Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta nell’antologia Genova Criminale. È il primo tentativo della coppia Teresa Maritano e Marco Ardini.
Sento la necessità di spiegare come è nato.
Nel 2012 era arrivata una storia, avevo già scritto una dozzina di Mariani e il primo tentativo era stato andare sul sicuro. Dopo pochi capitoli avevo capito che, usando come investigatore il mio solito commissario la storia non girava bene. Quindi avrei trovato personaggi nuovi.
Tanti miei colleghi usavano narratore onnisciente e tempo passato. Così avevo scritto la mia storia: non mi piaceva. Vi risparmio le numerose riscritture cambiando tempi e punti di vista. Mentre lavoravo i Mariani e scrivevo altro.
Quando nel 2014 mi era stato chiesto un racconto lungo ambientato a Genova in cui comparisse come semplice comparsa un extracomunitario nigeriano, avevo deciso di usare Ardini e Maritano. Ed era nato FERITE.
Scritto al presente e punto di vista parziale (anzi io narrante) commissario Ardini.
Soltanto rileggendolo avevo capito che avevo sbagliato prospettiva: sì al presente, sì un punto di vista parziale (anzi io narrante), ma quello di Teresa Maritano.
Nell’estate 2015 avevo ripreso il romanzo che sarebbe diventato Maritano 1, cioè “Nessun ricordo muore” e che nel mio file era “Snake”.
Il lunedì dopo la Fiera di Sant’Agata, che si tiene a Genova il primo week-end di febbraio, viene trovato in piazza Manzoni, nascosto dai cassonetti dell’abbondante spazzatura, il corpo di una donna. Una barbona. Di nome Antonietta Cavanna, nota nel quartiere come Catainin.
Un vecchio braccialetto d’argentone ritrovato da un ambulante nigeriano fornisce la prima traccia che porta a individuare, forse, chi ha ucciso. No, chi ha picchiato tanto da uccidere!
Ma perché ha ucciso?
Come in tutte le storie Maritano, anche se in questa l’io narrante è Ardini, la risposta alle domande del presente è nel passato. In questo racconto è negli anni di piombo.
CAPITOLO 1
Subito, senza aspettare le nostre domande, ha ammesso la propria colpevolezza.
La rapidità, quasi imbarazzante, con cui ha dichiarato di aver ucciso Cavanna Antonietta, nota come Catainin, ha lavorato lentamente dentro di me cominciando a suscitare dubbi: diffido del troppo semplice quanto del troppo complesso.
Che non abbia sentito minimamente il bisogno di mettere le mani avanti per fornirsi di adeguate attenuanti, perché qualcuna avrebbe potuto trovarla, e abbia detto, a denti stretti, soltanto quella parola, “feccia”, ecco mi indispone al punto da impedirmi di chiudere il caso.
Sì, devo ricostruire tutti i passi che mi hanno condotto a chi ha ucciso Catainin.
La tramontana tesa e gelida che arrivava dall’Appennino alla valle del Bisagno portando sapore di neve fino all’altezza del Ponte di Sant’Agata, non aveva scoraggiato i genovesi dal fare un giro fra i banchi della Fiera.
Il corpo è stato trovato nelle primissime ore del giorno successivo alla Fiera, dietro una fila di cassonetti della spazzatura posizionati fra piazza Manzoni e corso Galilei, a pochi metri dal Ponte di Sant’Agata.
Ponte? Soltanto i genovesi chiamano così le poche arcate rimaste di un ponte sopravvissuto per secoli e ferito in modo irreparabile dalla grande alluvione del ’70.
Sul primo momento gli addetti dell’AMIU hanno pensato che quel fagotto di stracci fosse soltanto un barbone addormentato al riparo della fila di cassonetti e degli abbondanti rifiuti della Fiera.
Hanno dichiarato di averlo scosso, senza successo. Dovevano lavorare e quella era la zona di sporco difficile perché, se nelle vie vicine c’erano i banchi di merci varie, in piazza Manzoni esponevano i vivaisti e quindi piante e attrezzatura per giardinaggio: “tutte cose che sporcano”. Dovevano lavorare e quindi hanno messo da parte la delicatezza e l’hanno tirato su.
E hanno capito che era una donna e che era morta.
E noi siamo intervenuti a questo punto.
