GIOVANNA
Devo aver chiamato quella cara ragazza in un momento difficile Ho osato, forse troppo, ma avevo proprio bisogno di ringraziarla. Conoscerla mi ha fatto tanto bene: mi ha aiutato a capire molte cose.
Io, Giovanna detta Nelly, sono più vecchia di sua madre e ho imparato da lei.
Un Oscar Wilde mi ha sempre affascinato: “Il ritratto di Dorian Gray”. Il quadro che invecchia al suo posto… Non so, come vedere sé stessi in due tempi diversi: prima e dopo. Laura è stata il mio prima. Prima che Rodolfo mi spegnesse, anzi, prima che io gli consentissi di spegnermi!
Ma se avevo trovato lo slancio per aiutare lei, perché non potevo provare ad aiutare me stessa?
Ho guidato fino a Parigi, veloce, sempre più veloce. Lui continuava a dirmi di rallentare, ma niente!
Abbiamo mangiato le ostriche in place de l’Operà, mi sono rinnovata il guardaroba, ho fatto comprare anche qualcosina a lui.
Abbiamo passeggiato sul Lungosenna. Con la scusa che ero stanca mi sono appoggiata al suo braccio.
La cena l’abbiamo fatta in un bistrot.
Eravamo a pezzi, nessuno dei due è più ragazzino. Guidare fino al nostro Hotel? Abbiamo trovato una camera in un alberghetto, piccolo e chic, vicino alla Senna. Mansarda con vista.
Niente pigiami, giacche da casa, vestaglie, camicie da notte. Niente spazzole, pettini, spazzolini e dentifrici.
Due vecchietti smarriti e stanchi che si sono aiutati a liberarsi dagli abiti perché erano proprio a pezzetti… Poi, chissà come, da cosa nasce cosa.
Stop. Sono ancora dell’idea che quello che succede fra le lenzuola riguarda soltanto i diretti interessati. Ai miei tempi usava così. Non che non si facesse, ma era riservato.
È stato bello.
Al mattino gli ho detto che era finita. Lo lasciavo.
— Non capisco.
Un po’ non capivo neppure io. Avevo parlato senza pensarci troppo.
Ora ci trovo un senso: avevo scoperto quanto avrebbe potuto essere bella la mia vita, piena invece che dimezzata.
Siamo tornati al nostro Hotel fuori Parigi. Senza rivolgerci una parola: quando vuole sa essere intransigente. Forse era offeso, forse soffriva.
Le altre volte cedevo.
Per la prima volta non ho ceduto. All’arrivo ho fatto bagagli e sono tornata a casa.
Ho chiamato Laura per dirglielo. Volevo farlo anche prima ma temevo di essere invadente. È stato lui, in tanti anni, a coltivare queste mie paure: questo non si fa, quello non sta bene, non disturbare.
Se voglio provare a cambiare la mia vita, devo muovere un primo passo verso qualcuno.
Dall’arrivo a casa non avevo ancora disfatto le valigie, solo quella dove avevo messo gli acquisti di Parigi.
Il biglietto con il telefono di Laura era rimasto in una valigia ancora chiusa. Distando la valigia, l’ho trovato e mi sono imposta di chiamare…
Non mi aspettavo che tagliasse così corto.
Che Rodolfo abbia davvero ragione? Che sia meglio non impicciarsi nelle vite altrui?
LAURA
Appena Giovanna riattacca chiamo da mia sorella. Conoscendola, a quest’ora sta finendo di rigovernare e non risponde di persona, delega.
Infatti, risponde Matteo: — Oh, Laura, vuoi Lucy?
— No, cercavo te.
— Non è cambiato niente, qui.
Infatti, è troppo presto. Non penso che Bagliozzo abbia una velocità di fuga così super. — Non preoccuparti, si risolverà. Ma ti chiamo per dell’altro.
— Dimmi.
— Quello della TV, che si occupa di spot. Hai un suo recapito?
— Certo. È un cliente. Per cosa ti serve? — Ha voce protettiva ed indagatrice. — Guarda che è gente strana. Non gente per una brava figliola come te. Se vuoi conoscere un bravo ragazzo raccomandabile…
Ora riattacca con la sua voglia di accasarmi. Penso che sogni di accompagnarmi all’altare e i suoi diavoli vestiti da paggetti a reggermi lo strascico. Lo blocco: — Non fare il fratello maggiore, che non lo sei. Dammi tutto.
— Prendo il palmare. — Pausa. Lo sento trafficare. — Ecco, sei pronta?
— Prontissima.
Dieci minuti dopo sono di nuovo al telefono con Giovanna. Sembra stupita che l’abbia richiamata, eppure gliel’ho detto che lo facevo. Avrei voluto spiegarle, ma conoscendo i tempi di Lucy e Matteo rischiavo di far passare il momento buono. — Senti, Giovanna, se ti faccio una proposta folle ci stai?
— Ma… — esita, ma poi diventa la donna che ho conosciuto. — Sì, se è folle davvero.
— Ho il recapito di uno che fa spot televisivi, lo so non è teatro… Ma ti metti in contatto con lui. — Il suo silenzio mi spaventa. — Non so se ne uscirà qualcosa.
— Penso che lavorino con agenzie.
— Se non provi non concludi. Tu hai dato un colpo di timone alla mia vita, io provo a darla alla tua.
Riattacca. Prima di partire devo lasciare in ordine i miei rapporti…
Dovrò comunicare che parto anche a Lucy e ai miei.
E devo affrettarmi per l’appartamento che mi ha trovato Aldo.
Così quando torno trasloco.
GIOVANNA
Laura ha richiamato. Ha pensato a me. Mi viene da piangere dalla commozione. Dovrei smetterla, è una reazione da vecchietta.
Ha voluto rendermi il favore, non sapeva di aver già provveduto.
Mi rigiro fra le mani il foglio su cui ho annotato nome e numero di telefono. Avere il coraggio di chiamare. Non è teatro, vero, ma sarebbe il primo passo verso qualcosa di mio. In fondo sarebbe quasi come recitare.
Mi accorgo che sto piangendo perché le gocce bagnano il foglio. Lo sposto in fretta e mi permetto un bel pianto. Mi verso anche due dita di Porto. E insieme ci mangio un biscotto. Piango perché mi ha richiamato, piango per la speranza. Fa male quando torna.
Da ragazza non c’era tutto questo riscaldamento nelle case, la stufa in cucina e grazie che c’era. D’inverno ci si svegliava al mattino con le dita gelate e il sangue riprendendo a circolare pizzicava.
È lo stesso quando torna la speranza.
Piango anche per Rodolfo.
Non ha più chiamato.
