La prima puntata è stata pubblicata ieri, 13 aprile 2020.

Ricordo la trama.
Il lunedì dopo la Fiera di Sant’Agata, che si tiene a Genova il primo week-end di febbraio, viene trovato in piazza Manzoni, nascosto dai cassonetti dell’abbondante spazzatura il corpo di una donna. Una barbona. Di nome Antonietta Cavanna, nota nel quartiere come Catainin.
Un vecchio braccialetto d’argentone ritrovato da un ambulante nigeriano fornisce la prima traccia che porta a individuare, forse, chi ha ucciso. No, chi ha picchiato tanto da uccidere!
Ma perché ha ucciso?
Come in tutte le storie Maritano, anche se in questa l’io narrante è Ardini, la risposta alle domande del presente è nel passato. In questo racconto è negli anni di piombo.

CAPITOLO 2

La rapidità, quasi imbarazzante, con cui Tumiati Stefano ha dichiarato di aver ucciso Cavanna Antonietta, nota come Catainin, ha lavorato lentamente dentro di me cominciando a suscitare dubbi: diffido del troppo semplice non meno che del troppo complesso.
Che non abbia sentito minimamente la necessità di mettere le mani avanti per fornirsi di adeguate attenuanti, perché qualcuna avrebbe potrebbe trovarla, e abbia detto, a denti stretti, soltanto quella parola, “feccia”, ecco mi indispone al punto da impedirmi di chiudere il caso.
Perché ho un colpevole, ma non ho il movente.

Sono arrivato in piazza Manzoni, sono entrato nel bar e ho aspettato che mettesse alla porta un cartello con scritto CHIUSO.
– Il marito ha confessato.
– Il marito?
– Tumiati Stefano, il marito di Selvia Adele.
– Movente? – mi incalza, ponendomi le medesime domande che mi tormentano.
Vorrei rispondere in fretta con un “non lo so”, e sarebbe vero, ma finisco per dire altro, ed è per questo sfogo che sono venuto: – Nessuna traccia.
– Pensi che sia stata la moglie a uccidere e lui si accusi per salvarla?
– Nessuno dei due ha un alibi, nell’auto ci sono tracce della presenza della Cavanna. Se per lei riesco ancora a immaginare un movente… Ma lui neppure la conosceva!
– Perché la Selvia avrebbe dovuto ucciderla?
Anch’io mi sono posto la medesima domanda e ho trovato soltanto una possibile risposta. – Sono state amiche per anni, dal ’70 al ’72, forse la Cavanna conosceva qualche segreto nel passato della Selvia. Ognuno ha qualche scheletro nell’armadio.
Posa i gomiti sul bancone e il viso sulle mani strette a pugno. – A volte veniva Catainin per qualcosa di caldo, le piaceva la cioccolata densa e fumante, non troppo dolce. Aspettava che non ci fossero altri clienti ed entrava. – Una pausa. – Come fai tu, commissario Ardini. Non mi ha mai detto niente di sé, non sapevo neppure il suo vero nome. Si metteva in un angolo per non disturbare, teneva la tazza fra le mani come per assorbirne tutto il calore. E, ogni volta, mi ringraziava. Catainin non avrebbe mai minacciato un’amica né rivelato un segreto.
– Ma forse l’amica l’ha creduto possibile.
– Se l’ha creduto, allora non la conosceva.
– Forse ha avuto paura…
– E allora indaga sugli anni in cui sono state amiche, commissario Ardini. Amiche al punto da conservare due braccialetti identici. La Selvia poteva permettersi molto di meglio e Catainin non se ne è mai separata. Sai quando si sono conosciute, in occasione della grande alluvione del ’70, quella che ha distrutto il Ponte di Sant’Agata – e con un gesto accenna al rudere poco lontano. – Ma i dettagli sulla fine della loro amicizia li hai?
– So soltanto quello che ha raccontato la Selvia, che lei era malata e quando è guarita ha cercato inutilmente la Cavanna. Che è stata in carcere dal ’72 al ’75.
– Motivo?
– Violenza aggravata. Dagli atti processuali risulta che è stata coinvolta in una rissa fra estremisti di sinistra e di destra e ha preso a sprangate anche un carabiniere che cercava di separarli. Processo per direttissima, cinque anni, ma è uscita prima per buona condotta. – Mi alzo. – Cercherò di saperne qualcosa di più. Perché sembra che da allora tutta la sua vita sia stata uno scivolare verso la strada e l’accattonaggio. All’epoca dell’arresto aveva già alle spalle due anni di università – prevengo la sua domanda – ed era in regola con gli esami.

