L’Alchimia degli opposti 5 – LSDA

VII

LA PRIMA PARTE LEGGETELA QUI.

Nel sogno era ancora su quella maledetta piazza in cui tutto l’odio della gente e il dolore gli erano piombati addosso. Il sole, un sole implacabile e crudele, bruciava il suo corpo, lo privava di qualsiasi energia, si insinuava con i propri raggi in ogni sua fibra facendolo ardere dall’interno e non c’era un luogo in cui rifugiarsi, né qualcuno a cui chiedere pietà, perché nessuno lo avrebbe ascoltato. Si vedeva, vedeva se stesso incatenato per i polsi e le caviglie alla struttura metallica a cui lo avevano legato, scorgeva la propria pelle sciogliersi e le ferite farsi sempre più profonde. Sentiva la propria voce urlare, solo che non la riconosceva. Nemmeno il proprio corpo riconosceva. Doveva avvicinarsi per vedere meglio, anche se non avrebbe voluto, anche se quello che riusciva a scorgere gli sarebbe bastato per tutta la vita, così come l’orribile terrore che gli attanagliava le viscere. Ma se era fuori dal proprio corpo, perché riusciva lo stesso a percepirne tutta la sofferenza? Si accorse di starsi spostando in avanti, anche se non aveva la sensazione delle proprie gambe che si muovevano. Adesso avrebbe voluto fermarsi, perché era certo che non gli sarebbe piaciuto quello che avrebbe visto e, dio, faceva così male, ma non riusciva a farlo. Oh per favore, no. Un attimo prima che anche negli occhi gli esplodesse un lampo di sofferenza come ne aveva provati pochi in vita sua, rendendolo cieco e indifeso e urlante come un animale in agonia, riconobbe la persona legata e urlò di nuovo. Era Guillaume e quella era la fine di tutti i tempi e di ogni speranza.
Raistan balzò a sedere sul letto con uno scatto fulmineo, un urlo imprigionato in gola che si trasformò in un rantolo sfiatato, una mano artigliata al collo, come se stesse soffocando. La sensazione era più o meno la stessa e il fatto di non poter davvero incamerare aria nei polmoni, per allentare quella morsa, era una tortura ulteriore. E il buio, dio… era come se i suoi occhi avessero improvvisamente perso la capacità di sondarlo. Cercò a tentoni il compagno al proprio fianco, tastando il letto con mosse frenetiche, e ogni contatto mancato, ogni tocco alle lenzuola fredde e senza vita, lo avvicinava ancora di più al panico, invece che allontanarlo.
“Guillaume… Guillaume, dove sei?” balbettò, dimenticando di essere un vampiro di trecento anni e sentendosi di nuovo il bambino terrorizzato che strillava nel proprio letto, inseguito da lupi immaginari, fino a quando madre o balia non accorrevano per tranquillizzarlo. Il panico che udì nella propria voce non fece che fomentare la sua paura, fino a quando non si mise a cercare l’interruttore dell’abatjour sul comodino, per squarciare quel buio che sembrava sul punto di ingoiarlo. Fu allora che una fitta spaventosa proveniente da un punto indefinito dentro di sé lo fece piegare in due con le braccia strette contro il corpo, i denti serrati e i tendini del collo tesi come corde di violino. Tentò anche di urlare, ma tutto quello che riuscì a produrre fu un ringhio interminabile, con il dolore che si faceva sempre più forte di secondo in secondo. Poi, quando si convinse che sarebbe morto da un momento all’altro, e quasi se l’augurò, la sofferenza lo abbandonò di colpo, lasciandolo stravolto, riverso sul letto, sull’orlo della perdita di sensi. Qualcosa di atavico gli disse che non poteva stare lì a far niente in quel momento, mentre… mentre cosa? Cosa?!