L’autopsia ha confermato quanto avevo capito per esperienza, notando ecchimosi al torace e agli arti superiori: non si era trattato di morte naturale, perché una costola rotta aveva perforato l’aorta e il decesso era sopravvenuto per dissanguamento. Probabilmente la donna era stata picchiata ed erano state le percosse la causa prima della sua morte.
Non un bel modo per morire.
Era barbona, o clochard come aveva scritto l’unico cronista che le aveva dedicato un trafiletto, ma aveva documenti in ordine. Cavanna Antonietta, nata a Genova, quartiere di Staglieno, nel ’52. Senza fissa dimora.
Precedenti penali: una condanna nel ’72 per violenze e resistenza a pubblico ufficiale durante una manifestazione non autorizzata. Da allora era cominciata un’inarrestabile discesa che aveva portato a vivere nella strada una figlia di modesti operai che si pagava gli studi universitari lavorando come commessa.
La sua morte non ha suscitato alcun interesse, come la sua vita del resto.
Gli oggetti personali della Cavanna, i quattro stracci che portava addosso, sono stati esaminati e non hanno fornito indicazioni utili.
Li ho controllati anch’io, anche se già erano stati repertati dalla Scientifica. Soltanto il braccialetto che portava al polso, ben nascosto da strati di maglie di colore e tessuto indefinibile, mi è sembrato incongruo.
Rigido, di argentone lavorato a sbalzo. Non di valore ma di fattura accurata. Pulito e lucido.
Secondo la Scientifica è un oggetto degli anni Settanta, quando l’etnico era di moda.
Soltanto per curiosità mia ho chiesto di controllare i documenti relativi al suo arresto e alla presa in carico dalla polizia penitenziaria: la Cavanna era già in possesso del braccialetto.
Forse era un ricordo di tempi più felici.
Tutta l’indagine è stata banale routine. Le domande ai volontari dei centri di accoglienza e agli altri barboni hanno avuto risposte sostanzialmente unanimi: Cavanna Antonietta, nota come Catainin, non aveva amici, stava per conto proprio, chiusa in un guscio di silenzio. Qualcuno la riteneva fuori di testa.
Soltanto un volontario ha raccontato qualcosa di interessante, forse.
– L’ho vista in Corso Sardegna.
– Può essere più preciso?
– Verso piazza Giusti… A monte di piazza Giusti. – Ha chiuso gli occhi come per rivedere la scena. – Dalla Banca, la Sanpaolo. Erano passate da poco le undici, le undici di sera. Abito in via Tortosa, sono uscito alle undici, ed ero sul bus…
– Era sola?
– L’ho vista salire su un’auto. Mi è sembrato strano perché nessuno dà passaggi a quelle come lei.
– Ricorda la targa?
– No, non l’ho vista.
– Colore, modello?
– Scura, monovolume. Mi dispiace ma non ho occhio per le auto.
– Ma se la vedesse saprebbe riconoscerla?
– Sì, forse.
– Al volante c’era un uomo o una donna?
– Non saprei, era buio. Ed è stato un attimo, poco più.
Sperando in una traccia utile, ho perso un po’ di tempo a visionare le registrazioni della sorveglianza davanti alla Sanpaolo. In uno spezzone si vede abbastanza bene la Cavanna, infagottata nei suoi stracci, con la sacca a bandoliera, mentre si dirige verso un’auto ferma. La targa non è inquadrata e neppure la persona al volante. Per i nostri esperti è una Audi, probabilmente una A1. Controllare anche soltanto tutte quelle immatricolate a Genova sarebbe un lavoro lungo. Per una traccia, probabilmente inutile. E per una barbona…
Si è accostata a un’auto per chiedere l’elemosina e uno l’ha fatta salire e poi l’ha uccisa? No, che non ci sia in giro uno che si diverte a “ripulire” la città!
L’alternativa, un appuntamento, è però poco probabile.
Dopo due settimane di indagini sto già accantonando il caso quando ricevo la telefonata.
Non sulla mia linea diretta ma tramite centralino. Chiedo chi è e quando sento il nome torno indietro di due anni.
Che proprio lei voglia parlarmi è una sorpresa. Ordino di passarmela.
– Cosa vuoi?
– Chi si occupa della donna uccisa a Sant’Agata?
– Io.
– Lei, la donna uccisa, era con un’altra.
La interrompo: – Ho già interrogato tutti quelli della zona, con nessuno aveva legato.
– Una donna elegante. E le parlava come se la conoscesse.
