Il suo appartamento non le era mai sembrato così anonimo. Tappezzeria sul beige, mobili solidi, di buona qualità, né moderni né antichi. Era stato Umberto a consigliarle quella fabbrica. Poi a sceglierli.
Li odiava, li aveva sempre odiati, se ne rese conto…
L’appartamento in Via San Donato era scomodo, non era un quartiere rispettabile. Aveva abitato lì per pochi mesi, ma erano stati di pura felicità. Ancora poco tempo prima, parlando in un negozio (abitudine deprecabile, secondo Umberto), aveva detto, senza pensarci, che abitava in San Donato: non una menzogna. Ci aveva lasciato il cuore.
“Ho saputo che si è liberato un bell’appartamento, spazioso, in una zona comodissima, ben servita da mezzi pubblici e negozi.”
No, Umberto non l’aveva detto tutto in una volta, ma più volte e a piccole dosi. Come goccia che scava il sasso.
A lei un appartamento spazioso non serviva. Le uniche cose ingombranti che possedeva erano i libri e lo stereo. Il computer l’aveva portatile.
“Se hai una cabina armadio, puoi acquistare abiti di qualità migliore e conservarli da un anno all’altro.”
Come poteva capire un uomo il piacere di comprare una scemata nuova al mercatino?
“Un palazzo recente. Un prezzo ottimo, poco più di quello che ti costa il tuo e in più c’è anche un box doppio.”
Se era così comodo per i mezzi pubblici, a cosa serviva il box? Lei, fra l’altro preferiva Spiddi, il suo motorino. In coda bruciava le Mercedes, le BMW e pure i fuoristrada.
Come poteva capire Umberto l’ebbrezza di superare una Jaguar? Lei con Spiddi, il suo motorino fedele, l’aveva provata.
Però il box sarebbe servito a lui. Comodissimo. In perfetto incognito e senza l’impiccio di girare per trovare un buco.
In San Donato nessuno aveva mai danneggiato Spiddi, anzi una volta aveva trovato una gerbera gialla legata al manubrio.
Nel quartiere rispettabile Spiddi era stato sbattuto a terra da auto in manovra… Lo specchietto retrovisore era stato asportato. Infine, il furto.
“Un’auto, la puoi pagare a rate. Hai avuto un buon aumento.”
Aveva ragione. E poi Spiddi era comodo quando girava in pantaloni e zainetto. Con tailleur, scarpe a mezzo tacco e borsetta da signora era piuttosto scomodo. Comunque, stonato.
“La Punto. Solida, affidabile. Fiat.”
Lei non aveva mai avuto questo gran amore per gli Agnelli. Neppure odio, del resto. Le erano indifferenti: indifferenza probabilmente ricambiata.
“Fiat. Ovunque, tutti sanno dove metterci le mani.”
Aveva detto sì, sperando in viaggi, anche solo week-end in Riviera o in montagna. Lui non amava guidare, così avrebbe guidato lei.
Viaggi loro due insieme? Niente.
Le poche volte ci si dava appuntamento direttamente sul posto.
Ma le era rimasta la Punto sul groppone.
Ma perché aveva lasciato che lui si appropriasse della sua vita fino a quel punto?
Perché? Assurdo chiederselo. Perché lo amava? Come tante belle sceme prima di lei, al suo uomo aveva dato tutto quello che poteva.
Con il risultato che lui aveva valutato niente il dono e aveva chiesto sempre di più. Stronzo stronzo dannatissimo stronzo.
Però lo amava ancora. Lo capì quando, rispondendo al telefono, sentì la sua voce.
— Ciao, Laura. Ho provato a chiamarti anche prima, non c’eri.
— Sono dovuta uscire, una commissione imprevista… — Non voleva, ma la sua voce stava diventando remissiva: sì, si stava scusando. E non era una bugia… Almeno all’inizio.
— Ti ho cercato anche sul cellulare. Era spento. — Con riprovazione.
Anche il tuo era spento, ma invece di ribattere colpo su colpo, si scusò ancora: — Sono uscita così in fretta che l’ho dimenticato a casa. — Vero, verissimo.
— Un comportamento infantile. I cellulari ci sono per essere sempre raggiungibili in caso di necessità, lo sai.