Viviani Alberto, il carabiniere che nel ’72 era stato preso a sprangate dalla Selvia e che allora aveva soltanto cinque anni più di lei ora è maresciallo ed è in servizio a Busalla.
– Sì, ricordo quel giorno, commissario. Era febbraio, una giornata fredda…
– Dagli atti risulta che lei, maresciallo, non era in servizio.
– No, stavo andando alla stazione. Avevo avuto due giorni di permesso per andare al mio paese, nelle Marche; un parente era stato operato. Ero sul filobus, il 38, che transitava in via Giacometti quando ho visto un tafferuglio: una trentina di giovani si stavano picchiando. Il dovere di un carabiniere è ristabilire l’ordine, ho ordinato all’autista di fermarsi, sono accorso e ho cercato di dividerli. Mi sono messo in mezzo e una ragazza mi ha colpito alla testa con una spranga, per fortuna senza gravi conseguenze.
– Risulta che lei abbia riconosciuto la ragazza.
– Sì, senza ombra di dubbio.
– Ho letto gli atti processuali, ma non riesco a visualizzare la scena.
– Abbastanza semplice e comune, purtroppo, in quegli anni.
– Sono troppo giovane per averli vissuti. Se potesse descrivere quello che ha visto.
– Un giovane con una spranga. A terra c’era una ragazza. Accanto a lei un’altra. L’ho vista alzarsi, strappare la spranga dalle mani del giovane e sollevarla per colpirlo. Mi sono messo in mezzo e sono stato colpito. Mi sono svegliato in ospedale.
– Il giovane? Ha riconosciuto anche lui? – Ho letto gli atti processuali, ma non sempre tutto viene riportato.
– No, fra i fermati lui non c’era, qualcuno deve essere riuscito a scappare prima che arrivassero i colleghi.
– L’altra ragazza, quella rimasta a terra?
– Non so, in viso non l’ho vista. Penso che sia stata medicata anche lei. Aveva del sangue addosso.

Sono ritornato verso Genova. Non ho ricordi dei primi anni settanta. Ne so quello che mi hanno raccontato, quello che ho letto. Dal racconto del carabiniere, ora maresciallo, sembra probabile che Cavanna Antonietta abbia cercato di colpire un giovane di un’opposta fazione, forse per difendere una compagna, e abbia invece ferito, non gravemente, il Viviani.
Guidando ripenso a quanto ho letto.
Anni di occupazioni delle facoltà, battaglie estemporanee, improvvise e spesso violente fra estremisti di destra e di sinistra. Un gruppo di sinistra sta distribuendo volantini e viene attaccato da uno di destra. Non volano soltanto insulti e calci e pugni, ma si impugnano spranghe e bastoni.
Entrambe le fazioni hanno accusato quella opposta di averli portati e di aver cominciato a usarli.
Ho letto le scarne dichiarazioni riportate negli atti.
Qualcuno accenna a una compagna a terra e “Ietta ha cercato di difenderla”. Ma sono accenni sfumati, sembra che nessuno abbia indagato.
Questa compagna a terra di cui non c’è traccia: ripenso all’elenco dei giovani fermati.
La ragazza a terra aveva del sangue addosso, non doveva essere poco se il carabiniere Viviani ha potuto notarlo. Per nessuna delle ragazze fermate vengono segnalate ferite importanti, soltanto ecchimosi e graffi di poco conto.
È strano che sia scomparsa così, senza lasciare traccia.

Senza pensare alle implicazioni di quanto sto facendo passo da Tea a raccontarle non le mie certezze ma i miei dubbi. Sta diventando una pericolosa abitudine questo arrivare al suo bar, aspettare una pausa e raccontare come va.
So che, se avesse voluto essere ancora un poliziotto, non si sarebbe dimessa.
Come intuendolo, dice quasi le stesse parole “Se volessi essere un poliziotto, non avrei dato le dimissioni.”
Ha ragione, ma alzo le spalle. – Le persone non cambiano, Tea. Hai reso il tesserino, ma il vizio ti è rimasto.
Resta zitta, sa che ho ragione.
– Allora, Tea, cosa ne pensi della ragazza ferita e scomparsa?
– Che tu abbia un sospetto è chiaro. Ti serve sapere che lo condivido? Penso poco. Prova a cercare.
– L’ho fatto. Niente. Diventandoci matto, ma non compare nessuna indicazione di una ragazza ferita e curata in un ospedale cittadino.
– Ma c’erano altri. E può essere stata curata non in un ospedale…