– Come lo sai?
– Lo so, tanto ti basti.
– Se hai da dire, sai dove trovarmi – le rispondo, brusco.
– Se hai da sentire, sai dove trovarmi – è la sua replica prima di chiudere la comunicazione.
“Se hai da sentire, sai dove trovarmi”. Tipica risposta da Maritano Teresa, l’unica che mi aveva sempre tenuto testa e che non ero riuscito a trasformare in una mia appendice. Era stata uno degli ispettori della mia squadra e aveva rassegnato le dimissioni, in verità se ne era andata sbattendo la porta.
La conosco abbastanza da sapere che se voglio le informazioni devo stare al suo gioco o, almeno, fingerlo abbastanza bene.
Non ho scelta, arrivo in piazza Manzoni, dove la tramontana taglia la faccia. Entro nel bar immaginando di trovarla, ma lo sconosciuto dietro il bancone, rispondendo al mio “dove è la padrona?”, mi dice che arriverà fra poco.
Anche questo fa parte del suo gioco: dirmi di raggiungerla e non farsi trovare. È il suo modo per chiarire che non sono il suo padrone.
Torno fuori e poco dopo la vedo arrivare. In motorino e con due sciarpe, una rossa e l’altra gialla, ben avvolte intorno alla gola. Quando era nella mia squadra, spesso le avevo consigliato colori meno vistosi, già i suoi capelli rosso fiamma non passavano inosservati… Aveva alzato le spalle, “mi vesto come voglio”. A letto mi aveva chiesto perché vesto sempre di grigio e non le avevo risposto.
Continuo ad acquistare e indossare indumenti grigi e lei è sempre più colorata! Una macchia brillante nel grigio della piazza. Mi guarda e senza neppure un cenno entra nel suo bar.
Poco dopo l’uomo che ho trovato dietro il bancone esce e io entro.
– Chi è? – e subito rimangerei la domanda.
– Ti riguarda?
– Solo per sapere. – Perché si deve sempre finire quanto si è iniziato.
– Uno che mi aiuta, qualche pausa devo prendermela.
Si accosta alla macchina del caffè.
Non ho tempo da perdere con i suoi giochetti e le ordino di dirmi.
– Per favore – e mette soltanto una tazza sotto il beccuccio della macchina.
– Per favore. E uno anche per me, ristretto.
– Il caffè non è incluso nell’informazione. Prendilo da un’altra parte.
– Esercizio pubblico – posando un euro sul bancone. – Ristretto.
Mi mette davanti un caffè così lungo come non ne ho mai visti; lo sposto senza neppure assaggiarne un sorso. – Allora?
Con calma prende la tazzina ancora piena, la vuota e la mette in lavastoviglie. Posa lo scontrino fiscale sul bancone, poi: – La donna uccisa è stata vista parlare con un’altra. Non più giovane, ma vestita come se lo fosse. Moncler rosa e borsa Vuitton, non taroccata.
– Non taroccata?
– La mia fonte si intende di merce taroccata.
E quindi è un ambulante che la stessa merce la maneggia abbastanza spesso. – Capisco. Sai come trovarla?
– Forse…
Quindi hai provato e hai fallito perché ti manca il tesserino.
Mi guarda con una specie di odio, quindi ho indovinato: ha cercato di indagare da sola e ha dovuto fermarsi. Per lei è una specie di gioco o un modo per farmi pagare “le mie colpe”, ma io non ho tempo da perdere con i contrasti che le circostanze del passato hanno accumulato fra noi.
Tea ha detto di sapere qualcosa di importante sulla donna che è stata uccisa poco lontano dal suo bar; nonostante i suoi difetti era un ottimo elemento, quindi insisto: – Fonte attendibile?
Risponde al mio gesto, con uno ancora più rabbioso: – E vieni a chiederlo proprio a me che sono stata ritenuta “non attendibile” quando ho denunciato dei colleghi per abusi? E non sono stata difesa dal mio superiore diretto?
– Fonte attendibile? – senza risponderle perché non è il momento di chiarire i motivi per cui, allora, non l’avevo difesa.
– Se ti ho chiamato, è soltanto per la povera Catainin che non meritava di finire i suoi giorni dietro una fila di cassonetti della rumenta.
– Ed è inutile che ti chieda l’identità della fonte.
– Come sei diventato perspicace!
– Per quanto hai intenzione di gingillarti?