— Hai ragione. — Era il modo migliore per placarlo, dargli ragione. In fondo l’aveva. Ma il demone doveva essersi impadronito di lei. — Anch’io ho provato a chiamarti. Era spento.
— Lo sai che non è prudente.
Non mi chiede perché l’ho chiamato: forse perché sa troppo bene il motivo? Se lo chiese, di lampo, e sull’onda replicò: — Se devo dirti qualcosa di urgente come faccio?
– Sei strana, lo sai?
Lo sapeva, ma non gli rispose.
— Sei sicura di star bene? — Una pausa. — Hai per caso… — Borbottò qualcosa di indecifrabile.
Dannazione erano amanti da quasi cinque anni, quasi cinque. Facevano all’amore in media una volta la settimana e ancora le sue normalissime mestruazioni di donna sana lo mettevano a disagio, come fossero segni di qualche misteriosa malattia.
E, fra l’altro, ci aveva azzeccato!
— No, stai tranquillo. Sto bene, anche in quel senso.
Sentì nitido il sospiro di sollievo: la vacanza romantica non sarebbe andata buca.
Lo odio, si disse Laura. E lo amava. Era l’unico centro della sua vita, come avrebbe fatto senza di lui?
Si odiò, consapevole che se lui, in quel preciso momento, le avesse detto “Sai, cara, sto per sposare un’altra, ma voglio continuare con te”, lei avrebbe pianto di gioia.
Perché quello che temeva di più era l’abbandono. Aveva già perso sé stessa, cosa avrebbe fatto se perdeva anche lui?
Così, remissiva, gli chiese: — Cosa volevi dirmi?
— Sapere se ricordavi tutto. Lo faccio sempre prima della partenza, dovresti saperlo.
— Sì, certo, ricordo tutto.
— Allora a presto, tesoro.
Nel “tesoro” aveva sfoggiato la voce da letto. Cocchino si era tranquillizzato sulla disponibilità del giocattolo.
Come si poteva amare un uomo e insieme vederne tutta la falsità?
Tolse dalla borsa il sacchetto con gli aromi di Zobeida e lo chiuse in un’anta dei pensili di cucina. Intanto non aveva né tegame di coccio, poco igienici secondo Umberto, né cipolle, che a lui erano pesanti.
Da qualche tempo anche a lei…
Un tempo no.
Nel suo nido in San Donato mangiava qualsiasi schifezza e stava bene. Ciro, il barista che le aveva procurato l’appartamento, le aveva detto che era tutto da rifare e lei ci si era messa di buzzo buono.
Santodio, aveva una laurea in ingegneria e un impianto elettrico non la spaventava e neppure qualche cosuccia idraulica. Se lo era detto per farsi coraggio e si era messa al lavoro.
E aveva sistemato tutto. Gli interruttori accendevano e spegnevano le luci e i rubinetti comandavano le acque. Aveva speso un niente e si era pure divertita!
I vicini dovevano aver seguito i suoi traffici…
La prima era stata la marocchina con i tre bambini. Le si stava allagando la cucina per un rubinetto.
Impavida l’aveva cambiato. Spesa? Il costo del rubinetto. L’avevano invitata a mangiare il couscous: una favola! Le avevano anche dato la ricetta.
Ai cinesi aveva sistemato un interruttore e così aveva assaggiato il riso alla cantonese, cucinato alla casalinga.
L’ultima a cedere era stata la zeneise purosangue, che abitava lì da quando, ottant’anni prima, era nata. Era stato una specie di corteggiamento. Da cenni del capo quando si incrociavano, sempre più spesso, a saluti, a quattro parole sul tempo.
Da quel momento la situazione era avanzata senza scosse. Dal tempo al mal di schiena che quando si chinava non riusciva a tirarsi su. E quelle prese che erano tutte in basso. — Potrebbe spostarle più in alto.
— Dice davvero?
— Certo. Se vuole ci diamo un’occhiata.
Per lei era stato facilissimo: aveva predisposto le crune e spostato il tutto. Un lavoretto di sartoria. Mentre lei faceva le crune la zeneise controllava se ci arrivasse bene. A fine lavoro si davano del tu e Laura era diventata a më figietta, la mia cara figliola. Lo stocco. Con olive verdi e nere e i capperi e le belle patate a tocchi. Ci aveva mangiato tanto di quel pane! Senza metter su neppure un chilo. Se lo erano mangiati insieme, lei e la zeneise e il marito, che prima lavorava sui moli, bevendoci anche una bella bottiglia di vino.
