È il turno di Federica Soprani. La poliedrica autrice ha accettato di raccontarci la sua avventura di “scribacchina”, come si definisce.

Sono stata una ‘cantastorie’ prima di diventare una scribacchina. Fin da piccolissima mi piaceva raccontare agli altri bambini tutto quello che mi saltava in mente. Spesso erano favole, leggende, trame di film o libri che avevo sentito in giro, e che la mia mente rielaborava in modo più o meno contorto, arricchendole e stravolgendole come se non ci fosse un domani. La cosa funzionava. Ricordo quando andavo al mare, soprattutto, una piccola folla di bambini raccolti intorno a me, che raccontavo storie di paura…

Scrivevo anche, sì. Mi piacevano troppo quei ghirigori sulla carta. Ho sempre avuto una passione morbosa per la parole, per il loro suono, per il modo in cui vengono tracciate sulla carta. Sono cresciuta con mia nonna, che mi ha insegnato a leggere e scrivere prima che andassi a scuola, e che per anni mi ha educata alla ‘calligrafia’. Non si direbbe adesso: se mi capita di scrivere qualcosa a mano poi non riesco più a decifrarlo; un medico in confronto è un amanuense benedettino. Ma all’epoca scrivevo benissimo, giuro.

A parte i racconti e le favole che scrivevo da piccola, la prima prova ‘importante’ risale a quando avevo quindici anni. Scrissi un romanzo, incompiuto, nel quale riversai tutto lo sturm und drang adolescenziale che mi alitava dentro. Maledettamente barocco, ma lo ricordo ancora con affetto. Il protagonista era la fotocopia di Shelley, il che è affascinante, considerando che allora non avevo ancora idea di chi fosse Shelley!

E questo, come si dice, è quanto…

“Energia è ciò che siamo stati, siamo e saremo. Poco importa in quale forma siamo imprigionati, in quale sostanza inerte o viva. Noi siamo parte del Tutto che scorre e muta, inesorabile, eterno.”
Spesso, quando s’intrattenevano in quei discorsi, erano entrambi troppo ubriachi per dare davvero senso alle parole. Era un privilegio della giovinezza indulgere in quell’ebbra euforia che rendeva tutto reale ed effimero allo stesso tempo. Benedict manteneva tuttavia quelle sue certezze anche da sobrio, e con esse l’entusiasmo che gli comunicavano.
“Quando sarò morto, cercami nel fulmine o nel vento. Nella pioggia che martellerà le tegole sulla tua testa. Nel primo fresco abbraccio del mattino. Non ti lascerò mai. Non me ne sarò mai davvero andato.”
Anche quei discorsi erano una sua peculiarità. Parlare di morte a vent’anni poteva sembrare una blasfemia, ma sulle sue labbra perfino la prospettiva del trapasso aveva tutta l’eccitazione di un’avventura.
C’era troppa vita in Benedict, e lui era sempre pronto a dispensarne a chiunque gli stesse accanto. Ti riscaldava come il sole, ti confortava come una pioggia estiva e ti contagiava immancabilmente con la sua passione.

Victorian Vigilante. Le infernali macchine del Dottor Morse.