Finalmente raggiunse l’interruttore e accese la luce, sondando lo spazio attorno a sé con sguardo febbrile. Il letto era vuoto, come aveva già intuito, e non c’era nemmeno traccia dei vestiti di Guillaume. Lanciò una veloce occhiata all’orologio a cristalli liquidi sul comodino: le 6.18 del pomeriggio. Il sole doveva essere tramontato da una mezz’ora e forse il suo compagno era nell’altra stanza, magari a parlare con Eloisa, o al pc. Ma allora perché era così terrorizzato? Perché tendeva l’orecchio ai rumori della casa e nello stesso tempo non si decideva ad alzarsi per controllare? Se fosse rimasto lì, tutto sarebbe andato per il meglio. Quelle fitte non sarebbero più tornate e quando Guillaume fosse arrivato magari gli avrebbe anche spiegato perché le aveva provate. Certo, sarebbe andata così.
Fu in quel momento che qualcosa di spaventoso accadde ai suoi occhi, facendogli portare di scatto le mani al viso e strappandogli un urlo strozzato che riverberò sulle pareti della stanza alquanto spoglia. Anche quello sembrava un dono del passato, quando lame di dolore che non avevano niente da invidiare all’acciaio gli trapassavano le orbite per poi lasciarlo cieco, a volte per giorni. Quando allontanò le mani dagli occhi e riuscì ad aprirli, tuttavia, si rese conto che ci vedeva ancora. Si lanciò giù dal letto, indossò al volo la vestaglia di seta nera che Guillaume gli aveva regalato e spalancò la porta della camera, irrompendo in soggiorno proprio mentre Eloisa stava guardando la TV. Lei strillò per lo spavento, ma lui se ne accorse a malapena e archiviò subito l’informazione fra i dettagli inutili.
“Ehi, ma che…”
“Tuo zio. Lo hai visto? È qui in casa?”
Domanda sciocca, lo sapeva, perché se ci fosse stato avrebbe percepito la sua presenza senza nemmeno bisogno di alzarsi, ma come sarebbe stato bello, per una volta, sbagliarsi…
La ragazzina scrollò la testa, fissandolo a occhi sgranati, ma non era chiaro se il suo cenno di diniego fosse una vera risposta o il rifiuto per qualcosa che vedeva e Raistan sentì la furia montare dentro di sé. Si trattenne a stento dall’afferrarla e scrollarla come un bussolotto. Invece colpì con una manata di puro isterismo il tavolo, ripetendole la domanda, questa volta urlando.
“Io… io… no, non c’è… non l’ho visto… sono tornata da danza da poco, e… ma perché? Cos’è successo? Mio zio sta bene, vero?”
Un’altra ondata di sofferenza avvolse l’Olandese come un sudario rovente, facendolo piegare su se stesso fino a costringerlo in ginocchio, il capo appoggiato alla moquette chiara. Riuscì a stento a dominare l’urlo che gli si arrampicò su per la gola, ma non il fiotto di sangue denso che lo accompagnò e che si riversò sotto di lui. Percepì confusamente la mano calda della ragazzina sulla schiena, il suo richiamo allarmato, ma per lunghi, lunghissimi istanti non riuscì a risponderle, solo a raggomitolarsi sempre di più come se, in quel modo, sua maestà il Dolore avesse meno superficie su cui infierire.
“Raistan! Raistan, che cosa succede? Devo chiamare qualcuno? Oh, cavolo, ma dov’è mio zio? Che cosa devo fare?”
“Adesso mi passa… sta passando…” sussurrò, più rivolto a se stesso che alla ragazzina; sollevò la testa, pulendosi la bocca con l’avambraccio, incontrò il suo sguardo terrificato e, prima di riuscire anche solo a rendersi conto di cosa stava per fare, scoppiò in lacrime, coprendosi gli occhi con la mano.
Ora sapeva a chi apparteneva la sofferenza che provava. A dire il vero lo aveva saputo fin dal primo momento, fin da quando era ancora immerso nel sonno, fin dal primo istante in cui aveva aperto gli occhi e la sua mano non aveva toccato che vuoto, accanto a sé nel letto, ma accettare quella verità era terribile, più terribile del dolore stesso.
Ignorando i tentativi della ragazzina di consolarlo, si alzò da terra e si diresse barcollando verso la camera che condivideva con Guillaume, indossando meccanicamente i primi vestiti che gli capitarono. Gli tremavano le mani, mentre lo faceva, e le lacrime continuavano a scendergli sul viso anche se i singhiozzi erano stati ricacciati là da dove proveniva tutta la sua debolezza e vulnerabilità. Non sapeva che cosa avrebbe fatto, né da dove avrebbe incominciato a cercare Guillaume. Sapeva soltanto che era tempo di agire e che quel tempo era molto, molto breve.