Tea non ha perso la mano. Ha ragione, gli altri!
Sono arrivato in ufficio e ho ripreso l’elenco dei fermati; mi concentro sui compagni di Cavanna Antonietta. Sei in tutto. Su ognuno chiedo informazioni.
Due sono deceduti, uno per malattia e l’altro in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine; tre hanno accantonato le smanie di gioventù, hanno continuato gli studi, si sono laureati e vivono in un’altra città.
Ma scopro che il sesto è un giornalista e vive a Genova. Ha anche scritto dei saggi su quegli anni. Ricorderà quel giorno? Quanto saranno reali i suoi ricordi o saranno modificati, abbelliti, dal tempo? Ma saranno meglio di niente.

– Sì, ricordo quel giorno, abbastanza bene.
– Ricorda la Cavanna?
Sorride e poi: – Non ci chiamavamo con il cognome, ma per nome, anzi con un soprannome. Il suo nome vero l’ho saputo soltanto quando c’è stato il processo, per noi era Ietta. La chiamava così anche la sua amica Lina.
Lina. Adele, Adelina? È una possibilità.
– C’era anche Lina quel giorno?
– Dove era Ietta, lì era Lina. Inseparabili.
– E non sa il nome vero di questa Lina?
– Come le ho spiegato non usavamo i nomi. Io ero soltanto Max, per tutti. Nessuno mi chiamava Massimiliano, tanto meno con il cognome.
– Se le mostrassi una foto…
– Posso provare, ma sono trascorsi tanti anni.
– Una foto recente.
– Ancora peggio! – ma tende una mano per prendere la foto.
È rimasto in silenzio per qualche minuto, giocando a mettere e togliere gli occhiali. – È Lina, senza dubbio. Mi piaceva, all’epoca, e non nascondo di averci provato, ma la sua disinvoltura era tutta apparenza. Non era da “libero amore”. – Ride amaro. – Una dei tanti e delle tante che per una stagione hanno giocato alla rivoluzione, per poi rientrare nei ranghi. – Riguarda la foto. – Piacente, come immaginavo che sarebbe diventata. È invecchiata meglio di me, senza dubbio. Anche della povera Ietta. – China il viso. – Ho letto della sua morte. È per questo che è venuto a cercarmi? – Non aspetta risposta e continua, posando la foto che aveva ancora fra le dita. – Povera Ietta. Piena di fuoco e finire in quel modo. Una vita buttata. Sa, non dovrei dirlo a lei, a un rappresentante della legge, ma quel processo è stato uno schifo.
Si è interrotto, forse aspettando un commento che non ho alcuna intenzione di pronunciare. Se ho opinioni su come si svolgono i processi, non lo riguardano. È lui a dover spiegare il significato del suo commento.
Forse capisce che avrà poca collaborazione, perché continua di suo: – Ho riletto tutta la documentazione disponibile per un saggio che volevo scrivere, poi quell’episodio che mi toccava troppo da vicino non l’ho riportato. Uno, uno del FUAN, aveva colpito Lina con una spranga, Ietta gliel’aveva strappata di mano e aveva cercato di colpirlo. Il carabiniere si era messo in mezzo proprio in quel momento. Sfiga.
Ed è un racconto abbastanza concorde con quello del Viviani, in più c’è il nome della ragazza, Lina. E Lina è Adele Selvia.
– Ma il nome di Lina non è fra quelli dei fermati…
– Stava male, lei l’hanno portata via in ambulanza.
– Non risulta registrata in ospedale.
Si stringe nelle spalle. – C’era molta confusione, tutti scappavano. Tutti scappavamo, veramente. Soltanto Ietta era rimasta ferma con la spranga in mano. – Dopo una pausa talmente lunga da farmi pensare che abbia finito, riprende: – Di Lina non sapevo il nome, ma che suo padre era chirurgo e anche importante l’avevo capito, dai suoi mezzi discorsi.
È un modo per darmi una traccia? Probabile. – Quindi un ricovero e una registrazione pilotata?
Mi guarda. – Sa meglio di me, commissario, che non tutto viene fatto secondo le regole. Anzi, che le regole non erano uguali per tutti. E non lo sono.
– E quindi Lina stava male?
– Aveva il viso insanguinato e anche un braccio. Non era stata una sprangata da poco. Ero a un passo e giurerei di aver sentito lo scricchiolio dell’osso.