Ma già così poteva ritenersi soddisfatta. Il bilocale in San Donato: era nido, rifugio, porto sicuro. Era suo. Fra uno scorcio di tetti si vedeva un angolo di mare: input di sogni avventurosi.
A ripensarci a Laura veniva il magone.
Umberto le aveva cambiato la vita. Ma come era successo? Lei così indipendente aveva permesso che lui le rovesciasse la vita come un guanto.
No, l’aveva trattata come gli alberi dei giardini all’italiana, tutti potati in forme magari artistiche ma assurde. Aveva tagliuzzato qui, sfrondato là…
E lei, la vera Laura, c’era ancora?
Non voleva chiederselo per paura della risposta.
Forse era tutto un equivoco e stava facendo una montagna di un bruscolino.
Doveva calmarsi.
Ma pianse, da disperata, tutta la notte.
Arrivò al punto da lavarsi i capelli, terza volta in tre giorni scarsi, per cercare di ritornare la vecchia solita Laura Arnolfini. Che, anche se scema, era così rassicurante e non era impegnata a remare in mezzo al guado.
Il sacchetto della profumeria era ancora sul tavolo di cucina; la tentazione di gettarlo nella spazzatura c’era e forte.
Ma prima riguardarlo ancora una volta. Smalto e rossetto: solo in quel momento notò la marca. Pupa.
Pupa. Un tempo la sua migliore amica.
E poi quanta solitudine quando tutto era finito. Nella rubrica aveva ancora il suo numero di telefono.
Aveva voglia di sentirla… Ma erano passati anni.
Il primo Natale senza Pupa
A tavola con i suoi.
Lucia, sua sorella, detta Lucy: — Come sta la tua amica Pupa?
Laura fece finta di non sentire e si girò verso Arnolfini padre borbottando la prima cosa che le venne in mente.
Ma Lucy, invece di cogliere la necessità di una diversione, non mollò la presa: — Davvero, come sta Pupa? È da un po’ che non la nomini più.
— Sta bene — biascicò, sperando che fosse vero.
— Le amicizie vanno e vengono, se sono vere — sentenziò Arnolfini padre.
Laura gli lanciò un’occhiata, suo padre doveva aver capito che era un tasto delicato e stava cercando di lasciar perdere.
Ma Lucy non mollò l’osso. — Simpatica. E poi eravate amiche da anni.
Ora, la questione era che Lucy andava pazza per gli oroscopi e Pupa glieli confezionava su misura.
Infatti… — Perché avrei un problema e le volevo chiedere consiglio.
Ancora Arnolfini padre: — Se non altro la finiremo con gli oroscopi.
— Non è che io ci creda — lo tranquillizzò Lucy. — Ma se tante persone ci si affidano un fondamento di verità ci deve essere.
Voce materna dalla cucina: — Vox populi vox veritatis? Non si usa più pensare con la testa propria?
Lucy si agitò sulla sedia, poi non sapendo cosa fare di meglio, si girò, prese in braccio il piccolo che stava beato nel seggiolone, imboccato dal suo papà Matteo.
Con il risultato che il piccolo cominciò a piangere, Matteo a sbuffare…
Arnolfini padre si alzò da tavola e si rifugiò dietro un libro.
E Laura si ritrovò con un senso di colpa gigante…
Sabato
Genova (aeroporto Cristoforo Colombo) ancora! Perché per paura di far tardi sono arrivata con molto anticipo. Lo faccio sempre, ma le difficoltà nel gestire gli orari è un problema di famiglia.
Lo smalto sulle mie unghie è rosso fiamma con polvere di brillantini e d’oro: una figata, direbbe Maura. Mi vergogno di queste unghie da vamp, mi vergogno dei miei capelli da ventenne abbordabile ed abbordante.
Mi vergogno. Punto e stoppe. Come dice mia sorella Lucia, detta Lucy, come quella di Linus, quando non ne può più di marito e figli annessi e si prende un’ora di tregua e mi telefona per scaricarsi i nervi. (Caricandoli a me)
Mi vergogno. Di essere una donna tradita. Ancora di più mi vergogno di essere trattata da deficiente.