Quando uscì dalla stanza, aveva sostituito il dolore e la paura con un furore gelido, quale non provava da secoli. Guai a chi gli avrebbe sbarrato la strada. Peccato che la prima che incontrò fu una ragazzina di sedici anni, in lacrime e sull’orlo di una crisi isterica. Quando Eloisa lo vide, gli si precipitò contro e prese a tempestargli il petto di pugni, piangendo.
“Che cosa succede? Che cosa succede?!! Dimmelo, stronzo!”
L’unica cosa che lui fece fu afferrarle i polsi per fermare il suo assalto, guardandola dall’alto con sguardo inespressivo, forse ancora più spaventoso di prima. Si chiese se non fosse meglio incantarla, ma qualcosa gli diceva che Guillaume non sarebbe stato contento di quella soluzione, quindi la trattenne fino a quando le urla si spezzarono in singhiozzi strazianti. Dopo, la sollevò tra le braccia e la depose con delicatezza sul divano, inginocchiandosi accanto a lei e accarezzandole la fronte bollente. La sua espressione non mutò, mentre lo faceva. Nessun accenno di dolcezza, nei suoi occhi. D’altronde, non era lì che lui si trovava. Non più. Raistan era stato sostituito da Atropo, il sicario, perché solo lui possedeva la freddezza necessaria per portare avanti quella missione che avrebbe potuto essere l’ultima, per lui. Se qualcuno era tanto potente da avere la meglio su un vampiro della forza e dell’intelligenza di Guillaume, non vedeva come avrebbe potuto farcela lui, con poco più della metà dei suoi anni e un carattere come il suo, che lo portava prima ad agire e poi a pensare. Atropo non era così, come non lo era stato il Generale Supremo. In quei ruoli, Raistan riusciva a pianificare, ad approntare strategie e a portarle avanti con determinazione, senza lasciare che l’emotività prendesse il sopravvento. Forse non sarebbe bastato comunque, ma era tutto ciò che aveva.
“Tuo zio è in pericolo. Non so cosa sia successo, ma lo scoprirò e lo riporterò a casa. Tu devi calmarti, però. Non ho tempo di preoccuparmi anche di te.”
Eloisa lo fissò, tirando su col naso, cercando sul suo viso rassicurazione e dolcezza, ma non ne trovò. Solo quelle parole pronunciate con tono monocorde e voce bassa, rauca, come se contenessero un ruggito trattenuto a stento, e domato solo per lei. Anche il gesto con cui le accarezzava la fronte era meccanico e gelido, a suo modo. Scostò la sua mano e cercò i suoi occhi, ma non riuscì a intercettarli. Non subito. Dovette prendergli il viso tra le mani, per farcela e quello che vide le diede i brividi. Gli occhi di Guillaume non le erano mai parsi così alieni.
“Promettimi che lo salverai.”
“Prometto che ci proverò con tutte le mie forze, a costo della vita.”
Aveva già pronunciato in passato quelle parole, a un’altra persona. Allora non era riuscito a mantenere quella promessa, ma la vita non l’aveva persa, anche se ci era andato molto vicino. Adesso sentiva che, se non ci fosse riuscito, quel simulacro di esistenza che portava avanti non avrebbe più avuto senso di essere vissuto. La ragazzina gli gettò le braccia attorno al collo, ma lui non ricambiò la stretta. Rimase ad attendere che l’abbraccio si esaurisse, poi si alzò e si diresse con la velocità di un’ombra verso la porta.
“Chiama Douglas. Fallo venire qui a farti compagnia e digli di fermarsi fino al nostro ritorno. E se… niente. Digli così. È un ordine, ragazzina.”
“Va… va bene. Seph…?”
“Sì.”
“Fai attenzione. Per piacere.”

