosa devo fare, Laura? — Perché anche se è la sorella maggiore i ruoli di famiglia mi assegnano la parte di consigliera amorosa.
Lucy, da ragazzina, doveva pur raccontare a qualcuna le sue pene d’amore e chi era più adatta della sorella piccola sempre a portata di mano? Fra l’altro, anche se in teoria ognuna aveva la propria camera, finivamo per dormire quasi sempre nella stessa, a volte anche dividendo il letto. Capitava spesso che ci fossero ospiti improvvisi. In casa Arnolfini non si mandava mai via nessuno, ci si stringeva, ci si arrangiava.
Così noi due passavamo notti a chiacchierare, con la complicità del buio. E le coperte che facevano capanna. Forse da tutti quei sospiri e sogni è nata la mia confusione sentimentale… Per anni mi sono difesa da tutte quelle ciance sul grande amore con la A maiuscola, preferendo quelli con la a minuscola… Così non mi sono fatta gli anticorpi e alla prima occasione mi sono fatta schiavizzare dal primo stronzo di passaggio.
— Cosa devo fare, Laura?
— Credere in te, Lucy. Sei forte, ragionevole e determinata. Vedrai che tutto si risolverà. Se un uomo ti merita non può che ricambiare i tuoi sentimenti. — Matteo la merita eccome! Anche solo per tutte le enciclopedie mediche che le compra. E gli aggiornamenti e gli eterni maglioncini blu. Lucy ne ha più lei di un ufficiale di marina, ma nessuno, in famiglia, ha mai voluto deludere Matteo indirizzandolo verso un altro colore…
— Ti voglio bene, Laura. Tu sì che mi capisci. Non come… — cambia il tono di colpo. — Ora devo lasciarti, Laura.
Matteo deve aver smesso di giocare con i bambini e deve essere arrivato a controllare se la moglie sta bene.
— Non ti preoccupare, Laura. — E poi, con voce finto allegra e disinvolta: — È Laura, Matteo, vuoi salutarla?
— Ciao, Lallina. Novità? — Nella domanda c’è un fondo d’ansia.
— Niente. Ho chiamato Lucy solo per dirle che lunedì ricomincio il lavoro.
Pausa e poi Matteo ricomincia a bassa voce, con tono da cospiratore. — La faccio mangiare sano, sai? E quel foglietto…
— È rimasto a me. — Veramente non è stato un caso, ho preferito toglierlo di mezzo.
— Puoi buttarlo.

LUCY

Ho telefonato a Laura, sono stata più attenta di una cospiratrice da romanzo. Perché la mia sorellina sembra svanita ma capisce molto più di quello che vuol far credere: sempre stata la testa fina di famiglia.
Però neppure io sono male: le ho raccontato due o tre cosucce, vere fra l’altro, buttando qua e là che Matteo è venuto a farmi improvvisate a scuola.
Lei niente.
Doveva essere in zona per caso.
Comunque, non mi ha vista.
Se Matteo si è stupito di tutto quel pane non ha fatto commenti.

LAURA

Domenica mattina
Sono nel mio appartamento troppo grande, con box doppio e mobili solidi. Mi solleva il cuore il pensiero che me ne andrò. E mentre giro per casa a dare un addio a questa specie di prigione della vera Laura capisco cosa devo fare.
Se conosco il mio caro Umberto, lui si aspetta che io cerchi di far pace. Meglio che continui a crederlo.
Controllo l’ora, non voglio rischiare di sforare, lui deve credere che niente sia cambiato, deve essere tranquillo.
— Sono Laura, ti disturbo?
— No, figurati. Come stai?
— Bene. Abbastanza bene. Sono stati giorni difficili. — Pura verità.
— Ti avevo vista un po’ strana. Ti sei ripresa? — comprensivo.
— Sì, quasi del tutto. Domani riprendo il lavoro. Tu come stai?