– Un po’ di attesa non ti farà male.
La cicatrice sul polso destro comincia a bruciare, come sempre quando fatico a controllarmi. Noto la sua occhiata: ha colto il gesto veloce, inconscio, con cui ho cominciato a toccare la striscia di pelle appena raggrinzita. Molte volte, spesso mentre eravamo a letto insieme, aveva chiesto come me l’ero procurata, mai le avevo risposto.
Anche oggi ignoro la sua occhiata e alzo le spalle. – Quindi non mi dirai tutto quello che sai – perché la conosco abbastanza da sapere che mi dirà quello che vorrà e quando vorrà.
– Ha fatto acquisti al banco del cachemire – e aggiunge nome e indirizzo del laboratorio. – Aveva un sacchetto con il loro logo e le hanno anche preso delle misure, quindi ha ordinato merce…
– Quindi ha lasciato caparra e indirizzo, almeno un recapito telefonico. Non hai perso la mano, Tea.
– Maritano Teresa per te, anzi signora Maritano.
– Ho l’auto qui fuori – senza aggiungere “se vuoi venire”, perché so che è superfluo.
In cinque minuti ha chiuso il bar, poco più del tempo che ho impiegato ad avviare l’auto e a fare inversione di marcia.
In un quarto d’ora siamo arrivati a Quinto.
Le prime parole le dico mentre siamo a un passo dal laboratorio. – Parlo io.
– Come comanda, commissario Ardini – ed è una parodia di quanto spesso aveva detto quando era nella mia squadra.
La commessa l’ha guardata, incerta, probabilmente riconoscendo nella donna che è con me e di cui non le ho comunicato nome o qualifica la stessa che deve essere già andata a porle domande. Ma il mio tesserino ha smorzato ogni curiosità e pochi minuti dopo ho nome, telefono e indirizzo della donna con Moncler rosa e borsa Vuitton non taroccata: Selvia Adele.
Stiamo già uscendo quando Tea si impunta e, contravvenendo al mio ordine esplicito, chiede: – Perché ha ordinato capi su misura? Avrete portato un discreto assortimento e lei era di corporatura regolare…
Lo sguardo della commessa si sposta su di me come per chiedere se deve rispondere.
Faccio soltanto un breve cenno d’assenso.
– Due pullover, uno cammello e l’altro perla. Li confezioniamo con le mezze maniche, li aveva ordinati con le maniche lunghe. Il terzo, da uomo, l’aveva acquistato come era.
– È una richiesta frequente? – insiste Tea.
– No, sono capi già di inizio primavera, in cachemire a due fili. Vanno di più le mezze maniche.
– Quindi ha preso la misura del braccio?
– Sì, è ovvio.
Siamo usciti e ci siamo diretti verso la mia auto. Apro e le faccio segno di entrare.
– Sicura che fosse con Cavanna Antonietta?
– Cavanna Antonietta?
– La donna uccisa.
– I quotidiani non hanno riportato l’identità di Catainin.
– Di scarso interesse. Allora, era con lei?
Mi lancia un’occhiata sbieca, si avvolge meglio nelle sue sciarpe troppo sgargianti. – Comunque, la risposta è sì: era con Cavanna Antonietta.
Apro il cellulare e chiedo di controllare i dati relativi a Selvia Adele. – Resto in linea.
Dieci minuti dopo ho la conferma che Selvia Adele è residente in via Guerrazzi, come riferito dalla commessa. Nata a Genova, nel ’52, quartiere Albaro. Coniugata con Tumiati Stefano, ragioniere commercialista.
Avvio l’auto e mi dirigo verso il centro. Arrivato all’incrocio fra via Boselli e via Guerrazzi, accosto e le dico di scendere.
– No.
– Non è come andare a parlare con una commessa. Tu chi sei? Niente.
Esce e sbatte la portiera. Che si crogioli nelle sue collere, mi dico.
Mi ha aperto una cameriera, lei arriva poco dopo.
Porta molto bene i suoi anni, forse c’è stato qualche ritocco estetico ma con misura. La camicia chiara con il colletto appena rialzato ingentilisce il viso, i pantaloni impeccabili mostrano un fisico ancora asciutto e tonico.
– In cosa posso esserle utile, commissario?
– Dovrei porle alcune domande.
– E risponderò da brava cittadina.
– È stata alla Fiera di sant’Agata?