VIII

 

Prese la moto, ignorando la vocina nella testa che gli suggeriva che, se gli fosse arrivata un’altra bordata di dolore come quelle che aveva appena sperimentato, avrebbe potuto finire molto male, per lui. Sciocchezze. I vampiri non morivano in incidenti stradali. Al limite si ammaccavano un po’, però perdevano tempo e attiravano l’attenzione su di sé. Entrambe le cose sarebbero state inaccettabili, in quel momento, ma era il suo unico mezzo di trasporto, e aveva bisogno di sbrigarsi. Il suo piano prevedeva una visita al cottage a Kensington, per dare un’occhiata con tranquillità al notebook di Guillaume. Se l’era portato dietro dalla dimora del francese, preferendo esaminarlo nella quiete di casa propria, senza una ragazzina isterica che gli girava intorno e lo tempestava di domande. Dopodiché avrebbe fatto visita a quello scombinato del Chimico. Dati gli eventi degli ultimi giorni, e il suo coinvolgimento, non si sarebbe affatto stupito del fatto che sapesse cosa stava succedendo. Avrebbe voluto essere informato anche lui. Gli sarebbe piaciuto che Guillaume condividesse con lui i propri progetti e le proprie preoccupazioni, ma evidentemente lo considerava troppo stupido per dargli fiducia in quel senso. Raistan Van Hoeck funzionava bene come guardia del corpo, quando c’erano da usare le maniere forti, ma non quando la sfida si faceva più… cerebrale, giusto? E adesso eccoti qui, stronzo. Sono tutto ciò che hai. Non un granché, non posso darti torto.Si asciugò gli occhi e partì come un razzo alla volta di Kensington. Aveva del lavoro da fare. Atropo lo aveva. A lui restava solo la sofferenza.
Trovò presto il file proveniente dal contatto della Yard, d’altronde Guillaume non si era nemmeno preoccupato di chiudere la cartella, come se fosse uscito di fretta. Passò in rassegna le foto che ritraevano Caska in azione in giro per Londra, e arrivò alle stesse conclusioni del francese: qualcuno stava pasticciando con sostanze proibite, che non avevano niente a che fare con la preparazione originale del Chimico. Gli parve altrettanto chiaro che quello show puzzava di trappola lontano un miglio. Com’era possibile che Guillaume fosse stato così stupido da cascarci? Nello stesso tempo si chiese anche che cosa avesse potuto escogitare quel branco di russi del cazzo, tale da fermare un Immortale potente come lui, senza considerare il fatto che la quasi totalità dei presenti nei locali privati dell’Amaranth erano morti. Capiva il desiderio di Guillaume di indagare, ma non tollerava di essere stato escluso. Lasciò il cottage, diretto alla sontuosa dimora del Chimico.

*

“Lo hanno preso, vero? Io glielo avevo detto di non andare…” disse l’umano, non appena aprì la porta e si ritrovò davanti Raistan. Per tutta risposta, l’Olandese lo abbrancò per la maglietta e lo costrinse a indietreggiare nella penombra della casa, spoglia fino all’inverosimile, quasi monacale. “Tu. Adesso mi dici per filo e per segno quello che sai, o giuro che ti faccio fuori. Parla, muoviti, e cerca di non impiegare un anno per ogni frase” ringhiò Raistan, dando una spinta al Chimico e facendolo piombare a sedere su quello che in tempi migliori doveva essere stato un divano. I suoi modi bruschi non parvero sconvolgerlo più di tanto. Si limitò a fissare il vampiro con sguardo neutro e totalmente inespressivo, peraltro ricambiato.
“L’ho detto anche a lui. Io non ho lasciato nessuna formula, né tracce della mia… produzione, è impossibile che siano partiti dall’LSDA per replicarlo. Ci deve essere in giro qualcuno altrettanto bravo. Sarebbe interessante incontrarlo…”
“Sì, certo. Guillaume ti ha detto dove sarebbe andato? Voleva tornare all’Amaranth?”
Eoni passarono, prima che Raistan riuscisse a ottenere una risposta. Intanto lo sguardo dell’umano non lo abbandonava mai, rendendolo nervoso. Più di quanto avrebbe mai ammesso, a dire il vero. Una persona con occhi del genere, con un tale abisso al di là di essi, avrebbe davvero potuto fare qualunque cosa.