— Abbastanza bene. Ho avuto un’emicrania terribile e qualche problema di digestione… L’aereo. Mi succede sempre. E domani mi aspetta il lavoro. Spero di riuscire a riposare un po’ oggi pomeriggio. Mi aspetta una settimana di lavoro.
Anche a me, come alla maggior parte della gente: quella che non è disoccupata.
Probabilmente Umberto si è alzato alle nove, ha fatto toilette (è lento perché, dice, accurato) ed è uscito (gli indumenti puliti li ha già trovati sul Reguitti predisposti dalla sua MAMMA, la prima volta che ho sentito nominare il Reguitti non ho capito cosa era. Poi lui me ne ha fatto comprare uno e così ho capito). Finalmente è uscito: tutto molto stancante. — Una settimana di lavoro è sempre faticosa — lo blandisco, comprensiva.
— Non è il lavoro, Laura. È la responsabilità. Controllare che le pratiche siano complete. Controllare che non ci siano brevetti analoghi.
Accidenti se lo so! I controlli per lui li faccio io, da anni.
— Basta un passo falso…
Vero. Capitano spesso proposte di innovazioni e poi si scopre che sono già coperte da brevetto. Il prestigio della TEXA dipende dall’accuratezza dei suoi controlli. Le ditte che si rivolgono a noi sanno che non avranno problemi a commercializzare i prodotti coperti da brevetto. Tutto in ordine!
Ci vuole pazienza e anche un po’ di fiuto, diffidando di proposte troppo vantaggiose.
— Stai tranquillo, Umberto. Tu non ne hai mai fatti. — Vero, sono stata io a fargli da rete in più di una occasione. Il difficile è stato nascondergli che facevo anche la sua parte di lavoro.
— Ma ora devo controllare tre brevetti importanti. Devo fare un buon lavoro, sai la mia carriera è ad una svolta. E quando avrò successo mi porterò dietro chi mi ha aiutato. L’ho sempre fatto…
— Non hai bisogno di dirmelo, Umberto, ti conosco bene. — Fidente.
— Ora ti lascio, Laura, devo rientrare. — Abbassa la voce in un sussurro, come per mormorare parole d’amore: — A domani…
A domani.
Io ho già fatto un lavoretto di fino sulle sue relazioni. Come prevedevo sono piene di falle. Falle così vistose che le vede anche un cieco: per tutte e tre ci sono brevetti analoghi e Umberto non ha allegato controlli per verificare se possono essere considerate copie.
E nella registrazione troppi casi non sono previsti. Niente impedirà ad un concorrente un po’ sveglio di copiare impunemente quanto noi, anzi Umberto, ha garantito non copiabile.
Un brevetto che non tutela è peggio di carta straccia.
Le tre relazioni sono carta straccia.
Scrupoli? Qualcuno. Ma sono i capi della TEXA e non io ad aver deciso che l’ingegner Follini è una persona capace. L’ho coperto per troppo tempo, ora basta. La TEXA ne risentirà, ma almeno butterà a mare chi non merita di restare a bordo.
A domani.

Lunedì

Alla TEXA, di lunedì, cominciamo alle nove e trenta, così Maura può permettersi i suoi bagordi. E permetteva a me ore solitarie accompagnate dai film in terza serata. Essai o porno a scelta, nessuno dei due il mio genere.
Ho tutto il tempo. Le lezioni nella scuola di mia sorella Lucy cominciano alle otto e non ho preso una laurea in ingegneria per la mia bella faccetta, ma perché, fra l’altro, ho una memoria fotografica. L’orario di Bagliozzo! Letto e memorizzato.
Al lunedì entra alle otto. Lucy alle dieci, nessun pericolo che decida di anticipare per incontrarlo: alle nove deve accompagnare il piccolo all’asilo.
Alle sette e trenta sono di vedetta. Forse è uno che arriva in anticipo e non voglio perdere l’occasione.
Nessuno mi degna di una seconda occhiata.