LAURA
Sabato notte
Dopo quattro settimane di Ginevra, atterrare a Genova è stato come arrivare ai Caraibi. È metà dicembre.
Io vado pazza per l’inverno genovese. La luce durerà anche poco, ma è di qualità superiore: limpida di cristallo.
Il mare, dall’alto, è strinato dal terso vento di tramontana. L’aria sarà inquinata ma è frizzante più dello champagne millesimato.
Ieri sera per festeggiare la fine del corso abbiamo brindato a champagne.
Poi me ne sono andata a letto con Tom. Il nome non deve trarre in inganno, è un normalissimo Tommaso, non è inglese, ma di Milano.
Ho vissuto per mesi a Milano, zampettando anche parecchio in giro e sono andata a conoscerlo a Ginevra! Ciatellando abbiamo anche scoperto di avere conoscenti comuni. Abbiamo ballato nelle stesse discoteche, mangiato nelle stesse trattorie e pizzerie, sentito musica negli stessi locali.
Tipo tosto, deciso, bel ragazzo.
Abbiamo fraternizzato subito, al secondo giorno, dopo che al primo abbiamo litigato di brutto. Dicendoci parolacce che i non italiani hanno memorizzato subito. Il mio belin ha avuto molto successo.
La cosa più divertente è stato spiegarne il significato.
Dopo esserci annusati per qualche sera io e Tom abbiamo concluso che nessuno dei due era fatto per la castità.
In cinque anni ero stata a letto soltanto con Umberto: una fedeltà che nemmeno gli sposati! Niente dichiarazioni d’amore con Tom, neppure per sbaglio.
L’uomo perfetto per un intermezzo. Non c’era neppure il pericolo di interferenze con il lavoro: lui lavora per uno studio legale. L’hanno spedito al corso perché capita che qualche cliente li interpelli per cause riguardanti brevetti e, come ha detto lui, “Che almeno qualcuno capisca la domanda! Così hanno spedito il sottoscritto, l’ultima ruota del carro.”
E sabato mattina sono arrivata a casa. Alla mia casa, casa non appartamento.
Aldo è stato meraviglioso: sapendo che io ero via si è offerto di aiutarmi con il trasloco. Imbiancare, ripulire. Gli piace proprio darsi da fare con le case.
In quattro settimane sono scesa a Genova una volta soltanto, per un week-end. Con un camioncino ho traslocato quello che avevo deciso di tenere. Ovvio che il camioncino l’aveva procurato Aldo, tramite un amico di un amico. Maura era venuta a darci una mano, “in tre si fa prima che in due”.
All’arrivo ho trovato tutti i miei scatoloni ad aspettarmi. Oggetti personali vari.
Aldo ha promesso di montarmi la libreria. Scaffali comprati all’IKEA, on line.
La cucina fatta fare su misura l’hanno acquistata quelli che subentrano nel mio vecchio appartamento, anche la cabina armadio tutta attrezzata. Il mobile del bagno grande con top di marmo e anche quello del bagno di servizio, adibito a lavanderia.
Il divano e le poltrone gemelle li ho venduti a un negozio dell’usato, anche il letto con la testata in paglia di Vienna che ho sempre trovato deprimente.
Non me l’hanno pagati molto, ma abbastanza da comprare l’indispensabile per la casa nuova.
Quel santo di Aldo ha provveduto anche a tutte quelle noie tipo acqua, gas, luce, telefono. “Tanto conosco… sai… ho un amico…”
Spero che lo faccia solo perché lo diverte o per amicizia, non per amore. Se c’è una cosa per cui non mi sento pronta è un nuovo amore. L’incontro con Tom me l’ha confermato in pieno. Se fossi stata pronta per una nuova relazione, mi sarei impegnata con Tom: simpatico, buon incontro a letto…
Ma niente. L’ultimo mi ha lasciato con le ossa rotte, dopo che per poco non mi ha sepolta viva.
Infilare la chiave nella serratura è stata un’emozione. Sul tavolo c’era una bottiglia di vino. Pigato. Contro la bottiglia un biglietto.
“Nel freezer c’è una margherita, una napoletana, una vaschetta di gelato tiramisù.
Caffè e zucchero sono in credenza.
Baci e abbracci.
Maura e Aldo”
Non nego di aver provato un attimo di commozione. Cosa ho fatto per meritarli? Niente se non lasciarli fare.
E ora devo riprendere la mia vita dove l’ho interrotta.
Mi sento forte, onnipotente. Un po’ dio.
Col cavolo. Sono soltanto una scema che si è gasata troppo. Niente come una randellata ti riporta alle giuste proporzioni.
La randellata arriva verso mezzogiorno, mentre sto stappando il vino. Poi metterò la pizza (napoletana) nel microonde e mi godrò in pace il primo pasto nella casa nuova.
Abbasso con forza le ali del cavaturaccioli e tiro verso l’alto. Dannazione se è incastrato bene! Buon segno. Niente è peggio di un tappo che viene via senza fatica.
Ho appena concluso l’impresa, gratificata da un bel “BLOB” del tappo uscente, quando squilla il telefono.
— Laura? Devo parlarti… — È Matteo, ma un Matteo agitato come non l’ho sentito mai. Nemmeno la sera prima del matrimonio quando mi aveva telefonato, perché era sicuro, ma proprio SICURO, che Lucy avesse cambiato idea. Ed io avevo passato due ore a tranquillizzarlo, tutto a bassa voce, per non farsi sentire da Lucy che dormiva il sonno dei giusti (infatti le avevo somministrato di nascosto una bella dose di Valium, sperando in un sonno dopo tante notti in bianco).
— Cosa c’è? Sono appena arrivata.
— Lo so, sei appena arrivata, ma non posso più aspettare. Non volevo dirtelo per telefono, mentre eri via per non spaventarti. Vengo da te. Sono già per strada.
Spengo il microonde. Dannazione, cosa può essere successo?
Matteo arriva dopo dieci minuti, al massimo. Ansante e pallido. — Cosa c’è, Matteo?
— Lucy. Sta male. Mangia quasi niente, la notte non dorme. Piange seduta sul water. Mi nasconde qualcosa di brutto, Lallina. Prova a parlarle. Anche i bambini… Li guarda ma non li vede davvero. Oh, sì, fa tutto quello che deve, ma è fuori di brutto. Non mi nascondete niente, vero? Per non mettermi in pensiero, per non farmi soffrire. Ma così sto ancora più male. Non mi nascondi niente, vero, Lallina? Tu me lo diresti se la mia Lucy…
Cosa dovrei dirgli? Soltanto che Lucy è una cretina innamorata ed io una più cretina ancora che ha giocato a fare dio. Se combina disastri persino lui, il padreterno, che nel corso dei millenni un po’ di pratica… Sbagliando s’impara. Invece continua a farli i suoi casini. Ed io ho giocato nel ruolo di dio. Ma insomma anche consultando due statistiche si può capire come da cosa nasce cosa… Chissà cosa è successo a Lucy da quando ho lasciato il biglietto a Bagliozzo? Che lui si sia deciso ed ora la povera Lucy non abbia il coraggio di mollare baracca e burattini per fuggire con l’amato. Che ormai non fugge nessuno. Si finge di essere civili. Per i bambini. Che mica sono scemi e capiscono. Sono io la scema!