– Sì, un’abitudine di quando ero bambina e andavo con mia madre. Non tutti gli anni, ma quando il tempo è buono e non ho impegni cedo alla tentazione.
In quel momento entra un uomo che si presenta come il marito. Non dice altro e si limita passarle un braccio attorno alle spalle, come per sostenerla. – Continui pure, commissario, come se io non ci fossi.
Così riprendo a chiedere: – Ha ordinato dei capi in cachemire?
– Ma sì, anche quella una tradizione di famiglia. Mai andare alla Fiera e non acquistare nulla! Ma c’era tanta paccottiglia… Insomma, cose scadenti. Quel banco era l’unico con capi abbastanza belli. Avevo già deciso di allungare fino a piazza Manzoni per acquistare almeno una pianta, per la tradizione, quando l’ho visto, mi sono fermata e ho ordinato. Soprattutto per risparmiarmi la tramontana. E lui – indica il marito – aveva insistito per accompagnarmi, anche se la sera stessa doveva partire. Ecco, non volevo trattenerlo alla Fiera più dell’indispensabile. No – sorride – non gli piace la confusione.
– Capisco.
– Immagino che siano stati quelli del laboratorio a darle il mio nome e indirizzo, ma non ne capisco il motivo.
Invece di rispondere alla sua implicita domanda, continuo a chiedere: – Mentre era dal banco, ha parlato con qualcuno?
– Sì, la commessa.
– Nessun altro?
– Non so, non mi pare… C’era più ressa dai banchi con merce da poco prezzo. – Guarda il marito che conferma con un assenso.
– Una donna… Una barbona…
È lui a rispondere: – Non hanno parlato, commissario. Quando quella si è avvicinata, mia moglie le ha messo in mano cinque euro, soltanto per togliersela di torno.
– Ed è andata via?
Di nuovo lo guarda. – Non saprei. La commessa mi stava prendendo le misure, avevo sfilato il Moncler e l’avevo posato sul bancone. Lo tenevo d’occhio.
– Capisco. Perché un capo su misura? Mi sembra che non ne abbia bisogno, signora.
– Soltanto le maniche lunghe invece che corte. Ma lo avrà saputo dalla commessa.
È lui ad aggiungere che la moglie soffre il freddo soprattutto alle braccia. Eppure, lei indossa una camicia di seta e una specie di gilet, non un pullover con le maniche lunghe.
Sto guidando verso il centro quando devio verso piazza Manzoni, perché glielo devo.
Entro nel bar e aspetto che i clienti siano usciti prima di accostarmi al bancone.
– Era alla Fiera, ma dice di averle soltanto dato l’elemosina perché si togliesse dai piedi.
– A me è stato riferito che hanno parlato parecchio…
– Chi te l’ha riferito?
Resta in silenzio.
– Sicura?
– Sicura. Mi è stato raccontato che la donna del Moncler, la Selvia, giocherellava con il braccialetto, mentre Catainin le parlava.
– Il braccialetto l’abbiamo trovato, l’aveva indosso.
Mi guarda come se fossi pazzo, poi da sotto il banco prende un involto. – Non potete averlo trovato voi. È questo.
Lo apro: un braccialetto identico a quello trovato al braccio di Cavanna Antonietta. – Forse dovremmo spiegarci.
Così mi ha raccontato di un ambulante senegalese di cui sa soltanto il nome, Mamadou, e che gira per Genova e Riviere. – È qui da tanti anni, arrivato in cerca di una fortuna che non ha trovato. Parla bene l’italiano, anche il genovese, meglio di te.
– Attendibile?
– Perché venirmi a cercare e a raccontarmi tutto? Ha visto Catainin con la donna del Moncler, ha raccolto il braccialetto…
– Perché non me l’hai consegnato subito?
– L’ho imparato da te, commissario Ardini. Mai rivelare tutto. – Sorride soltanto per un attimo, poi: – Non erano due estranee.
Sono ritornato in via Guerrazzi da Selvia Antonietta.
È sembrata stupita di rivedermi, ma forse in modo troppo vistoso. C’è il marito, come la volta precedente.
Lei mi ha preceduto nel soggiorno, mi ha indicato una poltrona, poi ha preso posto sul divano. Il marito le si è seduto accanto e le ha posato una mano sul braccio. Soltanto in quel momento ho notato che lo muove con difficoltà… I pullover con le maniche lunghe…
Ma so che ognuno ha i suoi problemi, non è neppure tanto giovane.