Lo vedo arrivare, non è solo. È con una collega che si aggrappa alle sue occhiate come un drogato alla canna. Lui sorride, aggrotta la fronte, parla accompagnandosi con gesti misurati…
La sua voce mi giunge nitida nonostante il cicaleccio. IO IO IO… In tutte le combinazioni possibili.
È alla mia altezza, mi muovo di scatto come se di colpo avessi gran fretta. Lo scontro. È un brancicare di braccia e di mani. Quando voglio, la mia goffaggine raggiunge livelli da Oscar.
Si scusa, certo, ma perché io mi scusi di più. Lo gratifico.
Ho piazzato l’auto in Parco Serra, ma prima mi prendo un caffè. Missione compiuta. Il foglietto è stato recapitato.
Lucy e soprattutto Matteo non potevano restare a lungo in questa situazione di stallo.
Che il bel Marco Bagliozzo sia cotto della mia Lucy è la classica cavolata della suddetta Lucy.
Cosa ho imparato negli anni? Più un uomo si atteggia a seduttore più ha paura di arrivare al dunque. È l’acqua cheta quella che scava sotto i fossi.
Un rischio?
Un rischio calcolato. Ho fatto soltanto quello che Lucy desiderava fare senza averne il coraggio.
E ora che ho pensato a Lucy devo occuparmi di me.
Pago la mia ora di posteggio, avvio l’auto. Decisa come un soldato che parte in battaglia. Sapesse Arnolfini padre che la sua figlia piccola si sente un soldato che parte in battaglia penserebbe che mamma l’ha cornificato. Lo sapesse mamma mi toglierebbe il saluto: pacifista in ogni cellula del suo corpo. Pure mio padre, del resto, è pacifista. Per motivi ideologici. Come tutti i pacifisti convinti sono litigiosi, anche parecchio.
Non devo pensare al passato ma al futuro: fare piani di battaglia. Sì, di battaglia!
Come impedire che Umberto mi chieda aiuto? È una situazione così nuova (ho sempre dato una mano a tutti; esempio classico la prova di mate a Pupa da cui molti guai sono venuti). Posso solo sperare in un’idea estemporanea o nella fortuna.

Alle nove e venti entro in ufficio, mi sembra di esserne lontana da mesi, invece sono soltanto dieci giorni, dieci giorni di ferie che mi sono servite per risvoltarmi la vita come un guanto. Veramente gli unici guanti che mi è capitato di risvoltare sono quelli di gomma, quando c’entra l’acqua dentro ed è peggio che non averli.
L’acqua entra causa buchetto. Anche la mia vita ha una falla? Meglio non pensarci.
Come reggono i soldati la tensione e il panico da battaglia? Guardando avanti e procedendo di slancio. Impedendomi di immaginare cosa penserebbe mia madre se sapesse che prendo dei soldati come esempio, minimo le verrebbe un coccolone.
Io, Laura Arnolfini, mi considero un soldato che affronta la battaglia. Come tutte le guerre anche la mia, che doveva essere una cosuccia locale, si sta diffondendo alle vite vicine.
Presa da zelo mi sta venendo anche la tentazione di risvoltare quelle degli altri: un’assestata a quella di Lucy ho già cominciato a darla.
Devo trovare il modo di darne anche una a quella di Giovanna, per renderle il favore. Da lei ho avuto la prima spinta costruttiva.
E come dimenticare Maura? Con una tempestiva rivelazione mi ha tolto i paraocchi costringendomi a guardare la mia vita.
Appena possibile me ne occuperò.
— Come ti trovo bene! Ringiovanita! — esclama Rita. — Si vede che hai passato delle belle vacanze. Non come noi qui a sbatterci. — Sorrisetto. — Un uomo?
— Novità… — Intercetto l’occhiata di Maura e le faccio un cenno di complicità. — E qui?
— Tutto uguale, lavoro, lavoro e ancora lavoro.