— Non mi nascondete niente, vero? — continua Matteo.
— Stai tranquillo, parlerò con Lucy. È da quando sono partita che ci sentiamo solo per telefono, anche poco. Mi è sembrata normale. Ma oggi vengo a trovarla. — I pacchi possono aspettare. Matteo e, forse, Lucy no.
Matteo arriva in fretta alla porta e ancora più in fretta: — Bella la tua casa. Questa sì che sembra tua. — E poi butta là, come per caso: — Oggi pomeriggio porto i bambini ai baracconi alla Foce…
Così potrò parlare con Lucy in libertà (per poi dirgli tutto). Annuisco (gli dirò non proprio tutto).
Ho deciso di arrivare da Lucy senza preavviso. Conosco mia sorella, al sabato pomeriggio esce raramente. Ma se ha qualcosa da nascondere non si farà trovare con una scusa o con l’altra. Quindi meglio arrivare senza preavviso.
LUCY
Laura è arrivata senza preavviso: strano.
Per fortuna in queste settimane è stata via, ci siamo soltanto un po’ sentite per telefono. Se ci fossimo viste come avrei potuto nasconderle che sto male?
La mia sorellina sembra scema ma ha un fiuto da cane da tartufi come dice nostro padre. Annusa imbrogli ed omissioni e comincia a tirar su terra fin quando azzanna la preda. Così anche a scuola. I problemi, le difficoltà le danno l’asgillo, la caricano, insomma.
Sto male.
La mia vita è terribile. Anche meravigliosa. So che Lallina ha messo su una casa nuova, dovrei andare a trovarla, chiederle se ha bisogno.
Scoprirebbe tutto.
Invece farò la brava massaia. E intanto mi farò una maschera d’argilla.
Lo so, si dovrebbe stare ferme e rilassate, ma ho marito, due figli, casa e lavoro sulle spalle. Mi giro per la mia casa, era dei miei, me l’hanno lasciata quando si sono trasferiti. Avevo già il grande, l’abbiamo sistemata, io e Matteo…
Ogni cosa mi ricorda un momento.
Il quadro piazzato dove sta male, che tutti lo notano. Perché copre il buco che abbiamo fatto con il trapano per montare la libreria nella camera dei bambini. Eppure, non è un palazzo nuovo, con i muri di carta.
Trapano da parte a parte, manco avessimo trapanato burro. La volta che con Matteo abbiamo rifatto la scena del burro, lui era meglio di Marlon Brando.
Dovremo deciderci a farlo tappare, il buco intendo, tinteggiare e mettere il quadro in una posizione decente.
Mi viene da piangere al pensiero che in questa casa non ho futuro.
Eppure, amo Marco, da impazzire. Devo lasciare Matteo, i bambini, questa casa.
Avrò tutti contro. I miei stravedono per Matteo… Diranno che sono pazza. Il sabato pomeriggio e la domenica sono terribili. Forse perché li vedo di più e so che li lascerò. Matteo e i bambini intendo.
Laura vuole tanto bene a Matteo: spero che lo consoli lei e si occupi dei bambini che stravedono per zia Lallina (gliele dà tutte vinte).
LAURA
Sabato pomeriggio e sono da Lucy.
— Laura!
— Lucy!
Baci e abbracci. Dannazione, Matteo ha ragione, Lucy fa paura. Occhiaie, capelli mosci, naso rosso. — Che cosa hai? Hai la faccia arrossata. — Di una che tiene dentro le lacrime.
— Ho appena fatto la maschera d’argilla. L’ho tenuta troppo, l’ho tolta e ho dimenticato di passare un tonico.
Faccio segno di sì. — Matteo? — Sentendomi scema nel recitare a soggetto.
— Ha portato i bambini ai baracconi, è una bella giornata. Fra una cosa e l’altra siamo verso Natale e alla Foce ci sono i baracconi. Matteo ci porta i bambini, ma, lo sai, piacciono più a lui che a loro. E poi arriva con pupazzi impolverati e quei pesci rossi che poi muoiono e i bambini cominciano a piangere. — Anche lei aveva gli occhi di una che ha pianto. — Ma dico, come posso far vivere i pesci rossi? Ho provato in tutti i modi.
— Come stai? — La interrompe Laura. Conosco Lucy: sta cercando di nascondersi nei suoi fumosi discorsi per non rivelare niente di sé. Poi, sentendosi scoperta, vuoterà il sacco in un caos convulso.
— Da schifo. Non si vede? — Lucy mi precede in cucina. — Ti faccio un caffè. Sapessi quanto mi sei mancata. Nessuno con cui parlare.
So che in fondo è vero. Lucy vuole parlare con qualcuno e nessuno è più adatto della sorellina (tutti dicono che sono una ottima ascoltatrice). Però ha anche paura di parlare troppo. Parola detta non torna indietro: lo diceva nonna.
— Anche tu. — Dannazione, più vedo Lucy più mi sento in colpa verso di lei, verso Matteo, verso i bambini… Per settimane ho gozzovigliato in quel di Ginevra. Veramente ho studiato e lavorato, ma con divertimento. Senza un pensiero alla povera Lucy. — Come va?
— Con Marco? — A bassa voce, guardandosi attorno in cerca di possibili spie.
Annuisco. Ho paura. Non ho avuto così paura neppure davanti a Garavini.
— È strano. — Pausa. Lucy si accende una sigaretta. In casa fuma solo quando i bambini sono fuori e poi è gran arieggiare con bronchiti annesse. Ma così Lucy si sente la coscienza a posto. — Si è separato, in attesa di divorzio. Nessuno ne sapeva niente. Dall’oggi al domani.
No, no… Il biglietto. Allungo la mano verso il pacchetto di sigarette. Che cosa ho combinato?
— Ma non mi ha detto niente. Mi parla solo l’indispensabile. Così mi struggo. Aspetto che mi dica qualcosa. Ogni giorno. Non sai che tormento.