“Lui non mi dice dove va. Mi ha fatto vedere le foto della ragazza. Carina, quella, vero? E il mio LSDA le è piaciuto tanto…” Una stilla di emozione vibrò nella voce monotona dell’uomo, mentre il suo sguardo lasciava per un attimo Raistan e si perdeva nel nulla davanti a sé. Gli stava solo facendo perdere tempo! Drogato del cazzo, rifiuto umano che non era altro! Era tutta colpa sua e delle sue porcherie se Guillaume si trovava in quella situazione di merda! L’olandese ebbe la tentazione fortissima di abbrancargli la testa fra le mani e di fargli schizzare quel cervello bacato dalle orecchie, ma non poté mettere in atto il suo proposito perché un’altra fitta di dolore terribile lo colse di sorpresa e lo fece crollare in ginocchio davanti al suo ospite, con un urlo a stento trattenuto. Oh dio, non di nuovo…
“Ti senti male? Forse ho qualcosa che te lo può far passare…” gli disse l’umano, con lo stesso tono che avrebbe riservato all’addetto di un call center telefonico. Raistan era troppo impegnato a non perdere i sensi, per rispondergli. Dio, ma cosa gli stavano facendo? Ebbe anche un fulmineo flash, la visione di un edificio di qualche tipo, ma la sofferenza era troppa per permettergli di concentrarsi. Eppure…
Il dolore. Il dolore lo poteva portare alla fonte. Non doveva contrastarlo, al contrario doveva accoglierlo nel corpo e nella mente. Anzi, visto che era da lì che proveniva, doveva lasciare che gli parlasse nel suo linguaggio fatto di lame di ghiaccio e di fuoco. Quello era il modo in cui Guillaume lo aveva ritrovato nella fogna degli Archi. Sarebbe potuto essere anche il suo, non importava che cosa gli sarebbe costato. Si coricò sul pavimento con le braccia aperte, anche se chiudersi a riccio sarebbe stato quello che avrebbe voluto fare davvero, gli occhi aperti puntati sul soffitto scrostato in più punti; quando una nuova scarica di dolore lo travolse, inarcò la schiena e strinse i denti, ma si sforzò di andare oltre. Il Chimico lo osservava dall’alto, e il suo sguardo si era trasformato in quello di un predatore, famelico, ma freddo e impersonale.
“Non ci riesco! Cazzo, non ci riesco. Non vedo niente, solo buio…” urlò Raistan dopo alcuni interminabili minuti in cui aveva impiegato ogni stilla della propria energia mentale per mettersi in comunicazione con il fulcro di tutta la sofferenza che tormentava Guillaume, e di conseguenza anche con lui. Si rimise faticosamente a sedere e chinò la testa fra le braccia, disperato e scoraggiato. Guill aveva ragione a non voler far conto su di lui. Era un incapace. Nonostante tutte le volte in cui si erano scambiati il sangue, la sua mente non era abbastanza potente per mettersi in comunicazione con quella del compagno. Guillaume sarebbe morto in un modo orribile e lui non avrebbe potuto farci niente. Sarebbe rimasto di nuovo solo, come unica compagnia il rimorso per non aver saputo mantenere la promessa che gli aveva fatto quella notte. Era passata solo una settimana, ma gli sembravano secoli.
“Forse è lui che non vuole. Per non metterti in pericolo. Era preoccupato per te.”
Raistan alzò la testa di scatto e strinse gli occhi in due fessure roventi.
“Beh, non doveva. Nessuno gliel’ha chiesto” sibilò.
“Non sono cose che uno può controllare, credo. Non sono un esperto. Però l’ho visto quando ti abbiamo recuperato a Vauxhall Arches. Era… incasinato. Un po’ come te adesso. Era la prima volta che lo vedevo… scosso per qualcosa. Prima pensavo che fosse una specie di robot. Un po’ come me. Ci intendiamo, lui ed io.”
Una smorfia di autentica sofferenza gli attraversò il viso senza età. Avrebbe potuto avere trent’anni come cinquanta. “Troppo faticoso parlare. Trooooooppo faticoso. Se vuoi restare, fai pure. Io devo farmi di qualcosa. Perché non vai a dare un’occhiata nel locale dei Russi? Se c’è qualcuno che può sapere dov’è Guillaume, sono loro.”
“Mi prendi per un idiota? Certo che ci andrò, ma a tempo debito!”