— E allora mi metto al lavoro. — Mi fermo alla scrivania e accendo il computer, ma Rita mi blocca. — Ti vogliono in direzione.
Per un attimo mi si secca la gola e mi aumentano le palpitazioni. Che Umberto abbia deciso già da subito di vendicarsi per quello che gli ho combinato a Parigi? Che abbia deciso di farmi cacciare per evitare che trapeli qualcosa? Oppure Samperi è al corrente della relazione e vuole togliere dai piedi della figlia una possibile rivale?
Dannazione! Un posto lo troverò di certo. Ma dovrei rinunciare alla vendetta.
— Ti vuole Garavini.
Comincio a boccheggiare, come sempre quando sono agitata. Perché Garavini è Garavini.
Garavini: la leggenda. Ha fondato la TEXA dal nulla… Si dice che venga alla TEXA soprattutto quando i dipendenti non ci sono… L’ho visto in tutto una decina di volte in cinque anni e mai ho avuto l’onore di parlare con lui. Allora non è per cacciarmi via. Per una cosa così non si disturba il grande capo.
Cerco di ridurre il boccheggio abbastanza da chiedere: — Garavini? Ne siete sicure?
— Garavini. È nel suo ufficio.
Quello che resta sempre chiuso.
Vado e passando si do una controllata alle mani: sì, ho le unghie pulite… Da bambina mi sono presa una sgridata dalla direttrice perché avevo le unghie con il lutto e da allora me le controllo sempre, tanto per tranquillità.
Mi aspetto di fare anticamera, invece, appena arrivata, mi fanno entrare.
— Entri, Arnolfini. — E lui mi indica una sedia di fronte alla scrivania.
Età indefinibile, ma fra i cinquanta mal portati e i settanta splendidi, asciutto, inflessione anglo genovese. Alza il viso e mi fissa negli occhi. — Ho esaminato la sua cartella personale.
Inghiotto a vuoto. Mi sono illusa troppo presto, mi caccia… E vuole divertirsi un po’ a straccionarmi.
— È con noi da cinque anni, Arnolfini.
Annuisco.
— In cinque anni non ha mai cercato di fare carriera.
Rimango zitta. Certo che non ho fatto domanda! È una specie di tormento di Sisifo o una presa in giro: ogni sei mesi arriva una nota al personale “La direzione esamina richieste di assegnazione al ruolo di coordinatore…”. Ogni volta Umberto fa domanda ed io non voglio mettermi in competizione con lui. Magari scavalcarlo… Poi Umberto viene confermato “facente funzioni” e per cinque mesi si vive in pace. Perché nell’attesa della risposta della direzione Umberto era intrattabile ed io doveva garantirgli che questa volta sarebbe andato tutto bene, di stare tranquillo e panzane simili.
Forse è così vivere con una che vuol restare incinta e niente. Darci e darci. Poi mestruazioni…
Cerco di concentrarmi su quanto sta dicendo Garavini, non è facile, perché ho sempre avuto parecchia fantasia. Quindi mi distraggo di niente.
Lui continua con lo stesso tono: — Non mi piacciono i carrieristi, Arnolfini. — Mi fissa al di sopra delle lenti abbassate sulla punta del naso. — Ma con le pappe molli la TEXA non resta competitiva. Così mi sono preso il suo fascicolo personale, Arnolfini.
Chissà quante pecche ha trovato?
— In cinque anni ha fatto un totale di tre giorni di assenza per malattia e cinque per motivi di famiglia.
Lo interrompo, finalmente un discorso solido, concreto. Se pensa di cacciarmi per quello si troverà di fronte una lottatrice. — Per le malattie era stata un’influenza e i motivi di famiglia… Mia sorella aveva avuto un bambino, il secondo e non sapeva a chi lasciare il più grande.
— Non glieli contesto, Arnolfini. Volevo soltanto segnalare che lei è il dipendente della TEXA che è stato meno assente. Puntuale, sempre presente, ma mai una richiesta di avanzamento. Laurea: brillante, come il master. E niente richiesta di avanzamento. Per almeno quattro anni, ogni sei mesi, mi aspettavo di trovare la sua domanda. Invece niente domanda.
