La storia con Umberto era cominciata all’insegna della sobrietà. Cinque anni fa (meno pochi mesi).
Cinque anni prima avevo cercato e trovato lavoro a Genova.
Cinque anni prima
Cinque anni prima Laura guidava verso Milano, con uno schifo di nebbia da tagliare con il coltello. Era la terza volta, in una settimana, che si faceva l’avanti e indietro Milano-Genova, finito il lavoro, e poi di nuovo Genova-Milano per ricominciare una giornata lavorativa.
La Panda era di terza mano, usato garantito solo a parole. Laura non amava le auto, le due ruote erano più comode, ma per l’autostrada Genova-Milano (d’inverno)… Insomma, non aveva avuto scelta. La Panda l’aveva pagata poco, era un muletto: freni e sterzo erano ok.
Mica era per sempre. Come il suo lavoro. Contratto a termine, sei mesi.
Laura non aveva niente contro Milano, ma il mare era lontano. Lei, se non lo vedeva quando era giù di corda, non riusciva a rimettersi in sesto.
Quando aveva accettato quel lavoro a Milano, si era detta che per quei sei mesi poteva reggere. Tutti parlavano un gran bene del vivere a Milano (nei film e negli spot Milano c’era sempre). Invece no! Almeno per lei.
Guidava, con un vecchio CD di De André a tenerle compagnia, cantava con lui, da stonata in libertà, e intanto realizzava che vivere così non le piaceva. A Milano aveva fatto amicizie, male non si mangiava, bei negozi, svaghi… Anche come uomini, c’era il buono come il cattivo (come a Zena e in tutto il mondo).
Ma a Milano niente mare, manco un poco fra i tetti. Manco un poco dall’alto. Che lei, fra l’altro, sul Duomo era pure salita. Oh, che bello! Che bello un corno! Vedevi tanto, ma mica bello. Aumentando la quantità della visione, la qualità non era però aumentata.
A Genova se sali, vedi quello che prima non vedevi. Acchiappi il Monte di Portofino e giù giù fino a Capo Mele… A pensarci le veniva quel groppo dentro che la gente istruita chiama spleen e a casa sua era il magone.
Doveva trovare un posto a Genova.
Già che c’era un posto fisso, stabile, adeguato.
Se non aveva un lavoro migliore era perché non l’aveva cercato.
Non erano stati i suoi a dirglielo (padre, madre e sorella seguivano la linea di non interferenza, anche il cognato aveva imparato a defilarsi), ma nella sua vita c’era Pupa.
Nella vita di ogni quasi trentenne scombinata c’è una Pupa, coetanea, ugualmente scombinata, con tutti i suoi casini personali (che non vede) mentre vede lucidissimi i casini nella vita tua.
La Pupa di Laura Arnolfini, detta Lalla o Lallina in casa Arnolfini, di nome faceva Pulcra Paola. Ma “la chiamavan Pupa”, soprattutto perché era una collezionista indefessa dei prodotti per trucco della linea Pupa.
Aveva cominciato al liceo quando Laura le aveva regalato un ombretto e non aveva ancora finito.
Fra l’altro non si truccava.
Pupa vedeva benissimo i casini nella vita di Laura che vedeva quelli di Pupa.
Sarebbe stato pratico scambiarsi le vite. O i casini.
Si erano conosciute in prima liceo, anni tredici. Per tutto il liceo Laura le aveva fatto i temi perché Pupa non sapeva mai cosa scrivere; poi Pupa si è laureata in lettere.
Per esorcizzare quel dannato Pulcra. Per chi il latino non lo sa, pulcra vuol dire bella. È pure irregolare, bellissima fa pulcherrima e non pulchissima.
Pupa bella non era stata mai, tanto meno pulcherrima. Irregolare? Sì.
Era stata la prima femminista della classe: gonnellone, zoccoli e via con il reggiseno. Tanto nessuno si accorgeva se l’aveva o no: prima misura, perché la mezza non c’era, come diceva lei. Che in quanto ad autocritica non era seconda a nessuno. Di colpo, in meno di un anno, il suo seno era lievitato in modo quasi imbarazzante, raggiungendo la sua brava quarta. Ma ormai il reggiseno era stato eliminato.