“Bene. Poi però torna a dirmi cosa succede. Il tuo amico mi piace. Ha sempre molta considerazione per me e non mi guarda strano come fanno gli altri. Almeno, credo – aggiunse dopo un attimo di profonda riflessione – non me lo ricordo…”
Si avviò a passo lento verso la stanza accanto, camminando con cautela, come se il pavimento fosse cosparso di mine antiuomo, e chiuse la porta dietro di sé. Raistan sospirò, depresso. Come avrebbe potuto tornare da Eloisa e ammettere che non era ancora riuscito a cavare un ragno dal buco? Semplice, non ci sarebbe tornato. Sarebbe andato al cottage, avrebbe contattato Nathan, il suo migliore hacker, per riuscire a scoprire più dettagli possibili sui suoi amici slavi, dopodiché avrebbe di nuovo cercato di comunicare con Guillaume. Dormire non era un’opzione. Sarebbe stato come abbandonare il Francese per tutte quelle ore e lui non aveva mai abbandonato nessuno in vita sua. Succedeva sempre il contrario. Esattamente come quella volta.

In realtà, Raistan non aveva nemmeno avuto il coraggio di tornare a casa. Dopo aver chiamato Nathan, che lo aveva maledetto per le ore antelucane in cui aveva l’abitudine di telefonargli per assegnargli compiti ai limiti dell’impossibile, aveva raggiunto il centro della città e aveva semplicemente camminato per ore, osservando con tristezza mista a invidia gli umani che gli sfilavano accanto. Loro sarebbero tornati a casa dai compagni, mogli, mariti, si sarebbero addormentati al loro fianco, magari dopo aver fatto l’amore, senza rendersi conto della fortuna che avevano. Lui avrebbe trovato solo stanze fredde e silenziose e oggetti della persona con cui aveva trascorso gli ultimi due anni, a ricordargli della sua assenza e a sottolineare la sua incapacità di aiutarlo. Meglio rimandare al più tardi possibile quello strazio.
Si era spinto fino all’Amaranth, anche, ma era rimasto ad osservare il viavai dei frequentatori nascosto nell’ombra di una stradina secondaria, conscio che una mossa falsa in quella direzione avrebbe potuto compromettere l’unica traccia di cui disponeva. Doveva pazientare e organizzarsi. Quella a Nathan, l’hacker, non era stata l’unica telefonata che aveva fatto: aveva anche chiamato la Casa Madre del suo Clan, di cui era il Sommo Maestro, e aveva ordinato al suo tremebondo assistente, Ramsey, di inviare a Londra una decina di vampiri la sera successiva, come guardaspalle e come… deterrenti per ogni iniziativa poco simpatica nei suoi confronti.
Adesso erano quasi le quattro. Il sole non sarebbe sorto ancora per un paio d’ore, ma lui si sentiva esausto. Non aveva più subito incursioni dolorose, ma questo, invece di rallegrarlo, lo terrorizzava. Se almeno avesse sentito Guillaume soffrire, avrebbe saputo che era ancora vivo. Quel silenzio, invece, poteva significare molte cose, nessuna delle quali positiva. Impiegò quasi un’ora per raggiungere la moto, attraversando una Londra ormai quasi deserta sotto una pioggerellina fine ed insistente, che lo infradiciò fino al midollo, poi si diresse a Kensington. All’ultimo momento, tuttavia, non ebbe il coraggio di raggiungere il cottage. Si diresse invece qualche via più a ovest, dove abitava una sua vecchia e… pelosa conoscenza che non vedeva da un po’; parcheggiò la Harley davanti al cancello del giardino antistante la villa, lo oltrepassò e bussò alla porta, fumandosi una sigaretta nell’attesa di una risposta. Dovette ripetere i colpi più di una volta. Accidenti ai vivi e alla loro fastidiosa abitudine di dormire di notte…
“Parola mia, sei sempre il solito stronzo fuori di…. Ehi, ma che ti è successo?” lo apostrofò Greylord, il capo del branco di licantropi che aveva quasi ucciso Raistan nel 1840, dopo averlo torturato ed esposto al sole per una settimana. Tragici eventi avevano trasformato la loro secolare rivalità in amicizia, da qualche anno a questa parte, e non era raro vederli insieme, specie su un campo da basket o davanti a una scacchiera, a rivendicare la superiorità della propria razza su quella dell’altro.