Accidenti, come posso spiegargli?
— Così controllo i risultati delle pratiche che le erano state affidate. Tutte a buon fine. Neppure un dettaglio per offrire appigli alla concorrenza. Ne ho preso una campionatura e me le sono studiate. Perché magari c’era qualche pecca sfuggita alla concorrenza. Niente. Ottimo lavoro. Sarebbe strano se lei, Arnolfini, non fosse consapevole di aver fatto per la TEXA un buon lavoro.
— Sono una dipendente…
Garavini blocca l’obiezione con un gesto. — Chi fa un lavoro bene come lo fa lei, cerca di fare carriera. O c’è sotto qualcosa? Pensa di lasciarci? È già in contatto con i concorrenti?
— No!
Un mezzo sorriso. E poi: — Era una possibilità ragionevole.
— No, no!
Garavini ricomincia a leggere fogli che, se la leggenda è vera, conosceva alla perfezione (si dice che abbia una memoria fotografica: letto e memorizzato). Quindi è scena. O no? Forse mi ha congedata e non me ne sono accorta.
Rimango così per un tempo infinito, poi tento di sbloccare la situazione di stallo: — Ingegner Garavini…
— Non sono ingegnere. Non ho papé da appendere al muro. E lei lo sa, Arnolfini.
Ancora una volta inghiotto a vuoto. Quel maledetto boccheggio! Quando mi abbandonerà?
Altro lungo silenzio, poi di nuovo Garavini: — Quando in un problema c’è un punto oscuro lei cosa fa, Arnolfini?
E cosa c’entra? Ora mi interrogherà di brutto? E su cosa? Almeno sapessi la materia d’esame. Di musica classica, per esempio non so niente. E neppure di ciclismo, anche se Arnolfini padre è così tifoso di Bartali che ne tiene un poster davanti alla scrivania. Forse è per quel poster che mi piacciono gli uomini con un naso di discrete proporzioni…
— Mi ascolta, Arnolfini? Devo ripeterle la domanda?
Col cavolo! Lui si prende tutte le pause che vuole, mentre io devo rispondere a tamburo battente! — Ci penso.
— Al punto oscuro?
Senza pensarci alzo le spalle. E senza pensare che ho davanti Garavini rispondo: — Col cavolo! Sto pensando alla risposta. Cerco di ricordarmi cosa faccio. Sono cose automatiche. — Mi sistemo meglio nella sedia. Dannazione, ho un libretto universitario che dicono stellare, mica sono una cretina totale. Sono cretina solo con gli uomini. Veramente soltanto con uno.
— Allora? Pensa di farmi aspettare ancora molto?
— Ci zampetto attorno.
Finalmente Garavini toglie gli occhiali, forse per vedermi davvero. — Ci zampetta attorno? Cosa vuol dire? È un’oca? Una gallina?
— Mi scusi… Dicevo che esamino il problema nella sua globalità, nessun problema è isolato dal contesto.
Garavini si dedica con cura ad un’assurda attività di pulizia degli occhiali. Non con un fazzoletto o il panno apposito, ma con le dita, per sparpagliare ben bene lo sporco. — Zampettarci attorno: ne avevo sentite tante, ma questa è nuova, Arnolfini.
— Mi scusi, sa…
— La pianti di scusarsi, Arnolfini. Mi rende nervoso. Io esamino il problema dall’alto, veramente mi dico che salgo su una sedia. In pratica non molto diverso dal suo zampettarci attorno.
E allora? Ora che ci siamo confidati cosa facciamo di bello per affrontare un problema complesso, cosa ne facciamo della nostra reciproca confessione? La impacchettiamo bene? Vorrei saperlo, ma chiederlo sarebbe controproducente e anche da maleducata. Così rimango zitta, in attesa.