Almeno non le ha ancora proposto di mollare marito e figli, forse sta valutando la situazione. Forse le proporrà una relazione clandestina. Che anche se non è una gran bella situazione è meglio che buttare tutto all’aria. — Il viaggio con le classi? — Perché non ricordo per quando era fissato. Forse il bel Marco, bello per modo di dire, anche lui di naso sottile, aspetta il viaggio nella romantica Verona per dichiararsi…
— All’ultimo momento l’ha data buca, influenza. Speravo, sai… Non ha il coraggio di farsi avanti, lo so. Sa che ho marito e figli.
Ora, per quanto so Laura, non è che gli uomini si facciano così tanti problemi… Provo a dirglielo, con cautela. — Forse hai frainteso. Se fosse innamorato di te, te ne avrebbe parlato.
— No, le altre le tratta normalmente. Con me è diverso: anche le colleghe l’hanno notato. Mi hanno chiesto se abbiamo litigato. — Versa il caffè. — Secondo te dovrei separarmi da Matteo?
Per poco non lascio cadere la tazzina. — No.
— Perché no?
— Agli uomini non piace sentirsi placcati. Promettimi che aspetti almeno un po’, lascia passare Natale, almeno per i bambini. E con Matteo come va? — Perché Matteo è una specie di fratello e l’ho visto parecchio abbattuto.
— Non riesco a scollarmelo di dosso. Anche a letto sai. E dai e dai. E siamo sposati da troppi anni per le tenerezze da sposini. Non che mi dispiaccia… Ma è imbarazzante, mi sembra di tradirlo.
— Matteo?
Lucy alza le spalle. — Marco. Ma basta parlare di me. Come è andato il corso?
— Bene.
— Beata te con gli uomini sai come muoverti.
A Lucy non ho mai detto di Umberto… L’unica a cui ne ho parlato, prima di Maura, è Pupa. Pupa è scomparsa, cancellata.
Sabato sera
Dopo un pomeriggio con Lucy, a cercare di tirarla su di morale e farla ragionare, mi sento uno straccio. Mi sento in colpa.
E se Marco Bagliomi avesse deciso di divorziare dalla moglie spinto dal mio imprudente biglietto? Se davvero provasse qualcosa per Lucy?
No, no. Se i suoi studenti lo chiamano Bagliozzo un motivo ci deve essere. Hanno fiuto, i ragazzi. A Bagliomi piace essere ammirato, perché si piace. Gli altri sono specchi.
L’importante è impedire che Lucy faccia un colpo di testa.
Forse non è lui che ha deciso di separarsi, forse è la moglie. Povera donna, non la invidio a vivere con un uomo così. L’ego di Umberto è al confronto quasi normale.
Chi sono io per dirlo? Dannazione, se qualcosa va storto non mi pentirò mai abbastanza di essermi sostituita a dio. O ad una madre. È da sempre che Lucy e la sottoscritta si fanno da madre a turno…
Dannazione, non ho avvisato i miei che sono tornata da Ginevra e sono nella casa nuova!
A quest’ora sono svegli. Poi, da sempre, a casa mia hanno telefonato tutti a tutte le ore.
I miei meriterebbero una storia a parte. Detto in sintesi: mia madre cinquantasei e mio padre pure. Lui traduttore, lei farmacista, anzi, ex farmacista. Quando, a cinquant’anni esatti si è licenziata, con quel po’ di soldi che ha messo insieme, ha rilevato una quota di un negozio di erboristeria e ci si dedica con passione.
E tante altre cose ha sempre fatto con passione: protofemminista, femminista e postfemminista. Mio padre sempre a casa, lavorava lì, lei sempre fuori, fra orari di farmacia e tutte le altre cose che faceva.
Il telefono: basti dire che accanto al telefono c’era (anzi c’è ancora) una lavagna e si segnava (e si segna) il nome di chi aveva (ha) cercato mia madre. Anzi “Lamarinetta”.
Fino all’età di sei anni credevo che fosse quello il nome vero di mamma e non un semplice Marinetta. Che poi è deformazione famigliare di Maria Antonietta. Che a mia madre non è mai piaciuto avere il nome di quella scimmietta di regina decollata, parole sue.
Così rispondevo al telefono. — Devo parlare con Lamarinetta. È urgente. — In tutti i dialetti e numerose lingue, ma Lamarinetta era chiarissimo e bastava quello.
— È fuori, ti faccio chiamare.
Come i letti. Che a casa andavano e venivano come la gente. C’era sempre un’amica o un amico in difficoltà o in crisi. Se non bastavano i due pieghevoli e il divano, io andavo a dormire nel letto di Lucy e così un posto in più era trovato. Notti bellissime: passavamo dalle chiacchiere al sonno e ai sogni.
Un letto e un piatto di minestra c’erano per tutti. Come una spalla su cui piangere.
Perché non ho mai chiamato mia madre quando ero in crisi per Umberto? O mio padre, altrettanto comprensivo?
Forse non volevo finire nel mucchio.
Però chiamarli devo.
Risponde Arnolfini padre.
— Ciao, pa’. Sono tornata.
Non sembra turbato dalla notizia. Ha sempre detto che i figli non sono cani da tenere al guinzaglio. — Tutto bene?
— Sì, tutto bene. Mamma?
— Tua madre è fuori, aveva una conferenza sull’omeopatia, poi si fermava a dormire da amici. Le dico che hai chiamato e stai bene.
Il menage dei miei sarebbe incomprensibile in una famiglia standard. Una madre iperattiva e un padre pantofolaio. Esce sì, ma la vita vera è quella in casa.
L’opposto di mamma che è sempre in giro. Quando hanno trovato il tempo di farci? Forse nell’ingresso? Nelle scale?
Mamma riuscirebbe a capire il mio rapporto con Umberto? Come mi sono ridotta a stuoino? Se al mio posto ci fosse una delle tante donne che si sono rivolte a lei per conforto ed aiuto, sì, lo capirebbe. Ma io sono sangue del suo sangue. Allevata con sani principi e buoni esempi. Una donna è una persona… Eccetera.
Arnolfini padre si stupirebbe che alla sua Lallina piaccia un uomo così: autoritario, prevaricatore, noioso. Fra l’altro con il naso sottile. Troverebbe una somiglianza con Coppi, lui è per Bartali.
Per quasi cinque anni ho taciuto.
Nessuno, in famiglia, ha indagato. Di certo sapevano che avevo uno, ma hanno rispettato il mio desiderio di privacy. A volte vorrei una famiglia all’antica con genitori come si deve che ti sottopongono al terzo grado se tardi.
A tredici anni mamma mi ha chiesto se preferivo andare dal suo ginecologo. O da un altro? Se da un uomo o da una donna. La mia faccia stranita, perché nonostante tutti i discorsi di Lucy ero ancora pupetta, le ha fatto aggiungere “Tredici anni sono troppo pochi per restare incinta. Ed è proprio da ragazzine che ci si casca.” Esperienza di Lamarinetta che ne ha viste e sentite.