Il casino di Pupa era l’amore. Non è una novità: non c’è scampo. Pupa diceva che non riusciva ad innamorarsi.
Faceva sesso, aveva affettuose amicizie, conviveva facile e temporaneo, ma amore? Quello che ti scombinava dentro, quello che se non lo vedevi eri una pianta senz’acqua…
Diceva che non l’aveva provato mai.
I suoi ragazzi, come li chiamava lei, si innamoravano, a volte anche di lei… Ma lei? Lei ciccia.
Laura sapeva che era una bugia, forse Pupa non voleva ammetterlo, forse si vergognava. Ma Pupa, sostenitrice del libero amore, si era innamorata a nemmeno vent’anni ed era ancora innamorata dello stesso uomo.
Una faccenda platonica, ma più platonica di così non si poteva. Lui le aveva rivolto parola e sguardo una sola volta, quando si erano scontrati in un corridoio dello stabilimento balneare.
Ora, quale è il posto più facile per fare conoscenza e tutto il resto di conseguenza? Uno stabilimento balneare. Per caso ci si trova al bar in coda o in mare.
Pupa lo aveva rimirato da lontano e aveva svicolato. Così per anni e anni.
Una volta Laura l’aveva buttata fra i cavalloni, mare grosso, bandiera rossa. Lui murava a due bracciate di distanza, appena si era avvicinato per salvarla, cosa aveva fatto la scema? La paura del mare grosso, panico da sempre, l’aveva abbandonata di colpo e Pupa era diventata una campionessa.
Lui le aveva dato un’occhiataccia ed era tornato a farsi gli affari suoi.
Risultato?
Pupa non le aveva parlato per tre giorni.
Lui non era male. Abbronzato, atletico, di passo sciolto. Capello di charme.
Pupa lo pensava ancora, Laura lo sapeva. Aveva una sua foto nascosta dietro i dizionari di latino. La foto gliel’aveva scattata di nascosto, fingendo di fare foto a tutti. Le altre le aveva gettate, quella era ben nascosta.
Lo amava davvero? O quell’innamoramento le serviva per tenere lontani amori più probabili?
Comunque fosse Pupa aveva i suoi casini. Che non coincidevano con quelli che diceva.
Però era una vera amica.
Era da Pupa che Laura aveva dormito quelle tre notti.
Dormito?
Parlato.
— Aspetta che ti faccio l’oroscopo — l’aveva bloccata Pupa.
Acceso computer, avviato un software da maga.
— Allora… Le stelle mi dicono che è il momento giusto per cercare un lavoro fisso. Devi deciderti, Laura.
— Difficile trovare lavoro fisso a Genova, mica crescono sugli alberi.
— Che cavolo, Laura, mica sei come me che con una stronzata di laurea in lettere moderne più che supplenze non trovo! La laurea in ingegneria te la sei presa così veloce che manco t’hanno vista, in facoltà.
L’avevano vista poco in verità anche perché in quegli anni era passata da un amore all’altro e ogni occasione per andarsene in due era buona. Come era passata agli esami era un miracolo.
— Ho quel master a Londra… — aveva aggiunto Laura.
— Hai anche quello stage a Ginevra… Non ricordo cos’era, forse perché non ho capito cosa facevate.
— Marchi e brevetti? Quello che avevo frequentato perché non ero mai stata a Ginevra e ci volevo andare?
— Sì, quello. Perché non provi ad usarlo?
Laura guidava, nella nebbia. Che nei film fa così intrigante e nella realtà è solo fastidio. Pupa aveva ragione: non poteva continuare così.
Vivere a Milano e avere il cuore davanti al mare. Finiva per non avere amici a Milano e passare ore e ore al volante. Che anche come ammortizzatori una Panda di terza mano non è poi il massimo.
Doveva trovare posto a Genova. Già che c’era, doveva impegnarsi a trovarlo fisso. Pupa l’aveva minacciata di brutto. — Non puoi continuare così. Se non ti impegni, non ti ospito più. Ti lascio a dormire sotto i ponti.