“È così evidente?” rispose Raistan, abbassando la testa e giocherellando con un sassolino usando la punta dello stivale. Greylord lo prese per un braccio e se lo tirò dietro all’interno della casa, sbuffando. Aveva perso il conto di tutte le volte in cui il vampiro lo aveva svegliato per un improvviso bisogno di compagnia. Lo precedette in soggiorno e gli indicò il divano con un cenno della testa.
“Vado a mettermi qualcosa addosso, dammi un momento” gli disse, osservandolo con perplessità mentre si lasciava cadere sul sofà e rovesciava la testa all’indietro, chiudendo gli occhi con aria sfinita. Quando tornò in soggiorno non si stupì di trovarlo addormentato. Raccolse il plaid dal divano, per coprirlo, ma Raistan saltò a sedere di scatto, gli occhi sbarrati e una mano artigliata alla gola, e lo fece trasalire per lo spavento.
“Che cazzo ti prende, adesso?!”
L’Olandese parve non sentirlo nemmeno. Si nascose il viso con le mani, e poi disse l’ultima cosa che il lycan si aspettava di sentire: “Oh, Dio, ti ringrazio. È ancora qui. C’è ancora. Oh grazie…” per poi tornare a contorcersi dal dolore, come se la corrente elettrica lostesse attraversando, per un’interminabile manciata di minuti. Non rispose alle domande sempre più insistenti di Greylord, non poteva. Tutto il suo essere era concentrato nel tentativo di cogliere qualche informazione, ma a parte sprazzi di voci, tra cui – ne era certo – quella di Guillaume, non ricavò nulla che potesse servirgli. Alla fine si abbandonò sul divano, con le lacrime che gli sfuggivano dagli angoli degli occhi serrati, mentre il licantropo lo guardava con la fronte aggrottata, indeciso sul da farsi. Perché non poteva avere un amico normale, con cui chiacchierare di partite in TV e delle tette di Pamela Anderson?
“Ehi. Vampiro, parlami. Dimmi qualcosa, tipo che cazzo ti sta succedendo. O chiedo troppo?”
Appena ne fu in grado, Raistan gli raccontò in breve l’accaduto, omettendo i suoi sentimenti per il francese per non incorrere nelle prese in giro di Greylord, ma non era facile ingannare un vecchio lupo di più di milleduecento anni.
“…. E quindi… insomma… posso restare qui? Solo per oggi.” Ti prego, dicevano i suoi occhi arrossati.
“Ti ho mai negato un letto, succhiasangue? Dove sta di casa la camera lo sai.”
Raistan scosse la testa. “Non posso dormire. Non voglio. Devo… ascoltarlo.”
“No, devi riposarti, dammi retta. Non sono passate nemmeno ventiquattr’ore e sei già ridotto peggio del mio straccio per i pavimenti. Le persone che stanno trattenendo il tuo… amico evidentemente sono interessate a lui, altrimenti lo avrebbero già fatto fuori. Tempo per lui, tempo per te, per trovarlo. Ma devi essere in forze, e lucido. Che cos’ha di tanto speciale questo vampiro, per farti quest’effetto?”
“Non sono affari che ti riguardano, lycan. È… è una persona… importante.”
“Ah, non lo metto in dubbio, visto come sei messo male.”
“Dicevo importante in generale, non…”
“Vampiro, onestamente non me ne frega un cazzo di chi ti scopi. Se hai bisogno di aiuto per spaccare qualche culo russo, io sono qui. Adesso però me ne torno a dormire e tu fili nella cameretta che conosci bene. Guarda che vengo a controllare, più tardi. Dai, alza il culo.”
L’olandese obbedì e lo seguì lungo il corridoio in penombra, senza parlare. Quando il lycan, il suo nemico più antico, gli batté un’affettuosa pacca sulle spalle, annuì e abbassò la testa, lasciando che i capelli scendessero a formare la solita cortina impenetrabile agli sguardi.
“Ehm… grazie…” borbottò, prima di perdere il coraggio.
Il lycan lo liquidò con un gesto noncurante della mano.