Pupa ha preso le sberle da sua madre quando si è fatta beccare a sbaciucchiarsi con il suo ragazzino.
Nessuno mi ha mai dato una sberla, neppure per sbaglio, neppure per scacciare una mosca. Forse, a scapaccioni, sarei venuta su diversa? Forse non sarei caduta nella trappola di Umberto.
Per dormire devo prendere un tranquillante. Neppure il film in terza serata riesce a distogliermi dai miei pensieri.
C’è anche, là, sepolto, il pensiero che lunedì mi troverò a faccia a faccia con Umberto.
Ma devo riposare. Domani dovrò disfare gli scatoloni, dovrò lavarmi i capelli e rimettere ordine nel materiale che mi sono portata da Ginevra.
Vedrò Garavini?
Non devo dimenticarmi di telefonare a Maura e ad Aldo per ringraziarli di tutto.
Ma per Maura non si sa mai quale è l’ora buona. Se ha passato la notte in follie, dorme fino a mezzogiorno e anche oltre.
E se è ancora con qualcuno mi spiace interromperla magari sul più bello. È una che dimentica di mettere la segreteria telefonica.
Il tranquillante comincia a fare effetto.
Ma al mattino mi sveglio con la bocca impastata.
Domenica
Sono le nove, sono stanca come se avessi dormito una o due ore soltanto, sono intorpidita come dopo un’influenza.
È stato il telefono a svegliarmi. Lucy! Che non abbia fatto una sciocchezza!
È Maura che mi chiede come va.
— Siete stati bravissimi. Volevo chiamarti ma aspettavo più tardi, so che il sabato sera è la tua serata di gloria. Come mai sveglia a quest’ora?
— Non avevo voglia di uscire.
— Stai male?
— No, figurati. Anzi non sono mai stata così bene.
Dalla voce non sembra, è incerta e Maura non è il tipo da incertezze. Però quando ero scesa a Genova due settimane fa l’avevo trovata bene. Anche se, a pensarci bene, un po’ diversa. Però se davvero Maura ha dei problemi e, su mia insistenza, me ne parla, poi dovrò darle dei consigli. No, mi basta il disastro che ho combinato nella vita di mia sorella… Così devio sul tranquillo. — Non so come avete fatto a mettere in ordine tutto.
— Ha fatto tutto Aldo, non lo sapevo ma è bravo davvero come imbianchino. Io ho pulito e nient’altro. — Fa una pausa. — In ufficio va tutto come il solito.
— Novità su Umberto?
— Lo pensi ancora?
— Sì, dannazione. Vorrei fargliela pagare.
— Non mi sei mai sembrata un tipo vendicativo, Laura.
— Si vede che ha tirato fuori il peggio di me. Voglio cancellarlo dalla mia vita.
Pausa. E poi: — Allora continui a pensare a lui… Non ti stai innamorando di un altro?
— Stai bene, Maura? — Ora sì, comincio ad essere spaventata. Maura che parla di innamoramenti! Il suo motto è “un uomo nel mio letto, ma non nella mia vita”.
Una volta le avevo parlato della mia famiglia, madre e padre scombinati ma legati a filo doppio. Mia sorella Lucy e Matteo. Lei aveva alzato le spalle. “I miei vivono nella stessa casa. Quando ero bambina ogni giorno era una lite, ora si ignorano, mangiano anche ad orari diversi. Vorrei che avessero divorziato allora. So che tutti e due hanno avuto altre storie.”
Così sentirla parlare di innamoramenti comincia a far suonare campanelli d’allarme e sirene. — Ti sei innamorata, Maura?
— Chi, io? Sai benissimo cosa penso dell’amore.
Certo, ragazza. Lo so. Io so cosa ho sempre pensato delle donne che da un uomo si fanno trasformare in uno scendiletto, eppure proprio io gli ho anche fornito il battipanni per rendere l’opera completa. Il cervello è in testa, ma il cuore è un po’ più in basso. — Certo, Maura, so cosa ne pensi, ma una disgrazia può sempre capitare. — Le tendo una trappola.
Ci si butta a capofitto. — Davvero pensi che sia una disgrazia?
— Non lo so, dipenderà dalla controparte. Penso. Io tanta fortuna non l’ho mai avuta. Ma fin che dura non è male.
— Tu sei innamorata?
Ecco, una domanda così, alle nove e ormai trenta di mattina dopo un viaggio in aereo Ginevra Genova, un pomeriggio fra sorella e cognato, una notte con un tranquillante… Una domanda così è un colpo basso.
— No. Umberto non lo amo più. E mi sono anche accorta che era da un bel po’ di tempo che non lo amavo più.
— Ma un altro… Magari senti che ti sta capitando. Come quando non hai ancora le mestruazioni ma senti che stanno arrivando. Ognuna ha i suoi segnali.
Vero. A me non tiene il trucco, a mia sorella vien voglia di cioccolato.
— Allora, ti stai innamorando?
— Con Tom siamo andati a letto, ma mi era simpatico e nient’altro.
— Tom?
— A Ginevra, al corso. No, non ho nessuno in vista. – Dannazione, detto così è squallido. Dovrebbe comunicare un senso di libertà come nuotare in un bel mare aperto, invece fa pensare ad una piscina condominiale in un giorno di pioggia.
— Bene.
Il suo sospiro di sollievo mi spiazza: non è comportamento da amica. — Perché bene?
— Perché l’amore porta solo guai, divide gli amici, isola… Fa desiderare quello che non si può avere.
Saluto e riattacco, non mi sento abbastanza in forma da affrontare misteri e risposte cifrate.
Lunedì pausa pranzo
Dopo Ginevra non è stato spiacevole rientrare nel solito tran tran. Fra una cosa e l’altra, in fondo, sono sei settimane che la mia vita è scombussolata. Una settimana di ferie con viaggio romantico, fallito, una settimana di full immersion nel corso di lingue, quattro a Ginevra.
È stata Rita ad esclamare: — Come sei cambiata, Laura!
È vero, io stessa me ne rendo conto. Non è solo il colore dei capelli o il trucco o i vestiti. Il mio passo è diventato più agile, le mie spalle più erette: ho smesso di recitare da vittima.
— Fa bene cambiare aria, a volte. — Mi sono seduta alla mia scrivania. — Qui come va? Cambiamenti?
— Niente. Tutto uguale. La promozione di Follini sembra ormai certa. La segretaria di Samperi mi ha detto che il matrimonio è fissato per aprile.
Mese classico, mese per bene. Mi strizzo bene per controllare se sento ancora dolore: niente. Forse un po’ di rimpianto: ho creduto di aver vissuto un amore con la A maiuscola ed invece… Come quel film di Troisi che mi era piaciuto e ad Umberto no: “Credevo che fosse amore ed invece era un calesse.” Chiaro che l’abbiamo visto in serate diverse, per paura (di Umberto) che ci vedessero insieme e potessero immaginare… In serate diverse per parlarne. A dirlo è ancora più squallido che a viverlo.
Se questo è l’amore con la A maiuscola, quello con la minuscola come è? Ecco a quali dubbi mi ha portata la telefonata, misteriosa, di Maura.
Durante la pausa pranzo, mentre mangiamo un precotto al bar, cerco di capire cosa sta succedendo a Maura. Già lo strano è che ho dovuto insistere per andare a mangiare insieme. Una come Maura non si fa mai pregare per stare in compagnia.
E ora Maura sposta i pansotti di plastica da una parte all’altra del piatto ovale, che fa fine e li fa sembrare tanti. Maura non è mai stata schizzinosa, anzi di sano appetito perché, come dice sempre, di energie ne brucia tante.
— Avevi un appuntamento con qualcuno? — le chiedo a bruciapelo, assistendo impotente alla suddivisione in quattro di un pansotto: così tutto il pieno ne esce e resta nel piatto! Anche se come ripieno non è il massimo è sempre meglio della sfoglia collosa. La salsa di noci, poi, meglio non nominarla.
Maura sobbalza, mi fissa e risponde, però tenendo gli occhi bassi. — No. Perché me lo chiedi?
— Niente.
Maura ricomincia i suoi giochetti con i pansotti. È strana. Mi piacciono le cose chiare. Da mamma ho imparato che anche il comportamento più strano ha una causa. Da Arnolfini padre il metodo per trovarla: insistere, insistere. Il mio papino (che sembra sempre un po’ assente e vago) è un mago negli interrogatori, forse perché per vivere traduce saggi filosofici e romanzi polizieschi. Molto più simili di quanto creda certa gente, anzi, secondo Arnolfini padre, i polizieschi di solito sono più coerenti e, bene o male, risolvono i problemi che mettono sul tappeto. Mentre i saggi filosofici mettono problemi sul tappeto e manco passano il battitappeto (incombenza di Arnolfini padre che, quindi, ne parla con cognizione di causa).
Il comportamento di Maura deve avere una causa… Se è quella che sto cominciando a sospettare mi dispiacerebbe proprio, ma per Maura, che non si merita una sfiga simile. Inutile rigirarsi la domanda in testa, il meglio è chiedere. — Ti sei innamorata di Umberto? Ti sei messa con lui?
Maura lascia cadere la forchetta che schizza salsa di noci sul vetro della bottiglietta d’acqua minerale. — Oh, cazzo! Ma cosa ti viene in mente!
— Ti ho visto strana — mi giustifico, più che sollevata.
— Ma devi proprio vedermi strana alla grande, cazzo! — Riprende a mangiare e questa volta i pansotti li prende interi e parla anche con la bocca piena: — Ora ti dico una cosa, ma non dirla in giro.
— Una tomba.
— Con l’Umberto ci sono stata prima di te.
Così è il mio turno di lasciar cadere la forchetta spandendo salsa di noci (un po’ rancida). — Oddio, non sapevo. Quanti anni ci sei stata?
— Mica sono tutte fesse come te, scusa. Alla seconda volta che mi ha dettato regole e prospetti di comportamento e ha nominato MAMMA, tutto maiuscolo, l’ho mandato a quel paese e buona notte!
— E allora… Però sei strana. — La fisso, Maura resta zitta. — Ci giurerei, tu sei innamorata persa. E io cosa c’entro? Non è che ti vergogni di me? — Parlando mi si accavallano possibilità: da Maura innamorata proprio di me, ma mi è sempre sembrata una etero convinta… E poi una possibilità remota, ma non da scartare. — Aldo?
Maura arrossisce: in tanti anni è la prima volta che la vedo arrossire. Fa tenerezza. La cinica, disinibita Maura, arrossire come una collegiale d’altri tempi. Ed abbassare gli occhi.
— Sì, ti sei innamorata di Aldo e hai paura che io abbia qualche pensierino su di lui. O lui su di me.
Maura posa la forchetta. — Tanto non ho fame. — Beve un sorso d’acqua. — Si è prodigato tanto per te. Chiaro pensare che ci fosse qualcosa sul nascere. O di già nato.
— Niente. Rien. Nada. Da parte mia e ci scommetterei anche da parte sua. — Parlo e vedo Maura riprendere un giusto colore. — È cominciata con i lavori, vero?
— Sai com’è… ci passavamo le serate. Si portavano su due pizze, una bottiglia di vino, lo stereo. Si lavorava… Ma ci eravamo sempre visti in modo diverso. Ho scoperto che non era soltanto un chiacchierone. Sapeva lavorare.
— Lo so. E anche tu. Avete fatto un gran lavoro, senza ironia.
— A vederlo soltanto in discoteca sembrava uno sciapo, ma lì da te era divertente. Una battuta dopo l’altra e non smetteva di lavorare. E sapeva sempre come fare. Anche bello, no?
Annuisco convinta, anch’io l’ho sempre trovato di bell’aspetto. Non proprio un bell’omo.
Un bell’omo… Quello di quando sono partita dal Colombo per il viaggio a Parigi. Quello sì che è un bell’omo. Forse un po’ kitsch ma da baciare.
Bel fisico atletico e occhio sveglio e parlantina sciolta: raro trovarne tre in uno. Un bel naso.
— E allora come ti sembra Aldo?
— Interessante. E lui? Lui cosa ne dice? — E chiedendolo mi sento scema: se Aldo si fosse avanti con Maura, lei non sarebbe così timorosa e sballata.
Di nuovo Maura abbassa gli occhi, pudica. — Non ne sa niente.
— Non gli hai detto che ti piace?
Maura giocherella con il bicchiere ormai vuoto. Faccio segno al cameriere di portare il dessert e un’altra di acqua.
Arrivano le macedonie, garantite fresche. E finalmente Maura mormora: — Non è che voglio andarci a letto, Laura. È che mi sono proprio innamorata. E una cosa così, ecco, non la so gestire. È la prima volta che mi succede. Da quando ero ragazzina.
— Se tu glielo dicessi? — Azzardo.
— Ma ti vedi la scena? Lo prendo da parte e gli dico “Senti, stellino, mi sono innamorata di te.” Come suona? Da schifo, vero?
— Se invece che stellino lo chiami Aldo, già migliora.