In teoria Laura abitava da sua sorella Lucy, nella casa che prima era dei suoi… Ma Lucy era ormai una seria madre di famiglia e da Pupa si divertiva di più.
A Pupa non era mai riuscita a mentire, così non aveva avuto scelta: si era impegnata.
Guidava nella nebbia insieme a De André e studiava un piano d’azione. Non era difficile trovare dei siti cerco-offro lavoro e neppure selezionare i più promettenti.
La sera seguente, invece di torcersi dalla voglia di mare e assecondarla oppure cercare di non pensarci uscendo con gli amici, si mise al lavoro.
La settimana seguente Laura trovò due risposte. Una società di trasporti, con sede dirigenziale in Carignano, l’altra, la TEXA, di valutazione e registrazione brevetti, a Campi.
A Pupa aveva promesso di impegnarsi a fondo. Risposte, contatti, appuntamento per colloqui.
Aveva lasciato il telefono di sua sorella Lucy e da lei aveva avuto il biglietto con gli orari.
Sapendo, da sempre, come quella matta di Lucy prendeva nota degli orari, era ovvio che doveva essere in Carignano lunedì alle 10, mentre a Campi per le 11. Difficile andare da entrambi, doveva scegliere: fra Campi e Carignano non c’era confronto!
Da Carignano si vedeva il mare. Campi, nel budello fra Cornigliano e Sampierdarena, di bello non aveva niente. Sarebbe andata in Carignano. Alle 10, anzi 10 minuti prima per non rischiare un ritardo, sarebbe stata a Carignano.
Carignano ore 9 e 50.
— Arnolfini. Ho appuntamento per un colloquio.
La segretaria la guardò e la riguardò. — L’appuntamento era per le ore 9.
— Mi hanno detto alle 10 — mormorò Laura. — Non sarebbe possibile…
— No.
Con il bel posto in Carignano aveva chiuso. E fra poco sarebbe stato tardi anche per la TEXA.
Si precipitò fuori e si attaccò al telefono. — Sono Arnolfini… Sarò in ritardo…
— Arriva? — era un’allegra voce di donna.
— Sì, certo.
— Si dia una smossa.
Taxi. Sopraelevata a razzo, budello di Cornigliano e su verso Campi.
Ormai la calma era già sparita, il trucco anche, in compenso era arrivato il torcibudella e il naso lucido.
E l’affanno. Il suo: “Sono Arnolfini…” lo ansimò.
Aveva l’affanno. Sapeva di avere il naso lucido e aveva anche mal di pancia. Entrò alla TEXA senza guardarsi attorno.
Alla prima faccia che si trovò davanti balbettò: — Sono Arnolfini… per il colloquio.
— Si metta calma. È in ritardo anche il capo.
Finalmente guardò l’origine della voce. Donna, della sua età.
— Aereo. Per il vento l’hanno dirottato su Milano.
Laura provò la sensazione di afflosciarsi ancora di più.
Quella la prese per un braccio. — Venga.
Cinque minuti dopo era comoda su un divano e aveva un caffè in mano. Di caffettiera vecchio stampo, non macchinetta.
— Io sono Maura. Ha anche un nome o ti chiamano tutti Arnolfini?
— Laura.
Maura le si sedette davanti. Faccia allegra, forse per i due incisivi un po’ accavallati. Anche la maglietta nera stretch era diversa da quella di Carignano. — Meglio?
— Meglio.
— Sono l’assistente del responsabile del personale. — Rise. — Non si faccia impressionare. Vuol solo dire che faccio tutti i lavori che non si sa di chi sono. Conto meno di niente. Ma anche per gli altri è lo stesso. Chi conta davvero è lui. — Alzò l’indice ad indicare il piano superiore. — Garavini. Le decisioni vere sono le sue. Gli altri spostano fogli, telefonano, faxano: cazzeggi vari da esecutori.
— È lui che aspettiamo?
Rise di nuovo.
— Samperi. Aspettiamo l’avvocato Samperi: responsabile del settore legale e, come extra, del personale.