Sono in piazza Manzoni, per parlare con Tea. In fondo, è atto dovuto. Ho aspettato che non ci fossero clienti e le ho raccontato il colloquio con Max.
– È possibile che il padre sia riuscito a evitare la registrazione, se era un pezzo grosso in ospedale – è il suo commento.
– Lo era, ho controllato. Era un chirurgo molto noto e operava anche in varie cliniche cittadine. Ma è trascorso troppo tempo, trovare qualche traccia sarà difficile.
– Chirurgo è un po’ vago… – Tea si è alzata e ha indicato la macchina del caffè.
Ne prendo troppi ma ho annuito, perché è il suo primo gesto abbastanza amichevole. – Ortopedia e traumatologia, aveva anche cattedra all’università ed era responsabile di settore al pronto soccorso.
– Quindi ti sei immaginato un possibile scenario, commissario.
– Tu cosa ne pensi, Tea?
– Il professor Selvia è di turno, un’ambulanza gli porta la figlia ferita durante uno scontro fra extraparlamentari di destra e di sinistra. La dirotta verso una clinica privata, nessuno vede, nessuno sente, nessuno parla. – Porta le due tazzine al tavolo; entrambi i caffè sono ristretti. – Cosa pensi di fare?
– Lei non sono ancora riuscita a interrogarla. Appena ha saputo del marito, ha avuto un collasso, il medico mi ha bloccato. – Parlando ho preso il pacchetto di sigarette, poi ricordando che lì è vietato, l’ho riposto in tasca. – E lei non è indagata e quindi mi ritrovo con le mani legate. Il padre è deceduto e non parlerebbe. Anche la madre.
– Figlia unica?
Butto giù il caffè in fretta, mentre sono già in piedi. – Un fratello, Selvia Alberto, cinque anni più di lei. E io sono un idiota.

Selvia Alberto ha seguito la strada del padre, anche lui chirurgo. Mi ha ricevuto e ha esordito spiegando che la sorella è molto provata, nessuno in famiglia riesce a capire i motivi del gesto di Stefano. – Un uomo tranquillo, riservato. È sempre stato vicino ad Adele, un sostegno.
Sì, vicino ad Adele: la stessa sensazione che ho provato vedendoli.
– Lo dice come se sua sorella avesse dei problemi… – e non concludo.
– Attacchi di panico, fisicamente non ha nulla, tranne la difficoltà a muovere il braccio perché, nonostante gli interventi e le cure, l’articolazione è rimasta compromessa.
– Un incidente?
– Sì, quando aveva una ventina d’anni. Un incidente ha causato la frattura dell’omero con complicanze da lesione del nervo radiale e del mediano. – Mi guarda, si passa due dita sulla fronte. – In pratica mia sorella muove con difficoltà il braccio destro, ha spesso fitte dolorose. E non si è ancora rassegnata alle cicatrici e tiene le braccia coperte.
– Cicatrici? – anch’io ho la mia, ricordo di un passato che non riesco ad archiviare. È quindi un argomento su cui sono abbastanza sensibile.
– Per l’incidente, anche per gli interventi. – Una pausa. – Ma voleva chiedermi di mio cognato.
– Risulta che si sono sposati nel ’74. Dopo l’incidente, quindi.
– L’incidente è stato nel ’72, in autunno. Si sono conosciuti dopo l’ultimo intervento, quello dell’autunno del ’73 perché per un anno è stato un andare da una clinica all’altra. Nella primavera del ’74 si sono sposati. Adele non avrebbe potuto trovare uomo migliore di Stefano.
– Ricorda che tipo di incidente?
– Non nei dettagli, mi dispiace. Fra l’altro ero lontano da Genova. Ne conosco molto bene, anche troppo, le conseguenze fisiche e psicologiche.
– In famiglia se ne sarà parlato, anche sua sorella l’avrà fatto…
– Stava male. – Si alza. – Mi scusi, non so altro. Siamo tutti molto provati.
– Quando potrò parlare con sua sorella?
– Non sono il suo medico curante, commissario.

