Dalla collina di Capodimonte, la «Posillipo povera», Rosa guarda Napoli e parla al corpo di Vincenzina, la madre morta. Le parla per riparare al guasto che le ha unite oltre il legame di sangue e ha marchiato irrimediabilmente la vita di entrambe. Immergendosi «nelle viscere di un purgatorio pubblico e privato», Rosa rivive la storia di sua madre: l’infanzia povera in un’arida campagna alle porte della città; l’incontro, tra le macerie del dopoguerra, con Rafele, il suo futuro padre, erede di un casato recluso nella cupa vastità di un grande appartamento in via Duomo; il prestito a usura praticato nel formicolante intrico dei vicoli, dove il rumore dei mercati e della violenza sembra appartenere a un furore cosmico. E una narrazione di soprusi subiti e inferti, di fragilità e di ferocia. Ed è la messinscena corale di molte altre storie, di «anime finte» che popolano i vicoli e, come attori di un medesimo dramma, entrano sulla ribalta della memoria: Annarella, amica e demone dell’infanzia e dell’adolescenza, Emilia, la ragazzina che «ride a scroscio» e torna un giorno dal bosco con le gambe insanguinate, il maestro Nunziata, utopico e incandescente, Marioma-ria, «la creatura che ha dentro di sé una preghiera rovesciata», Iolanda, la sorella «bella e stupetiata»… «Anime finte» che, nelle profondità ipogee di una città millenaria, attendono, come Vincenzina e come la stessa Rosa, una riparazione. Arriverà, sorprendente e inaspettata, nelle pagine finali del libro ad accomunare madre e figlia in un medesimo destino.


TITOLO: La compagnia delle anime finte.
AUTRICE: Wanda Marasco.
GENERE: narrativa contemporanea.
EDITORE: Neri Pozza.
PREZZO: euro 9,99 (eBook); euro 9,40 (copertina rigida); euro 15,67 (copertina flessibile); euro 13,84 (audiolibro).
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La recensione di Luana Troncanetti.

Da qualche mese a questa parte, leggo solo per documentazione, in rari casi per diletto (questo romanzo di Wanda Marasco, per esempio). Il mio svago per disintossicarmi da procedure giudiziarie/ricerche sul traffico delle schiave sessuali/varie ed eventuali.

Non c’è nulla di più oscuro di alcune dinamiche familiari, questa spettacolare autrice toglie il fiato. È sangue e carne e musica, tutto miscelato in una capacità espressiva non sempre semplice da cogliere al volo. Sono ritornata più volte su alcuni tratti, non perché ‘difficili’ o sporchi di termini forbiti: li detesto. La sua è una scrittura pulita ma intensa, priva di orpelli. Il talento non ha bisogno di mettersi in mostra infilando il suo vestito più scintillante, non impressiona il lettore con quei virtuosismi che in genere sfiancano. Il talento include anche un pensiero di Erri De Luca “Fai risentire alla scrittura il callo del tuo dialetto d’origine”, è l’uso di termini spolverati dal gesso dell’italiano “alto”, è la costruzione inconsueta dei pensieri, un modo così originale di usare le parole che ti costringe a rileggerle. Fai una pausa, metabolizzi, prosegui con un ‘ooh!’ incastrato fra occhi e lingua. Bellissimo, erano mesi che non leggevo qualcosa di così potente, passavo da una pagina all’altra con l’impressione di assistere a un miracolo. Non me ne vogliano i bravissimi e le bravissime, quelli magnificati spesso con ragione e altre volte invece no. Quelli “famosi”, molto più di lei.
Sono commossa dal talento di questa penna, nerissima nonostante questo romanzo non sia classificato come noir e splendida, anche se non appare ogni due per tre sui social o sui giornali. Non con quella frequenza martellante dei prodotti, intendo.
Mi succede, a volte, di dover leggere testi per ragioni professionali o per documentazione. Testi il più delle volte validi, ma il talento è un’altra cosa. Lo sfarzo non mi appartiene, il mio lusso attuale è quello di poter leggere – di tanto in tanto – un libro di raro splendore solo perché l’ho deciso io.

Di Luana Troncanetti vi consigliamo I SILENZI DI ROMA (Fratelli Frilli Editori).

Ernesto vive un rapporto ormai logoro con la moglie depressa, il suo taxi è teatro di storie che si intrecciano a un delitto nella Roma “bene”. La vittima è uno scultore di fama internazionale, pochissimi avevano accesso all’appartamento dove viene ritrovato cadavere e nessuno ha un movente valido per torturarlo a morte. L’ispettore Paolo Proietti, a capo dell’indagine, intuisce che sta per sollevare un verminaio. La verità lo lascerà schifato, esausto e fragile come mai un poliziotto dovrebbe sentirsi. É un malessere che conosce fin troppo bene, lo rivive negli incubi che lo angosciano a quattordici anni di distanza da un caso in cui si è lasciato coinvolgere troppo. Ernesto e Paolo sono fratelli senza un filamento di DNA in comune, condividono tutto fin dal giorno in cui si sono incontrati sui banchi delle scuole superiori. Tutto, tranne un segreto che ciascuno nasconde all’altro: il poliziotto per non giocarsi il distintivo, il tassista perché è impossibile confessare al suo amico cosa lo torturi da giorni. Il silenzio viaggia nel mondo degli artisti malati, viziati e viziosi, e in quello dei ricordi che fanno male da morire, nella paura di non essere più abbastanza o di non averci provato a sufficienza, protegge i mostri e offende gli innocenti. Si spezzerà, poi, nella voce di una giustizia sommaria che non regala pace o reale assoluzione dai peccati, ma dignità a quanti sono costretti a macchiarsi le mani di sangue.

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