— Samperi? Samperi quello vero? — Perché era un nome che a Genova si sentiva spesso. Genova non era città in vetrina, la gente che contava se ne stava per i fatti propri sfiorando appena i comuni mortali (avevano le loro regge come era sempre stato), ma qualcosa filtrava: prime teatrali, inaugurazioni di mostre… Samperi c’era sempre.
— Quello vero. Ma non si faccia impressionare. Ha due occhi, un naso e una bocca come tutti. Sulle “du palle” non ci metto la firma.
Fu Laura a ridere.
— Samperi le farà discorsi e controdiscorsi. Ma Garavini ha già esaminato il suo curriculum e per lui è OK. La decisione di convocarla per un colloquio porta la sua firma. Samperi farà il prezioso, tanto per darsi un tono, ma Garavini ha puntato l’indice sulla sua domanda.
— Sicura?
— Sicura. Convocata unica e sola. Qui, alla TEXA, se ti convocano, ti prendono. Sempre stato così.
Laura aveva di nuovo voglia di sorridere e un respiro regolare, del naso lucido e trucco sfatto se ne sfregava.
— Unico guaio.
Una mazzata? La sentì in arrivo…
— Non si può contrattare sui soldi. Per le palanche Garavini è irremovibile.
— Pignasecca? — Sì, di tornare a Genova aveva voglia, aveva poche esigenze, ma non le andava chi prendeva la gente per fame, per principio.
Rise. — No, paga bene. Ma quello che vuole lui. Padrone vecchio stampo. Tu credi che questo sia un posto moderno? È uno scagno, fatto e finito. — Guardò l’ora. Si alzò. — Venga che le faccio fare un giro, così si orienta.
Il posto non era male. D’altra parte, il bel Carignano era sfumato.
Quando arrivò Samperi Laura era già rientrata in sé. Lui chiese, richiese, da avvocato, ma lei aveva fisse le parole di Maura. Non si agitò, non boccheggiò, mostrò il meglio di sé, rispondendo a tono.
Finalmente Laura aveva un lavoro vero! Basta con i contratti a tempo! La TEXA era una società con un buon nome: valutazione, registrazione e commercializzazione di marchi e brevetti industriali.
Lo stipendio non era eccelso, ma suscettibile di miglioramenti, come le avevano detto.
Ci uscivano le spese essenziali e avanzava anche abbastanza per sperperare un po’. Laura non era mai stata di gusti costosi: il mercato di Piazza Palermo era la sua boutique abituale. Posto bellissimo, caciarone e allegro. Il più bel mercato di Genova. Più divertente delle boutique: già girare per i banchi, toccare, fermarsi a chiacchierare era una meraviglia.
Lunedì mattina e giovedì pure mattina: orari poco compatibili con lavoro d’ufficio? Manco per sogno! Alla TEXA avevano bisogno di qualcuno che ogni tanto stesse in ufficio al sabato… Laura si offriva volontaria molto volentieri in cambio di qualche lunedì mattina.
Tutto ok, nemmeno a studiarlo a tavolino.
Meglio meno soldi e un lavoro che piace, era la sua filosofia di vita.
E anche per la carriera c’erano delle possibilità. Non che fosse carrierista, ma avere delle prospettive la faceva sentire più viva.
Laura aveva previsto di incontrare, il primo giorno, il suo caposettore, ma l’ingegner Follini era assente per malattia.
L’incontro fatale ebbe luogo dieci giorni dopo perché lui era in missione. L’ingegnere le si avvicinò e si presentò. — Ingegner Follini. Sono il suo caposettore.
Non una parola di benvenuto. Ma le tese la mano per una stretta. Rapida e poco stretta.
— Laura Arnolfini.
Lui commentò freddamente: — È opportuno che d’ora in avanti si presenti come ingegner Arnolfini. Avrà maggiori possibilità di essere considerata affidabile.
Un gelo siderale.
— Pensavo che contassero le capacità.
— Pensava sbagliato, Arnolfini, contano anche le capacità, ma non solo.
“Mi sarebbe più facile presentarmi come ingegnere se anche lei, ingegner Follini, mi chiamasse ingegner Arnolfini”: la risposta le bruciò sulla lingua ma la trattenne; perché inimicarsi il superiore diretto proprio al primo incontro? Sarebbe stato da idiota: autolesionismo puro e concentrato.