Ma lui ha ragione: lo sono. Per amare uno così non c’è spiegazione diversa. Apro la bocca in un urlo silenzioso, come quel quadro… Sono circuitata, il nome non lo ricordo. Ho sempre amato la pittura e non ricordo chi ha dipinto uno dei miei quadri culto.
E lo vedo nel riflesso del vetro.
La mia vita sta diventando piena di facce colte per caso. Fino a venerdì non c’erano o non le vedevo?
Di essere appetibile lo sa.
O non avrebbe messo pantaloni di fustagno e giacca sportiva, con camicia aperta sul collo. Ben modellato. Bell’omo, direbbe Maura. Bell’omo, io lo penso. E distolgo gli occhi.
Anche passare per guardona sarebbe troppo.
Però è un bell’omo. Fossi sana di mente ci farei un pensiero. Fossi sana di mente capirei di non avere possibilità!
Si avvicina. È il passo che fa la differenza. È il passo di uno che sta bene nel suo corpo, ne è soddisfatto. Facile! Chi non lo sarebbe con un corpo così?
Si avvicina e mi si secca la gola. — Perché non li lascia in pace?
Tutto potevo prevedere ma non quella voce. Leggermente roca ma vellutata. Dannazione, doppierà gli attori delle fiction?
— Perché non lascia in pace i suoi capelli?
Le parole penetrano nella nebbia. Mi giro. — E i miei capelli cosa c’entrano?
— Dico che dovrebbe lasciarli in pace. Stanno bene così.
Bene? Ma se sembro un mostro uscito da un libro di King! — Primo: sono miei e ne faccio quello che voglio. — Per dare maggior forza alle mie parole gli punto l’indice contro. Dannazione vorrei toccarlo, sentire se è reale o se è l’emanazione del sogno della single media. — Secondo: se ci sta provando, la avviso che non è giornata.
In risposta mi punta l’indice contro. Ride, il maledetto! Sexy. Mi si secca la gola. E lui lo sa, io lo so che lui lo sa. — Per sua informazione, io sono democratico e ci provo con tutte.
Ed è come impastato di allegria.
— E come le va? Sa, tanto per mia informazione.
— Non ho tempo per fare altro. Ed è per trovarlo che sto fuggendo da una. — Mi guarda. — Lo sa che lei è l’unica ad aver avuto una reazione simile! È sicura di star bene?
Ma perché tutti mi vogliono malata?
Non penso, agisco. Penso di non aver mai schiaffeggiato un uomo in pubblico. Neppure in privato, per quello: sono stata educata a Gandhi e Martin Luther King.
Ci metto forza, determinazione, energia. Colpisco per fare male.
Si passa una mano sulla guancia. — Belin, ragazzi, che sventola. Ma che hai nelle mani, cocchina?
— Io non sono la cocchina di nessuno, tanto meno la sua.
Ha la guancia rossa ma sembra più divertito che incazzato. — Ma che fai ai tuoi uomini, cocchina. Ad affare concluso li uccidi?
È irritante, ma divertente. Non noioso: e io sugli uomini noiosi ho appena concluso un corso di specializzazione.
Concluso? Vorrei saperlo. Qualcosa: dolor di cuore, collera o banale mal di pancia (mestruazioni) mi aggroviglia dentro.
— Che cosa ti succede?
La sua voce ha un tono genuinamente preoccupato. Il tono più pericoloso: trappola per topi. — Niente, non ho niente. È solo che non ho voglia di parlare con lei.
Alza le spalle. — D’accordo. Però era un buon modo per passare il tempo prima di partire. — E tutto di fila, senza pausa preliminare per mettermi sull’avviso mi chiede: — Dove va?
Sono scema, non bella, ma scema di certo. A domanda rispondo senza innestare il cervello. E rispondo: — Parigi.
— Bello, anch’io. Potremmo incontrarci.
— Non mi fermo a Parigi. — È la sua espressione a costringermi ad aggiungere. — Fuori Parigi. Saint-Germain-en-Laye.
— Di novembre? — Mi scruta. E, imprevisto, mi lancia contro il nome dell’Hotel dove Umberto ha prenotato. Anzi lui ha scelto l’Hotel, ma l’ho prenotato io. Riservatezza.
Come il giochetto di partire separati e viaggiare separati… Ma non ho mai capito perché devo prenotare io e non lui. Quando gliel’ho chiesto mi ha risposto tranquillo: “Vuoi che dall’Hotel chiamino me se c’è qualche imprevisto? Tu vivi sola e sei libera, io no. Conosci i miei problemi.”