Dalla tasca tolgo il braccialetto che mi ha consegnato Tea e glielo mostro. – Volevo chiederle se è suo, signora.
Sorride, di colpo, con calore. – Sì! Dove è stato trovato? Sapevo di averlo perso alla Fiera, forse mentre mi prendevano le misure. – Guarda il marito. – Ti ricordi? Quando mi sono accorta di non averlo, hai detto che forse l’avevo lasciato a casa. L’ho cercato. Come avete capito che è mio? La commessa, l’avrà trovato la commessa…
Non rispondo all’implicita domanda, lasciandola aleggiare per qualche minuto mentre il marito le stringe una mano: – Tranquilla, cara. Ora l’hai ritrovato, è questo che conta.
Li guardo, vedendo una coppia sposata da quasi quarant’anni con due figli grandi, eppure sembrano ragazzini, lui così protettivo! Come se lei fosse malata o debole. A me sembra in buona salute e abbastanza forte, però in ogni coppia ci sono dei ruoli ben definiti: nella loro, forse lei si fa credere bisognosa di sostegno, forse è lui a volerla immaginare così.
Non mi riguarda e continuo: – Mi sembra che per lei, signora, sia importante averlo ritrovato, anche se non è di gran valore.
Mi interrompe di slancio. – Ma lo è! Uno dei miei ricordi più cari. Della mia giovinezza.
Si è tesa in avanti per riprenderlo, ma con calma lo sposto. – Più tardi.
– È un caro ricordo… – E, mentre parla, ancora lui le stringe la mano come per sostegno o per spingerla a controllarsi.
– Alla Fiera, mentre era al banco del cachemire, ha incontrato una donna.
– Mia moglie gliel’ha spiegato. Una barbona che chiedeva l’elemosina, gliel’ha data. E poi, a casa, quando non ha più trovato il braccialetto, ha anche pensato che le fosse stato rubato.
– Quella donna è stata uccisa. Proprio la sera stessa, appena finita la Fiera; il corpo è stato ritrovato la mattina seguente, fra i rifiuti.
– L’aveva lei il mio braccialetto?
Ma lui la interrompe. – Sì, abbiamo letto la notizia sui quotidiani, forse c’era anche una foto. Ma sono tutte uguali, commissario.
Neppure lo guardo e mi rivolgo alla moglie. – Sì, signora, aveva un braccialetto. Ma non questo, uno identico, e lo portava al polso quando è stata ritrovata morta.
Salta su, di scatto, mentre lui cerca inutilmente di trattenerla: – Ietta! Era Ietta! Eppure, ci siamo parlate, mi ha chiesto “come stai, signora?” e le ho risposto che stavo bene. “Sono contenta, tanto contenta”, ha detto. Aveva anche cattivo odore e le ho messo in mano un biglietto da cinque euro, per togliermela di torno. Ma non è stato facile. “Sei sola?” ha insistito. “Sono con mio marito” e ho indicato Stefano, sperando che si decidesse ad andarsene. Forse sapendo che c’era un uomo con me l’avrebbe fatto. – Prende fiato. – Perché non l’ho riconosciuta? – Lacrime improvvise le rigano le guance, mentre il marito si alza e la stringe fra le braccia. – Ietta! Ti ricordi, Stefano, quanto ti ho parlato di lei! E l’ho tanto cercata, ma non ne ho più saputo niente. Ma perché non l’ho riconosciuta? E così l’aveva ancora… Anche lei l’aveva conservato. Stefano, l’aveva conservato anche lei, dopo tanti anni.
Lui mi guarda, tenendola fra le braccia. – Lo vede, mia moglie è molto scossa. Le chiederei di lasciarci soli…
– È stata uccisa una donna, signor Tumiati, vorrei scoprire chi l’ha uccisa e perché.
– Mia moglie non c’entra, sarà stato un balordo, uno come lei. – Poi si rivolge alla moglie, con il tono paziente che certi adulti riescono ad avere con i bambini capricciosi o malati: – Lo so, cara, un tempo era tua amica, ma sono passati anni e le persone cambiano.
Lei si libera dal suo abbraccio. – A poche persone ho voluto bene come a Ietta. Non era una balorda. – Mi guarda. – Nel ’70, ci siamo conosciute nel ’70, proprio lì, vicino al Ponte di sant’Agata. Dopo l’alluvione, a spalare fango. Ero andata, come tanti, ma non sapevo tenere una pala in mano, è stata lei a insegnarmi come fare, invece di ridere della ragazza della “Genova bene”. Siamo state inseparabili.