Un attimo prima di richiudere la porta dietro di sé, Raistan si fermò e si affacciò di nuovo sul corridoio.
“Greylord…”
“Cosa?”
“Davvero mi aiuteresti?”
“Solo se alla fine mi farai conoscere il vampiro che ti ha fatto capitolare” gli rispose quello, con un ghigno.
Raistan sentì le labbra che gli si distendevano in un sorriso molto simile al suo.
“Ti piacerebbe. È un gran signore. Molto raffinato.”
“E ha scelto uno scombinato come te? Tanto normale non dev’essere.”
“Conosci qualcuno che lo sia?”
“No. Io no. Infatti guarda chi mi ritrovo per casa alle sei del mattino. Buonanotte. O buongiorno, che poi per te è lo stesso.”
Raistan richiuse la porta alle proprie spalle, poi si tolse cappotto e stivali e si coricò sul letto, con un sospiro di puro sfinimento. Piombò in un sonno che non aveva niente a che fare con la serenità, ma di cui aveva bisogno sopra ogni altra cosa.

*

Guillaume avvertì il mutamento un istante prima che esso si manifestasse. Era cieco, debole ai limiti dello sfinimento, ma il sesto senso che gli aveva permesso di restare in vita per secoli non lo aveva abbandonato. Non che facesse molta differenza cosa poteva percepire o meno. Gli era bastata un’ispezione sommaria, nei primi istanti della sua semi ripresa di coscienza, per rendersi conto di essere in trappola. Gli sfuggivano i dettagli di quella trappola, questo sì. Per esempio, perché non riusciva a rigenerarsi? Anche senza nutrimento, anche in un tempo relativamente breve, il suo corpo avrebbe dovuto attivarsi per riparare i danni inferti dall’uomo-bestia. Così non era accaduto, non stava accadendo, e ormai doveva essere passato… quanto?
Così accolse quel mutamento nel buio che lo circondava, nel silenzio irreale della sua prigione, con sollievo. Se ne sarebbe pentito, non aveva dubbi, ma gli era inevitabile.
Restò accoccolato a terra, cercando di limitare al minimo il contatto con il pavimento freddo, e tuttavia troppo debole per stare in piedi. Intuiva che il fondo della sua cella era stato realizzato in una qualche lega d’argento, perché ogni volta che una porzione della sua pelle lo toccava, avvertiva ondate di fuoco gelido risalire fino ai centri nervosi, in scariche di dolore bianco. E tenendo conto che era nudo, le porzioni di pelle esposta erano davvero molte. Dovevano avergli tolto di dosso gli abiti ridotti a brandelli dall’uomo bestia prima di chiuderlo là dentro. Davvero poco cortese. Poi c’era la questione della gabbia, ovviamente. Quella doveva essere davvero un marchingegno unico nel suo genere. Se non ci fosse stato rinchiuso dentro, ne sarebbe stato oltremodo affascinato. Quando aveva allungato le mani per definire i contorni della sua prigione, si era sentito trafiggere da mille raggi di sole. Il fatto che la sua pelle fosse già stata lesa durante la cattura aveva solo ritardato la percezione del dolore. Aveva rimandato un’ulteriore indagine a quando fosse stato più in forze, ma mentre le ore passavano, e la sua percezione del tempo gli suggeriva che divenivano giorni, quella circostanza sembrava ben lungi dall’avverarsi. Del resto, se in qualche modo erano riusciti a rinchiuderlo in una gabbia fatta di luce solare, era un miracolo che non fosse stato di già ridotto in cenere.
Seduto sui talloni, le braccia strette intorno alle gambe, rimase immobile, in ascolto. Non solo le sue orecchie cercavano di captare ogni singolo movimento, il suono di un respiro, il rumore prodotto da una sedia che veniva spostata, un colpo di tosse sommesso ma inequivocabile. No, tutti i suoi sensi erano tesi, alla ricerca di indizi, a cercare di capire da dove sarebbe arrivato il prossimo colpo.
Invece giunse un saluto.
“Salve, signor De Joie.”
Una voce maschile, di età indefinita. Trenta, quarant’anni. Gradevole. Amichevole. Prometteva malissimo.
“Salve, signor…?” rispose Guillaume, con neutra cortesia.
“Dottor Janiