Anche quest’anno, Macrina Mirti ci fa compagnia con un racconto. Leggiamolo insieme.

B U O N   N A T A L E

Il Natale era arrivato, con il suo carico di luci, di suoni e di colori, con la sua schiera di pentimenti e di buoni propositi, di promesse sussurrate e di felicità attese.

Ad Attilia, però, il Natale non piaceva. Pensava che fosse una festa stupida, inutile e dannosa. Grazie al Natale, avrebbe perso tre giorni di lavoro e sarebbe rimasta chiusa in casa, a vedere la solita melensa televisione dei giorni delle festività. E per cosa, poi? Per aspettare l’avvento di un bambino che da duemila anni, ogni 25 dicembre, tornava a nascere? Che assurdità! Da sempre i bambini nascevano, crescevano, diventavano vecchi e, infine, morivano. Possibile che questo sciocco bambinello non fosse sottoposto alle normali regole del destino umano? Era una favola diseducativa e obsoleta, che allontanava i bambini dalla realtà della vita.
La vita era dura e difficile. Lei lo sapeva bene. Conosceva l’orrenda verità dell’invecchiamento e della morte.
Tutti i giorni, guardandosi allo specchio, diventava sempre più consapevole delle profonde trine che, anno dopo anno, solcavano il suo viso, dandogli l’aspetto di una mela avvizzita.
Eppure, c’era stato un tempo in cui la vita le era sembrata meravigliosa! Allora, Attilia era stata bella e fresca come un fiore appena sbocciato, ma si trattava di giorni lontani. Era accaduto tanto tempo prima, quando suo padre e sua madre erano ancora vivi, e lei aveva un bel ragazzo con cui andare a ballare il sabato sera. Era convinta che loro due si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli. Che sciocchezza! Come aveva mai potuto pensare che la vita le riservasse un avvenire tanto radioso?
Un giorno, il bel ragazzo era partito per chissà dove e non aveva fatto più ritorno e, qualche anno dopo, suo padre e sua madre le erano stati portati via, uccisi da un male incurabile. Così, Attilia era rimasta sola, a spendere le sue giornate scialbe nell’atelier di famiglia e le sue notti bianche in una casa fredda e vuota.

Il lavoro nel vecchio atelier di moda occupava le sue giornate. Era orgogliosa di quel laboratorio, l’unico sopravvissuto al degrado dell’antico centro storico. Ma se il lavoro riempiva le mattine e i pomeriggi, le sue notti erano vuote e fredde e i giorni di festa gravidi di una solitudine così triste e malsana che si addensava sulla sua casa come una coltre di nebbia spessa e fumosa. Tanto fredda che si insinuava nelle membra avviluppandole in un laccio mortale, fatto di solitudine e di disperazione.
Il Natale era il giorno più orribile e solitario di tutti. Attilia guardava la gente festante entrare e uscire dai negozi, appoggiarsi ridendo alle vetrine, salutarsi, baciarsi, abbracciarsi e un sordo rancore le saliva dalle viscere al cuore, accompagnato dal solito senso di gelo e di profonda tristezza.
Per un certo periodo, una delle sue impiegate, una specie di buona samaritana, l’aveva invitata al pranzo di Natale. Poi, anche l’ultima amica si era stancata di lei, delle sue bizze e del suo continuo malumore. Così, Attilia si era ritrovata ancora tutta sola, a vivere i giorni di festa nella più triste e amara solitudine.
Assorta nelle più cupe meditazioni, raggiunse il grande garage a tre piani al cui interno era solita lasciare la vecchia utilitaria.

Entrò nell’ingresso del grande deposito-macchine e si guardò intorno. Un lungo brivido le corse lungo la schiena. Erano solo le otto di sera, ma il parcheggio pareva deserto. Non c’erano luci né luminarie, là dentro, ma solo un freddo opprimente.
Sbuffò indispettita, mentre cercava nella borsa la tessera da timbrare. Fu allora che il fagotto scuro, gettato per terra, in un angolo dell’ingresso, cominciò ad agitarsi. Ne emerse una bambina sporca, ricoperta da ruvidi stracci, che stringeva tra le braccia sottili un cucciolo di gatto, dall’aria sparuta e sofferente come la sua padrona.
«Ecco la piccola mendicante del parcheggio!» sbuffò Attilia, cercando di accelerare le operazioni di timbratura. Detestava quella creatura, che era sempre lì, di giorno e di notte, a chiedere con voce querula una monetina a tutti quelli che passavano a vistare il proprio abbonamento o a pagare una sosta breve. Era sicura che, se ognuno le avesse dato un centesimo, la piccola si sarebbe arricchita. Gran parte della città attraversava ogni giorno quel parcheggio sotterraneo che dava l’accesso alle scale mobili dirette al centro storico. E la bimba era sempre lì, accanto alle casse automatiche, a chiedere: «Mi dai una monetina?»

Davvero Attilia non sapeva per quale motivo la popolazione dovesse di continuo subire le insistenti richieste dei mendicanti che si aggiravano come ombre per il centro e la periferia. Anche andare al supermercato era diventato un problema. Ogni negozio aveva il suo uomo nero che sbucava dall’ombra, silenzioso come un fantasma, e tendeva la mano.  Più volte aveva pensato di chiamare la polizia o di scrivere una lettera di protesta al sindaco. Non era giusto che le persone per bene fossero importunate di continuo da straccioni di ogni specie che, invece di andare a cercarsi un lavoro, se ne stavano nei luoghi più affollati a mostrare sfacciatamente la loro miseria e a tendere la mano. Non era affar suo, quello. Di problemi lei ne aveva abbastanza. Ma quella vista la infastidiva. Le creava imbarazzo. Una volta, i lebbrosi erano allontanati dalla comunità e confinati in luoghi nascosti. Perché non si poteva fare così anche con quegli impudenti che venivano a sbatterti sul muso la loro fame? In fin dei conti, mica era colpa sua se lei era una donna ricca e loro dei miserabili!

«Signora…» la bimba allungò la mano gracile verso di lei.
Attilia si scansò inorridita: «Che cosa vuoi?» abbaiò. «Non mi toccare che sei tutta sporca! Puzzolente e divorata dai microbi.».
La bambina ritrasse la mano: «Una monetina, ti prego. Mi dai una monetina?»
«Monete? Io non ho monetine da darti. La macchina non mi dà nessun resto. Lo sai bene che ho una tessera prepagata. Dovresti saperlo. Ḕ da mesi che te ne stai qua, accucciata per terra come un cane rognoso, chiedendo soldi a destra e a manca. Ma non ce l’hai una casa dove andare?»
«No» disse la bambina, stringendo al corpicino minuto il micio bianco, sparuto e affamato come lei.
«Nemmeno stasera, che è la notte di Natale?»
«No. Il parcheggio è la mia casa.»
«Avrai almeno dei genitori, o qualcuno che si occupi di te.»
«I miei soli genitori sono le persone che mi danno le monetine. Loro si occupano di me e di lui» concluse, indicando il gatto bianco.
«Male. Molto male.»  Attilia scosse il capo in preda a una nuova consapevolezza. Non era giusto. Tutti i bambini del mondo avrebbero dovuto avere una casa accogliente e dei genitori affettuosi. Lei, da piccola, ce li aveva avuti. Era stata fortunata, molto più fortunata della piccola mendicante. Era stata una bambina felice. Solo adesso capiva che non era stata la vita a distruggere la sua famiglia e i suoi sogni, ma l’inesorabile trascorrere del tempo. E capiva anche che era colpa sua se tutto ciò era accaduto. Non avrebbe mai dovuto chiudere il suo cuore in una corazza di metallo. Non avrebbe mai dovuto rinunciare ai suoi sogni. Chi serra il cuore e abbandona i propri sogni, muore nello stesso momento in cui essi lo lasciano. Anche se in apparenza continua a vivere, è solo una forma che vaga nello spazio in preda al gelo e alla disperazione. Era diventata una donna fredda e scostante. Era morta dentro. Non aveva più cuore né sogni. Che fine avevano fatto? Dove erano andati a finire? Quando li aveva perduti? Scosse il capo e sospirò. Che ci poteva fare lei, se quella bambina non aveva neppure una casa dove trascorrere la notte di Natale? Non era sua la colpa. In fondo, ognuno nella vita aveva il proprio destino. Girò lo sguardo altrove e tentò di allontanarsi in fretta, ma qualcuno la trattenne.

«Signora» sussurrò la piccola, aggrappandosi al cappotto nuovo di Attilia.
«Togli immediatamente quelle manacce luride.»
Liberò il lembo del cappotto con aria indignata e fece per andarsene, ma commise l’errore di voltarsi.
La bambina coperta di stracci e il piccolo gatto bianco si stagliavano contro la parete del parcheggio con un’aria così triste e sconsolata che, per la prima volta dopo molti anni, Attilia sentì un groppo in gola. Dopo tutto, lei una casa ce l’aveva e avrebbe potuto essere calda e accogliente se solo non fosse stata così vuota e priva d’amore.
Tornò sui suoi passi e si fermò di fronte alla bambina.
La piccola la guardò con gli occhi tristi. Poi tese le braccia sottili: «Ecco il Signor Gatto» disse. «Te lo regalo. Ha freddo e fame. Il parcheggio non è un buon posto per lui.»
Attilia strinse la piccola creatura tra le braccia e uno strano calore le si diffuse in tutto il corpo. Poi guardò la bambina: «E tu? Tu non hai fame e freddo?» domandò.
«Ho fame, ho freddo e sono sola» rispose la piccola.
Attilia sistemò il gattino nell’incavo del gomito sinistro e se lo appoggiò al corpo, in modo che non cadesse. Era tutto sporco, ma non le importava. Il cappotto lo avrebbe mandato in lavanderia una volta passate le feste. Poi tese l’altra mano: «Anch’io sono sola, signorina. Invitarti da me a passare il Natale sarebbe un grande onore.»
«Davvero, signora?» La piccola le afferrò la mano con fare deciso, come se non volesse farsi scappare quell’occasione per nulla al mondo.
A quel contatto, Attilia ebbe un sussulto. Non era abituata a essere toccata, e quelle piccole mani erano così sporche! Poi si scosse. Sorrise, strinse la manina e, insieme, si avviarono verso la macchina.
«Chissà se verranno a reclamarti?» chiese.
La piccola fece spallucce. La donna si fermò a guardarla. «Sei carina» le disse, «e anche il Signor Gatto lo è. Prima di mangiare vi farò un bel bagno. Così vi ripulisco. Poi, il ventisette chiamerò i servizi sociali e vi chiederò in affido. Che ne dici?» continuò, felice della nuova idea.
La bimba non rispose, ma sorrise. La signora non era poi tanto cattiva. Lei e il Signor Gatto sarebbero stati felici di averla come madre. Non solo per Natale.

OoO

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