— Chissà come facevano le nostre madri a far capire a un uomo che erano interessate… Non sarà che i maschi di allora erano più svegli dei nostri? Forse più addestrati a leggere fra le righe, a capire il non detto. I nostri, o gli spiattelli tutto sul muso, o non capiscono. Non che facciano finta, proprio non l’acchiappano.
Annuì, concordo in pieno. Gli uomini che ho conosciuto non sono il massimo di svegliezza nella comprensione dei pensieri e dei desideri altrui. Però qualcosa devo dire alla povera Maura. — Mia madre non fa testo. Può anche averglielo detto chiamandolo stellino o compagno. In fondo, fossi te, glielo direi.
— E se va buca? Perdo anche l’amico e ci faccio la figura della scema.
— Primo: amico ormai non è più, perderlo come amico è ininfluente. Secondo: da quando una tosta come te ha paura di fare la figura della scema? Innamorarsi è una cosa normalissima, mica una cosa vergognosa… Che poi le cose vergognose si stanno riducendo sempre più: fra poco resterà solo fumare monopoli di stato invece di farsi una canna.
— Non potresti dirglielo tu al posto mio?
— Maura! Mi ci vedi con arco e frecce e il gonnellino da Cupido?
— Sì.
Che è proprio quello che ho cercato di fare con mia sorella Lucy. Mittente della freccia? Marco? Matteo?
Mercoledì pomeriggio
Lunedì (con pausa pranzo allietata dalle vicende amorose di Maura): nessuna notizia da Garavini. Niente di strano, avrà avuto altre cose in mente, non soltanto la sottoscritta, Arnolfini Laura.
Martedì: mi ripeto il discorsetto di lunedì.
Ma una convocazione, mercoledì mattina, me la aspetto proprio. In nottata mi sono anche data una ripassatina ai punti essenziali del corso di Ginevra. Che lui non pensi di aver buttato palanche!
Mercoledì pomeriggio mi sento come l’unica volta che mi sono tardate le mestruazioni: andava in bagno ogni mezz’ora (tanto che Lucy mi aveva chiesto se avevo la cistite, lei aveva già pronte le medicine giuste); ecco, ora continuo a controllare se l’interfono è funzionante.
Alle cinque sono già ridotta a straccio, anche se per confortarmi si ripeto che Garavini ha molti impegni, di solito non ha contatti con i dipendenti del suo livello, agisce per interposta persona.
Sono uno straccio. Convinta di essere stata attirata in qualche misteriosa trappola.
La convocazione non arriva.
Niente.
E Umberto sembra sparito.
Cerco di trattenermi più del solito, ma presto esaurisco ogni scusa ragionevole.
È inutile farsi prendere dal panico: Garavini, come mi ha fatto notare, ha investito un bel po’ di soldi su di me. Possibile che poi non voglia ricavarci il suo utile?
Ma in quel bilancio fra spese e utili Laura Arnolfini che ruolo gioca?
Umberto sembra scomparso. Da prima della mia partenza per Ginevra non l’ho più visto. Ho chiesto a Maura.
— Venerdì c’era, lunedì e martedì non si è visto, ma questo lo sai anche tu.
Esco e si dirigo verso il posteggio.
Me la trovo di fronte all’improvviso. L’illuminazione si sforza con scarsi risultati di tenere lontano il buio di dicembre.
Poche auto sono rimaste nel posteggio.
— Buonasera. — Una voce di donna, compita, anche se è una parola d’altri tempi rende bene quella particolare intonazione.
Mi volto. Dannazione è così buio che non riesco a cogliere i lineamenti dell’altra. Rispondo senza pensare: — Salve. — Pausa. — Ci conosciamo?
La donna sfila il guanto e porge la mano. — Di nome sì. Sono Clelia Samperi.
Spostò nella sinistra il mazzo di chiavi che ho tenuto stretto nella destra (ben impugnato e ben usato, può trasformarsi in un’ottima arma di difesa in un posteggio semideserto) e accetto la mano che le veniva porta.
Clelia si accosta meglio la pelliccia. — Sono venuta in taxi, mi darebbe un passaggio fino in centro? Se non le è di disturbo?
— Nessun problema. — Dannazione, dovrebbe essere una situazione imbarazzante, invece mi sento tranquilla. Vorrei vederla in faccia, questo sì. Ma la Samperi ha una stretta di mano convincente. Anche la voce, per quanto compita, mi piace.
Entro in auto e dall’interno apro la portiera per Clelia e finalmente la vedo bene. Appena appena carina, sciapa, però, e la pettinatura un po’ troppo ricercata non le dona.
Il foulard è un Hermes. La pelliccia è visone, taglio sartoriale.
Calze velate nonostante il freddo.
— Volevo conoscerla, Laura. Posso chiamarla così, vero?
Annuisco. Chissà cosa vuole Clelia Samperi? L’unico modo per scoprirlo è darle tempo.
— So di lei e Umberto.
— L’ho immaginato, altrimenti che motivo aveva di cercarmi? Nessuno.
Clelia fissa il portacenere aperto, con una striscia, una sola, di cenere. — Le dà noia il fumo?
— No. — Chissà cosa ne pensa Umberto? Non sopporta le fumatrici.
La Samperi apre la borsa e poi un portasigarette dorato, ma forse d’oro; me lo porge. — Muratti, ne gradisce una?
— No, grazie.
Ormai ci siamo lasciate il posteggio alle spalle.
— Potremmo prendere un aperitivo insieme.
— Niente in contrario. Ma vorrei sapere perché mi ha cercata.
Clelia sbuffa un po’ di fumo. — So della sua relazione con Umberto.
— Me l’ha già detto. Ma la nostra storia è finita. So di voi due. Fidanzati, si dice così?
— Fidanzati.
La sua voce non sembra traboccare di felicità, ma forse è una mia impressione. Clelia ha sfilato i guanti di capretto beige scuro e sull’anulare sinistro troneggia un anello con solitario. Esattamente il tipo di marchio di proprietà che può scegliere uno come Umberto.
— Sembrava una buona sistemazione — aggiunge Clelia.
— Sembrava? — Lancio un’occhiata alla mia passeggera. No, ormai è chiaro che in auto più di tanto non si sbottonerà. — Di solito faccio la sopraelevata, ma prendo l’uscita di Via Madre di Dio.
— Qualsiasi posto va bene.
Posso portarla in uno dei locali del centro storico e divertirmi a vederla boccheggiare in mezzo alla fauna locale. No, sarebbe un divertimento scemo. E, forse, crudele. — Mangini?
— Se non la porta fuori strada.
Scuoto il capo. — No, e posto lo trovo al silos di Piccapietra.
— Benissimo.