Non ho risposto, così lui continua: — Bel posto, ma non di novembre, però. A chi piace il genere silenzio e raffinatezza. Personalmente preferisco un po’ più di vitalità. — Mi lancia un mezzo sorriso. — Certo che se si pensa di passare tutto il tempo in camera, fra le lenzuola, non servono altri passatempi e c’è tutta la vitalità che serve.
— Lei, lei… — Non riesco a concludere, mi sento goffa come un’anitra. Boccheggio. Vorrei che Umberto fosse qui per farlo stare zitto. Ma forse gli volterebbe le spalle dimostrandosi superiore.
E io, io che mi sono sempre difesa da sola e le mie ragioni me le sono sempre fatte in proprio… Io rimpiango di non avere un uomo accanto, un paladino!
— Basta! La smetta di importunarmi! — L’ho esclamato tanto forte che la gente vicino a noi si gira a guardarci.
Mi vergogno. Lui no. Lo picchierei. Però è un gran bell’omo.
Lo picchierei ancora più forte quando si avvicina uno in divisa: molto marziale. Io non ho occhio per le divise, fra l’altro non le sopporto, anche questo dipende dall’educazione famigliare, potrebbe essere chiunque: da vigile urbano ad agente della CIA. Si piazza fra me e l’uomo che ho preso a schiaffi. — Addetto alla sicurezza, signora. È stata importunata, signora? Desidera sporgere denuncia?
Oddio, non immaginavo che la giustizia fosse così veloce. Più veloce che al cine o alla tv.
Lancio un’occhiata al mio bell’importuno. Sembra più divertito che preoccupato. Gliela darei una bella lezione. Denuncia… Sono tentata, non poco. Ma una denuncia: come potrei spiegarla ad Umberto?
Ma cosa mi importa di lui? Ho deciso di vivere la mia vita…
Oppure no?
E una denuncia è il modo migliore per cominciare una nuova vita?
— No. — Ma è la risposta alle domande che mi sto ponendo.
— È sicura di non voler sporgere denuncia?
Tutti ci stanno guardando. — No, nessuna denuncia. Un equivoco. È stato tutto un equivoco.
— Come preferisce, signora.
Impettito, marziale più di prima, si allontana.
Siamo di nuovo a faccia a faccia, io (bella scema) e lui (bell’omo). Mi sento idiota (in carattere con bella scema), non so cosa dire. La mia reazione alle sue parole è stata eccessiva: ho scaricato su di lui collera e frustrazioni di due giorni o di cinque anni, non lo so.
Sorride (in carattere con bell’omo).
Non posso picchiarlo di nuovo, così sorrido come risposta.
— Meglio? — La sua voce è calda, amichevole.
— Meglio, lo ammetto.
— Prendiamo qualcosa insieme?
Sono tentata… Da quanto tempo non mi lascio spupazzare da uno così? Oddio devo andare molto ma molto indietro, fino alle reincarnazioni precedenti… Che poi quando si sente di una che scopre di aver vissuto vite precedenti, mai, ma dico mai che fosse una qualunque (casalinga, contadina, impiegata…), no! Ballerina, attrice, cortigiana… Che questa me la spieghino.
Così, dicevo, sono tentata. Ma no, meglio di no: non sono ancora abbastanza forte per buttarmi. — Il mio aereo lo chiamano fra poco.
Sorride di nuovo prima di aggiungere: — Sarà per un’altra volta.
La mia boccaccia si apre e chiude da sola: — E così le è andata buca. — Non sono proprio riuscita a trattenermi. Mi succede spesso. Umberto diceva che parlavo senza pensare. Secondo i miei dico “pane al pane e vino al vino”. (frase di famiglia Arnolfini)
— Vuoi avere l’ultima parola, cocchina? E se invece ti dico che ho ottenuto quello che volevo?
E se ne va.
Che passo, che andatura! Burt Lancaster versione Massai in “L’ultimo Apache” (film preferito di Lucy, che ci piangeva sempre). Anche da dietro è un bell’omo. He’s rather kitsch but he’s really worth a kiss!
Una storia iniziata così forse non sarebbe stata noiosa. Il buon giorno si vede dal mattino…
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