Ed è stato un modo per mettermi alla porta.
Così si spiegano le maniche lunghe, altro che freddo! Proprio quelle maniche che l’hanno fatta fermare al banco del cachemire, dove ha incontrato Ietta, l’amica di un tempo.
Ma dice di non averla riconosciuta: non so se crederle, mentre sono quasi certo che Ietta non abbia avuto difficoltà nel capire che la signora ben vestita era Lina.
E, se ho interpretato bene i fatti, Ietta è anche quella che aveva cercato di difenderla o, almeno, di vendicarla quando una sprangata le aveva lesionato l’articolazione del gomito.
Ietta si è fatta un po’ di carcere, poi è diventata una barbona.
Lina è tornata Adele, ha sposato Stefano, l’uomo perfetto.
Ma perché Stefano ha ucciso Ietta? Perché l’ha uccisa e poco lontano dal Ponte di Sant’Agata, dove le due ragazze, di famiglie tanto diverse, si erano conosciute mentre spalavano il fango che il Bisagno aveva lasciato su Borgo Incrociati?
Ho la sensazione che anche i luoghi siano importanti: Ietta era senza fissa dimora ma non lasciava mai la zona. Nomade e abitudinaria insieme, così l’hanno descritta i volontari e anche, a mezze parole, uomini e donne della strada come lei.
L’essere abitudinaria, il girare sempre per le stesse vie, poteva, sì, aiutare a trovarla, ma, soltanto se chi la stava cercando, la conosceva anche abbastanza bene da essere al corrente delle sue abitudini.
Allora Stefano Tumiati la conosceva e l’aveva cercata, la sera della Fiera di Sant’Agata? O era stato incontro casuale?
Se era stato lui a ucciderla e non Adele… Ma come aveva fatto a trovarla?
Riprendo atti processuali e appunti relativi ai miei interrogatori: il tafferuglio era avvenuto poco lontano da dove Catainin è salita sulla Audi.
Sì, a non più di una decina di metri. Ed è importante?

Ritorno al negozio del cachemire e ritrovo la stessa commessa.
Ormai ho domande precise ed esigo risposte complete.
– Selvia Adele era sola o c’era un uomo con lei?
– Sì, un signore distinto. Era sempre rimasto in disparte, non era intervenuto neppure sulla scelta del pullover per uomo, quello che era stato acquistato subito.
– Quando si era avvicinata la donna che è stata uccisa…
Mi interrompe: – La barbona?
Annuisco, anche se le etichette non mi piacciono, e continuo: – Lui era rimasto in disparte o si era avvicinato?
– Era stata quella ad andare da lui. Avrà voluto l’elemosina, ma non so se lui gliel’ha data. Ero occupata a servire la signora.

Sono di nuovo al bar, lei sta chiudendo e mi si rigira contro: – Senti, non ho altro da dirti. Ho anche la mia vita!
– Il nome di chi ti ha dato la prima traccia e il braccialetto, Tea.
– Non lo so.
– Poi ti lascio in pace.
Mi guarda. – Non ti credo.
– La conoscevi. O non ti interessa sapere perché è stata uccisa?
– La riporterebbe in vita? No.
– Allora perché mi hai telefonato per darmi la prima traccia?
Resta in silenzio per qualche minuto, come valutando. Tira giù la serranda. – Il nome? Si fa chiamare Mamadou, non so dove puoi rintracciarlo. Ogni tanto, quando è in zona, capita qui. Sa che non lo mando via.
Mamadou, abbastanza comune.
– Descrizione?
Anche quella corrisponde a tanti ambulanti.
L’unica possibilità è chiedere ancora una volta la sua collaborazione: – Quando lo vedi, avvisami.
– Per favore?
– Posso procurarti dei guai.
– Ai guai sono abituata, non mi spaventano. Allora, per favore?
Glielo lancio contro a denti stretti il per favore.

Ho continuato per due giorni a rigirarmi tutte le informazioni e a interrogare quel muro di gomma di nome Tumiati Stefano, mentre il medico non mi consentiva di parlare con Stelvia Adele.
Finalmente una telefonata e sul mio numero diretto: – È qui, ma da te non viene, anche se ha tutti i documenti in regola.