Altra pulita, diciamo così, di occhiali, poi: — Sei o sette mesi dopo il suo arrivo, Arnolfini, è nettamente migliorato il rendimento di un altro dipendente.
Oddio… Eppure, sono stata prudente nell’aiutarlo. — Forse lavoriamo bene insieme…
Altra occhiata. — Non sono fesso. Lei ha aiutato un collega.
— È vietato?
— No. Ma il suo collega ha sempre fatto domanda di avanzamento. E lei no.
Non c’è risposta possibile, ma, in fondo, non è una domanda.
— Suppongo che lei sapesse delle domande del collega. — Un’altra occhiata sghemba. — Non si è mai chiesta perché non una di quelle domande è stata accolta? Perché non è mai stato promosso ma soltanto confermato come “facente funzioni”?
Di cosa mi accusa accidenti? Di non essermi fatta valere? OK: se è questo che vuole. — Sono sotto accusa? No. E se è una chiacchierata informale, Garavini, glielo chiedo adesso: perché le domande di Follini non sono state prese in considerazione?
— Oh, sì che lo sono state. Da Samperi. Ma la parola decisiva spetta sempre a me. Perché promuovere Follini? Perché lui e non lei, Arnolfini? — Posa le mani aperte sul piano della scrivania. — Così ho trovato la soluzione. Uno dei due resta qui e l’altro se ne va.
Oddio, mi licenzia. Ora che rischio di perderlo, mi rendo conto di amare davvero questo lavoro. Mi piace fare indagini sui brevetti, controllare che siano inattaccabili… Guadagno quanto mi serve. Sono a Genova.
Garavini mi fissa. — Lei va via, Arnolfini. Non faccia quella faccia. Non la licenzio. Un corso di aggiornamento, residenziale. Quattro settimane.
Sollievo… Respiro a fondo e chiedo: — Quando devo partire?
— Non è curiosa di conoscere la sede del corso?
— Corsi su brevetti industriali? Corsi seri? A quanto mi risulta si tengono a Ginevra, L’Aia, Londra.
Lui annuisce. — Lo sapevo che era sveglia. Quale dei tre?
Mi fermo un attimo a pensare. — Conoscendo gli interessi della TEXA direi Ginevra.
— Infatti. Entro lunedì mattina deve essere a Ginevra. Le consiglio di arrivare un po’ prima, diciamo sabato.
— Conosco Ginevra.
— Lo so, Arnolfini. Conosco il suo curriculum. Master a Ginevra, prima del suo corso.
Tossicchio per impedirmi di boccheggiare.
— Cosa c’è, Arnolfini? Se vuol dire qualcosa lo dica senza tante scene. E smetta di boccheggiare che mi rende nervoso.
Contraddire il capo… Si innervosirà ancor di più. Ma la verità è la verità: così sono stata tirata su. — Nel curriculum non ci può essere scritto che ero la prima del corso, non hanno dato voti, quindi niente graduatoria. Era scritto proprio chiaro nel documento di iscrizione, me lo ricordo. Fra l’altro uno dei motivi per cui l’aveva scelto; si era detta che se avrebbe frequentato quel pochetto per avere l’attestato e si sarebbe fatta dei bei giri per Ginevra e dintorni. Poi il corso le era piaciuto e aveva frequentato più del previsto: ma neppure poi tanto! Non che avesse passato le notti a studiarsi le lezioni, come avevano fatto altri! La vita notturna di Ginevra non era male!
— Non si è mai chiesta perché abbiamo risposto subito alla sua domanda di lavoro?
Veramente non si sono chiesta niente: ho preso questo posto e ringraziato la mia buona stella. A caval donato non si guarda in bocca. Poi, avrei preferito quel posto in Carignano, con vista mare… Ma a Garavini mica posso dirlo. Ma forse quel mostro lo sa.
— Mi sono letto tutti i lavori dei corsisti, le prove finali me le sono valutate: lei è stata l’unica a punteggio pieno. — Ride. — L’aspettavo al varco.