E ricomincia a piangere.
– Calmati, cara. È passata, ricordala come era. – Si rivolge a me: – Mi dispiace molto, commissario, ma mia moglie non può esserle d’aiuto per scoprire chi ha ucciso quella donna.
Quando sono arrivato, con il braccialetto in tasca, credevo che fosse una buona traccia. Ho soltanto sconvolto una donna, forse fragile.
Devo ricominciare tutto di nuovo.
Ho sulla scrivania due foto della stessa donna: Cavanna Antonietta ventenne e nell’ultimo documento di identità.
La vita l’ha cambiata. L’ha cambiata tanto da renderla irriconoscibile a un’amica così cara?
Soltanto perché è routine ho chiesto di avere altre informazioni su Selvia Adele, perché conosceva la vittima, anche se da molti anni non avevano più contatti e i loro mondi erano diversi. E anche perché l’aveva incontrata poche ore prima del delitto.
Sto aspettando quando dal centralino segnalano che Maritano Teresa desidera parlarmi.
Pochi attimi dopo la sua voce, rabbiosa, mi chiede se ho ricavato qualcosa dal braccialetto.
Le rispondo con una domanda: – Sei in piazza? – perché non mi piace discutere di un caso per telefono. Soltanto per quel motivo. No, non ho alcun desiderio di vederla.
– Sto chiudendo.
– Aspettami.
Sto uscendo per raggiungere piazza Manzoni quando mi vengono consegnati altri dati relativi a Selvia Adele, dati chiesti soltanto per routine! È proprietaria di una Audi A1, nero profondo.
Un caso? Forse, ma è improbabile.
Forse le due amiche hanno deciso di incontrarsi. Il marito della Selvia era via e lei, probabilmente, era sola in casa.
E per la terza volta ritorno in via Guerrazzi, non da solo, ma con un ispettore.
Forse quell’incontro durante la Fiera di sant’Agata, accanto al banco del cachemire, è avvenuto in modo completamente diverso da come mi è stato raccontato dall’unica sopravvissuta.
Adele è benestante, Antonietta è una barbona. Tanti anni fa erano amiche e le amiche si raccontano segreti.
Se Antonietta avesse minacciato Adele di divulgare qualcosa…
Selvia Adele può aver ben recitato davanti a me la sua parte di donna fragile, distrutta dalla morte della vecchia amica e ancor più dal non averla riconosciuta. Può aver ucciso per farla tacere.
È il marito ad aprirmi e a comunicarmi che “Adele non è in casa.”
– A sua moglie è intestata un’Audi A1 nera?
Annuisce. – Sì, è un’ottima auto, si guida bene.
– Dovrei interrogare sua moglie, sa dove posso trovarla? E dovremmo anche prendere in carico l’auto per repertarla.
– È a Chiavari, nostra figlia è venuta a prenderla… – Si interrompe, come un inciampo. E continua in fretta: – Repertarla? E perché?
– Riteniamo che sua moglie si sia incontrata con Cavanna Antonietta poco prima dell’omicidio e l’abbia fatta salire sulla propria auto.
Siamo nello stesso soggiorno dove già sono venuto altre due volte, ma oggi sono rimasto in piedi.
Come lui.
È zitto, immobile, come lontano nel tempo e nello spazio.
– Signor Tumiati?
– Sì? – mi guarda, smarrito.
– Ho le autorizzazioni per prelevare l’auto. E devo interrogare sua moglie.
Si china, sprimaccia un cuscino del divano su cui forse era seduto quando siamo arrivati. – Posso darvi le chiavi, è nel box. Non sarà necessario interrogare la mia Adele. Ho fatto salire io quella donna. E sono stato io a colpirla. Poi ho nascosto il corpo.
Non ha detto altro. Ci ha seguiti con una docilità rassegnata, ma non ha detto altro. Nessuna indicazione del movente.
Ha ripetuto sempre le stesse parole, senza aggiungere neppure un ovvio “non volevo ucciderla”. Soltanto un “feccia”, fra i denti.
L’unica richiesta che ha formulato è stata di fare in fretta.
Domani, la seconda e ultima puntata.
grazie!
Grazie a te, Marri!