Non sembra a disagio.
È alto e snello, accanto ai piedi ha due borsoni pieni di mercanzia. Gli chiedo di mostrarmi i documenti, li toglie dalla tasca dei pantaloni, me li porge. Si è mosso con la scioltezza di una pantera, della pantera ha anche il colore nero e lucido. I documenti sembrano in regola: Diop Mamadou.
– Raccontami quello che hai visto – gli ordino scandendo bene le parole.
– Quello che sapevo l’ho già raccontato a lei – e accenna verso Tea che già aveva chiarito la sua decisione ad assistere al colloquio. – Di mia spontanea volontà. – In italiano impeccabile, con solo un lieve accento straniero. E su quel “di mia spontanea volontà” alza le spalle come per darsi dello sciocco che si è messo nei guai volontariamente.
– C’era un uomo?
– Uomini ce n’erano tanti.
– C’era un uomo con la donna che stava comprando?
– C’era uno, fermo a pochi passi, non so se con la donna del Moncler, ma guardava nella sua direzione.
– Lui ha parlato con qualcuno?
Un sorrisetto, come per farmi capire che sa dove voglio arrivare, poi risponde preciso: – Mentre la donna con il Moncler dava nome e indirizzo alla commessa, Catainin si è avvicinata a quell’uomo, fermo a pochi passi di distanza.
– Per chiedere l’elemosina?
– Non la chiedeva mai. Ma si sono guardati bene. Lei sembrava sorpresa. Mi sembra che lui le abbia detto qualcosa, ma non ne sono sicuro.
Gli mostro una foto del Tumiati e Mamadou conferma che era lui e aggiunge in genovese stretto fra i denti: – Belin, me sun infiou in ten paciügu da pe mi. Belin, mi sono infilato nei guai da solo. – Perché sa che, se necessario, dovrà ufficializzare quanto ha raccontato in via amichevole.
Gli ho detto che poteva andar via.
E Tea ha aggiunto che potevo imitarlo.

Che cosa ho ottenuto? Catainin e l’uomo che non ha negato di averla uccisa hanno, forse, scambiato qualche parola durante la Fiera di sant’Agata.
Mi sto rigirando quest’informazione quando mi comunicano che Selvia Adele è interrogabile.

Dopo il collasso è stata ricoverata in clinica, dove opera anche il fratello, una delle tante in cui esercitava il padre.
Mi ripetono di non affaticarla perché è molto debole e temono una ricaduta.
Non mi sembra molto diversa dalla prima volta in cui l’ho incontrata, solo un po’ più pallida, ma può dipendere dall’assenza di trucco.
È lei a esordire: – È impossibile che sia stato Stefano.
– L’ha ammesso.
– Non è possibile. Dopo tanti anni, conoscerò mio marito. È un uomo mite, gentile e rifugge da ogni forma di violenza. – Scuote il capo. – No, non ci credo.
– Ma io vorrei sapere qualcosa di più sui suoi rapporti con Cavanna Antonietta.
– Siamo state amiche per due anni, dal ’70 al ’72.
– Amiche intime?
– Amiche – e nella sua voce non c’è l’entusiasmo di quando l’aveva nominata qualche giorno fa.
– Vi siete conosciute in occasione dell’alluvione del ’70.
– Come altri sono andata a spalare, da Borgo Incrociati, contrariamente al parere dei miei. Ci siamo conosciute.
– E dal ’72 vi siete perse di vista?
– Sono stata molto male, a causa di un incidente. Per più di un anno sono entrata e uscita da cliniche.
– Che tipo di incidente, signora Tumiati?
– Sono passati tanti anni.
– Ma se ha avuto conseguenze tanto dolorose lo ricorderà.
Non commenta e sono io a ricordare i fatti: – Nell’autunno del ’72, poco lontano da piazza Giusti, c’è stato un tafferuglio fra estremisti di destra e di sinistra. Cavanna Antonietta è stata fermata in quell’occasione e poi condannata a qualche anno di carcere.
Ancora silenzio.
– Uno dei fermati ha ricordato i fatti con discreta precisione. C’era una ragazza a terra, insanguinata, e la sua amica Ietta ha preso la spranga dalle mani del giovane che aveva colpito la ragazza. Ha preso la spranga e l’ha usata per reazione, se non per difendere ancora la ragazza ferita. Per difendere proprio lei, signora Selvia.
– È stato un incidente e non so cosa c’entri con l’omicidio.
– Torniamo a suo marito, allora. Non ha neppure un sospetto sul motivo che l’ha indotto a uccidere Cavanna Antonietta?
Fa segno di no.
Le ripeto la domanda.
– Forse ha immaginato che mi importunasse. È un uomo molto protettivo.
– Ritorniamo al suo incontro con la Cavanna, il giorno della Fiera. Non l’ha riconosciuta?
Un lungo silenzio e poi: – Ma gliel’ho già detto! La commessa mi stava prendendo le misure. Lei si è avvicinata, mi sono scostata… Aveva anche un cattivo odore. Le ho messo cinque euro in mano per togliermela di torno.
– Per le misure aveva tolto il piumotto.
–  Avevo sfilato il Moncler, certo. Le avevo dato cinque euro e restava lì, immobile. E… – una pausa – le ho detto di togliersi di torno o avrei chiamato mio marito.
– Ecco, suo marito. Mi hanno riferito che la Cavanna si è accostata a suo marito.
– L’ho indicato, sperando che si togliesse di torno vedendo che c’era un uomo con me! Continuava a indicare il mio braccialetto. Tante volte Stefano mi ha detto di buttarlo: rimpiango di non averlo fatto.