— D’accordo, ingegner Follini. — Come una recluta avrebbe detto “signorsì”. Dannazione, quel posto era importante. Avrebbe sopportato anche i colleghi carogna… moderatamente carogna.
— Le consiglierei anche un abbigliamento più sobrio, Arnolfini.
A lei pantaloni neri e maglioncino giallo sembrava un abbinamento sobrio. Mica era una suora.
In pausa pranzo, Maura le chiarì le idee. Già il primo istante aveva optato per un “tu” pratico ed amichevole.
— Non badarci, Laura. Si dà tante arie di caposettore, ma non vale una cacca. Quello che c’era prima era tosto, in gamba. Se l’è fregato la concorrenza. L’Umbertuccio è solo “facente funzioni di caposettore”, e da un bel po’, non è ancora stato promosso. Se ne trovano uno meglio lo sloggiano dall’ufficio tutto suo e lo rimandano fra noi.
— Che tipo è?
— Ma dai? Sei tonta o lo fai? Che tipo vuoi che sia? Modello “io son perfetto e me ne vanto” o, se vuoi “CAPO capetto”.
Maura aveva ragione, a ripensarci con il senno di poi. L’aveva inquadrato perfettamente. Se aveva sbagliato era per difetto.
E Laura ci era cascata. Ignorando segnali di pericolo e disgrazia imminente.
Era cominciato nel più classico dei modi.
Un lavoro da finire.
Laura-Umberto (Atto 1°)
— La sua relazione, Arnolfini, non è abbastanza dettagliata.
— Mi sembrava…
— Le sembrava male. Le dico che non è abbastanza dettagliata per gli standard della TEXA. — Umberto Follini tamburellò con la matita sul piano della scrivania. Per la prima volta lanciò a Laura un sorriso, quasi da collega e non da capetto. — So che ognuno di noi è responsabile delle proprie pratiche, ma come collega di grado più elevato mi sento in dovere di metterla sull’avviso, Laura…
E che cosa voleva dire quel Laura improvviso invece del solito Arnolfini? E perché la fissava come se la vedesse per la prima volta?
— Non vorrei che avesse dei problemi, Laura. Con lei si lavora bene.
Per poco Laura non cadde dalla sedia girevole.
— Lei si farà.
Doveva aver mangiato troppo poco a colazione ed essere in calo di zuccheri. Non ci poteva essere altra spiegazione. Non aveva mai avuto tendenze mistiche ed una visione celeste era fuori discussione. Le uniche visioni erano strisce di focaccia con le cipolle quando si metteva a dieta perché si avvicinava la stagione del bikini.
— Allora, Laura?
Si riscosse e riuscì a mettere insieme abbastanza fiato da replicare con un borbottato: — Cosa?
— Le dicevo che, se vuole, posso aiutarla a rivedere la sua relazione.
Annuì. Come i cagnolini che mettono dietro il lunotto posteriore delle auto. Ma si sentiva di plastica finto gesso come i nanetti delle villette monofamigliari.
— Allora d’accordo.
Laura annuì.
— Non qui, è ovvio. Non ci farebbe una buona figura se si venisse a sapere che ha avuto bisogno di aiuto…
Aveva ragione.
— Non mi pare neppure corretto dirle di venire a casa mia. Verrò io da lei.
Laura annuì, cercando di ricordare come aveva lasciato il suo bilocale. Il letto l’aveva tirato su alla brecchio, il bagno tanto pulito non era. I piatti sporchi della prima colazione l’aspettavano tutti lì: se non era arrivato un ladro a lavarli. — Ma… — E si bloccò.
— Se non disturbo, ovviamente.
— Nessun disturbo. — Che bisogno aveva di entrare in bagno o in camera? E neppure il cucinino era il posto ideale per rivedere una relazione. L’angolo studio era in ordine.
Prima di mezzanotte erano finiti a letto. Il letto era andato benissimo anche se, quel mattino, era stato tirato su alla brecchio.
Non era stata un’esperienza esaltante, ma tutto sommato, abbastanza piacevole… L’ultima relazione di Laura si era spenta tre mesi prima, trasformandosi in amicizia affettuosa. Come capitava regolarmente.
Era una quasi trentenne sana e single, reduce da tre mesi di castità. Perché, fra trasloco, sistemazione casa, lavoro nuovo, aveva trascurato le normali attività di una quasi trentenne. In pratica gli uomini non li aveva visti manco in foto.
Umberto Follini era un uomo giovane e piacente. Anche se lei aveva sempre tenuto separati lavoro e piacere.
Umberto si era mosso accanto a lei, doveva essersi svegliato. Le posò una mano sul fianco e si ritrasse.
Probabilmente non ricordava dove era, si disse Laura. Si girò verso di lui e gli sorrise: fare all’amore la metteva sempre di buon umore. Sorriso inutile, come poteva vederla se erano al buio?
Appena arrivati al letto, lui aveva spento la luce… Lei l’avrebbe lasciata accesa. Ma in fondo le era indifferente.
Sorrise e poi mormorò: — Ciao… — Aspettandosi che lui intendesse ricominciare. Un replay non le sarebbe spiaciuto: i preliminari non erano stati male ma il seguito l’aveva lasciata ancora vogliosa.
Ma Umberto si protese verso il comodino e accese la luce.
E adesso lo rifacciamo alla luce, si disse Laura…
Invece Umberto lanciò un’occhiata all’orologio che aveva tenuto al polso e si alzò. — Non credevo che fosse così tardi. Perché non mi hai svegliato?
Anche Laura si tirò su e si mise seduta. — Non mi avevi detto di farlo.
Ma già Umberto si era fiondato in bagno.
Laura si alzò. Era sconcertante… Ma forse lui aveva qualche impegno…
Lui ritornò in camera e cominciò a vestirsi, in fretta.
— Devi andare?
— Sì, certo. Cosa pensavi? Che restassi tutta la notte?
Lei abbozzò un cenno di assenso.
— E i tuoi vicini? La tua reputazione?
— Umberto! Siamo nel duemila e rotti! Sono maggiorenne ed indipendente. — Non aggiunse che i suoi vicini avevano la piacevole abitudine di farsi i fatti propri. Ma se si aveva bisogno d’aiuto, si trovava sempre chi ti dava una mano. Che poi, fra l’altro, non sarebbe stata la prima volta che un uomo passava la notte a casa sua e presumibilmente nel suo letto. Non solo a dormire.
Ma aveva già capito che Umberto era di vedute un po’ meno libere… Alle apparenze e al decoro ci teneva, anche troppo per i suoi gusti. Ma l’avrebbe ammodernato lei!
Lui infilò la giacca. — Bene, se non te ne preoccupi tu, sarò io a pensarci per tutti e due.
— Umberto…
Si girò a guardarla, interrompendo il gesto di controllare se dalle tasche gli era scivolato via qualcosa. — È stato molto bello anche per me, Laura.
Meglio che niente.
— Ma devo andare. C’è un bel pezzo a piedi prima di arrivare dove sono riuscito a trovare un posto per l’auto. Qui è decisamente scomodo.
Laura stava per rispondergli che lei lo trovava un posto comodo e divertente. Dell’auto non sentiva la mancanza: con il motorino si muoveva benissimo. Stava per dirglielo ma lui continuò: — A casa mi aspettano.
— Sei sposato? Hai una compagna fissa?
Si accigliò. — Si vede che mi conosci poco o mi stimi ancora meno, Laura. Se fossi sposato non sarei venuto a casa tua. Sarei fedele a mia moglie: il matrimonio è una cosa seria… E una compagna fissa… Certi usi moderni non fanno per me.
— E allora?
— Mia madre, Laura. Vive con me e non ha tanta salute. È così apprensiva. Quando sono fuori non riesce a dormire bene fin quando non sono a casa.
— Ma hai più di trent’anni — non riuscì a trattenersi.
— Ma lei è ancora mia madre. Le devo affetto e rispetto.
Si chinò a darle un bacio frettoloso ed uscì.
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