Per essere onesta dovrei dirgli che è stato tutto un equivoco… Ma ora il lavoro alla TEXA mi piace.
— Per Ginevra la voglio in forma. I corsi non li regalano. Dalla sua scheda risulta: buona conoscenza inglese parlato e scritto, conoscenza scolastica di francese e tedesco.
— L’inglese è lingua franca.
Garavini scrolla le spalle. — Deve fare conoscenza con gli altri corsisti. Da domani mattina lei sarà impegnata con un corso di lingue per rinfrescare il francese e migliorare il tedesco. Orario d’ufficio o di più se i suoi docenti lo riterranno necessario. È già tutto prenotato.
— Sapeva che avrei accettato.
— Forse è stata scema in passato, quando ha prodigato energie non per sé, ma il mio istinto non mi ha mai ingannato. Quelli come lei prima o poi si svegliano.
Cinque settimane lontano dalla TEXA: la prima per il corso di lingue, le altre a Ginevra. Volevo un taglio netto alla vita di qui? Eccomi accontentata.
— E vedremo cosa combina Follini senza qualcuno che gli dà una mano sottobanco. Si vedrà quanto vale.
— E se… — Mi blocco.
— E se manda tutto a puttane? Se combina uno dei suoi soliti bordelli? Mi scusi la crudezza, Arnolfini. Follini renderà conto direttamente a me. Sono piuttosto sveglio.
Trattengo la voglia di ridere e commento: — L’ho sentito dire.
— Anche di lei, Arnolfini. E ora vada. E zitta. Ma non è il caso di dirlo.

Lunedì sera

Sono passate più di dodici ore e ancora non ho ben metabolizzato l’incontro con il capo. Il modo con cui mi chiamava “Arnolfini” arricciando appena il labbro superiore.
Ho provato a rifarlo davanti allo specchio. Ho provato anche il suo modo di dire Follini.
Io a Ginevra. Sarà vero o è una trappola?
Dicono che Garavini non menta mai e che da lui ci sia da aspettarsi di tutto. Ma non è dio. Qualche stronzatina e cazzatina la farà pure lui.
Umberto qui tutto solo. Il pensiero torna lì. Chissà come prenderà la notizia?
Sulla segreteria una chiamata senza messaggio: richiameranno.
Squilla il telefono: è lui che chiama! Ma quando smetterò di pensare a lui come a LUI?
Conosco tanta altra gente, anche gente che mi chiama più spesso…
Non metto subito a fuoco la voce. Poi la presentazione chiarificatrice: — Sono Giovanna, di Parigi…
Allora è lei che mi aveva chiamata mentre ero fuori. — Oh, sì, Giovanna! Come va? Sei stata gentile a chiamarmi. — E io mi ero ripromessa di chiamarla, di dare una sterzata anche alla sua vita. Poi non ne avevo fatto niente. Ma sono così: tanti progetti, forse troppi, e mi impigrisco e non li porto avanti.
Esita. — Gentile? Non vorrei averti guastato tutto. Sai, non sono riuscita a resistere. Era troppo identico a come me lo avevi descritto.
— Sei stata meravigliosa. Dovresti dedicarti al teatro, davvero.
— Lo farei… La mia vita è così vuota. Sua moglie è mancata, sai, un anno fa. Pensavo che dopo un adeguato periodo di lutto, mi dicesse “sposiamoci”, ma niente.
— Dai, fatti coraggio, Giovanna. Senti, posso richiamarti fra una decina di minuti? Massimo mezz’ora.
— Ti ho disturbato, scusami…
— No, no! — La rassicuro. — È che devo cercare una cosa e non so quanto ci metto a trovarla e voglio leggertela.
— Va bene, ma non vorrei disturbarti.
— Ma figurati, fra amiche.
— Sono più vecchia di tua madre.
— Se fai quella voce di rinuncia anche più di mia nonna.