Mangini: il più chic locale di Genova, per chi ama la tradizione. Cristalli e charme. Non il miglior espresso di Genova, ma il miglior sfondo possibile per Clelia.
Durante il percorso, in auto e poi a piedi, la nostra è stata la conversazione educata fra due estranee. Il tempo, l’avvicinarsi del Natale, il traffico.
— Guida bene — il commento di Clelia.
— Non come vorrei — risposta ugualmente cortese.
— Io non guido quasi mai. In città il taxi è più comodo.
Ora Mangini: un tavolo appartato. Ho ordinato un Negroni e Clelia si è associata nella scelta.
Prendo il bicchiere, bevo un sorso, poi fisso Clelia. — Allora?
— È stato Umberto a dirmi di lei.
Questa è una sorpresa.
— Umberto ha dei problemi.
— Con sua madre? — le chiedo, di getto.
— Con sua madre? Perché? Anzi, sembra molto soddisfatta del nostro fidanzamento, mi scusi la franchezza. Ritiene che io sia la donna giusta per suo figlio.
— Non è il caso di fare complimenti fra di noi.
— Umberto ha problemi sul lavoro.
— Ne parli con suo padre, signorina Samperi.
— Mi chiami Clelia, per favore. — Deve essere a disagio, perché continua a giocherellare con il bicchiere, da cui ha bevuto solo un sorso. — Quando mi sono fidanzata con Umberto non sapevo che avesse una relazione seria. Non volevo farle del male, Laura. Rubarle l’uomo.
— Non mi ha rubato un bel niente, Clelia. Umberto, mio, non lo è mai stato. — Sto per dire che anche come uomo lascia un po’ a desiderare, ma mi trattengo. Che scopra da sola che da Umberto non c’è da aspettarsi onestà e chiarezza. — Se è venuta per dirmi questo, la ringrazio della cortesia ma non era necessario. Il mio cuore non sanguina. — Poso una mano su quella di Clelia, soprattutto per impedirle di continuare a giocare con il bicchiere: è irritante. — Se lo goda, il suo Umberto. Ha la mia benedizione.
— Sa perché mi ha raccontato di lei?
— Non ne ho idea. Vuole delle referenze? A letto è accettabile, ma soltanto se è tutto come vuole lui e quando vuole lui. — Dannazione, tutto quella cortesia cominciava a stancarla!
— Un marito non serve solo per andarci a letto — mi risponde, calma, la Samperi.
— Vero. Serve, in certi ambienti, per il prestigio, la sicurezza… Mi interrompa se sbaglio. Il problema è se Umberto è in grado di garantirli.
Clelia alza il bicchiere e per la prima volta beve un bel sorso, davvero non per finta. — Infatti. Prevedeva un avanzamento di carriera, ha un buon curriculum, si è sempre impegnato al massimo. Mio padre l’aveva raccomandato, ma perché lo merita davvero.
— Ovviamente.
Lei accenna un mezzo sorriso prima di confermare. — Ovviamente. La richiesta si è impantanata proprio all’ultimo livello. La scrivania dell’ingegner Garavini…
La correggo d’istinto: — Non è ingegnere.
— Mio padre lo chiama ingegnere.
Suo padre si sbaglia.
— Il problema però è che Garavini sta bloccando Umberto.
— La TEXA è sua, ne è il proprietario e il presidente. Penso che possa decidere per una promozione. — Faccio una pausa. — E io cosa c’entro?
— Con molte esitazioni Umberto si è deciso a parlarmene. Secondo Umberto è lei che gli sta mettendo i bastoni fra le ruote. Mi scusi la franchezza, Laura. Ma Umberto mi ha spiegato che prima… quando eravate insieme… lavoravate di comune accordo.
Veramente sono stata io, Laura, a lavorare spesso per due. Ma lo capirebbe Clelia Samperi?
— Ora, invece di collaborare, lei lo ostacola. Dice che ci sono molti modi per ostacolare un collega. Diciamo pure per vendicarsi.
— Non sono così importante da ostacolare nessuno, Clelia. Non ci sono stati assegnati lavori da portare a termine insieme, quindi non potrei ostacolarlo neppure se volessi.
Clelia mi fissa.
— Chieda a suo padre, Clelia. Gli chieda se ci sono mai stati affidati dei lavori insieme. E poi decida se Umberto le ha detto le cose come stanno.
— Perché dovrebbe mentirmi? Sa, non è stato facile, per uno come lui, dirmi che aveva una relazione con lei… Che l’aveva avuta prima del nostro fidanzamento.
Poso il bicchiere ormai vuoto e mi dedico alla cattura delle olive che Clelia ha sdegnato. — Allora: io non so di preciso quando si è fidanzata con Umberto. Se ci penso, da anni non sento più dire che qualcuno si fidanza, forse non accade in un giorno preciso. — Blocco con un gesto l’obiezione di Clelia. — L’ultima volta che Umberto è venuto a letto con me è stato il 6 di novembre.
Mentre parlo tengo d’occhio Clelia: arrossisce ed impallidisce… In fondo mi fa pena. La collera è solo verso Umberto. Non verso questa povera, per modo di dire, Clelia.
— E non mi ha parlato di fidanzamento con un’altra, ma di una vacanza da fare insieme nei dintorni di Parigi, nel week-end successivo. Aveva già prenotato. Ed è venuto, senza dire niente. Io l’avevo scoperto, che si era fidanzato con lei, soltanto due giorni prima e, appena è arrivato, l’ho scaricato.
— Non le credo. Lo dice per ferirmi. Per dividerci. È una serpe, Umberto ha ragione.
— Allora perché è venuta a cercarmi? — Chiamo il cameriere e chiedo un altro Negroni. Dannazione, ne aveva bisogno!
— Speravo…
Rivelazione per rivelazione, tanto vale andare fino in fondo. Le do tutti i dati e concludo: — Può controllare.
— Non è tanto facile.
— Niente è facile, Clelia. Penso che un investigatore privato se lo possa permettere… — Ringrazio con un cenno il cameriere per il Negroni. — Se non mi crede. O, meglio, se non crede ad Umberto.
— Non so cosa fare.
— Io glielo lascio tutto, Clelia, mammina inclusa. Non ho intenzione di ostacolare la sua carriera, ma neppure più di servirgliela su un piatto d’argento. — Vuoto il Negroni. — Ora, mi scusi, ma ho una giornata di lavoro sulle spalle e sono stanca. — Chiamo il cameriere e pago.
Se non altro, Clelia mi ha risparmiato il giochetto di chi paga. Non ha neppure fatto il gesto di aprire la borsetta.
Mi alzo. — Posso darle un passaggio?
— Grazie, ma qui a Corvetto ci sono i taxi.
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