Sono uscito dalla camera e dalla clinica.
Perché un uomo, descritto come mite e tranquillo, ha ucciso una barbona?
Perché un marito ha ucciso una donna che, un tempo, era stata amica della moglie?
La prima ipotesi, che si sia accusato al posto della moglie, verso la quale è molto protettivo, si è già dimostrata infondata, perché lei ha un alibi. Quindi è stato davvero lui a uccidere, ma perché?

Riesco a immaginare soltanto una risposta.

Il giornalista che un tempo si faceva chiamare Max non è sembrato stupito di rivedermi.
Gli ho mostrato alcune foto.
Annuisce. – Sono passati anni, ma lo ricordo bene quel giorno. E riconosco quel viso. E ho la scena stampata in testa: Ietta con la destra gli strappa di mano la spranga e con la sinistra gli abbassa la sciarpa con cui si era nascosto il viso. E come lui le grida contro “feccia, siete feccia!”
Lo stesso viso che è stato riconosciuto da Cavanna Antonietta che si faceva chiamare Ietta.

– Non accetto silenzi o risposte evasive.
– L’ho già detto, sono stato io.
– E questo lo so, ma il movente non mi era chiaro. Ora sì.
Alza gli occhi e mi guarda, poi li distoglie.
Gli lascio i suoi tempi, ma voglio sapere.
Comincia dopo una decina di minuti e un bicchiere d’acqua, chiesto e ottenuto. Comincia dalla fine.
– Quando mi sono accorto che era morta, ho nascosto il corpo. L’ho colpita con forza. L’ho colpita perché non parlasse. Avevo paura che dicesse la verità alla mia Adele.
Beve un sorso.
– Le ho detto “vediamoci dove sai, alle undici”.
– Dove sai?
– Dove era successo. Aveva riconosciuto la mia Adele, per quel maledetto braccialetto, e subito anche me.
Un altro sorso.
– Nessun marito è stato più fedele, più tollerante, più affettuoso di me. Per cercare di rimediare al male che le avevo fatto.
– Era stato lei a colpirla con la spranga.
Invece di rispondere racconta come l’ha cercata, come ne è diventato prima amico e poi innamorato e marito fedele. – Ero riuscito a scappare, non mi conoscevano perché ero a Genova da pochi giorni.
– E ha preso una spranga e ha colpito.
– Avevo paura che parlasse, che distruggesse la vita mia e di Adele… – mi risponde, fraintendendo, forse in modo volontario, la mia frase.
– Quella sera del ’72 ha preso una spranga e ha colpito una ragazza.
– Era come una guerra, si doveva dimostrare di avere coraggio e quelli erano feccia. Quel maledetto braccialetto.

Finalmente so perché. Domani andrò in piazza Manzoni, poco lontano da dove tutto è cominciato e finito, per far sapere a Tea il movente.
Il movente? Ma ne esiste mai uno soltanto? Ha voluto difendere la vita costruita con e per Adele o ha voluto concludere il lavoro rimasto in sospeso per anni?
No, non esiste un solo movente per le nostre azioni. Forse vorrei rivedere Tea, spiegarle. No, non andrò in piazza Manzoni e le invierò un messaggio: molto meglio.

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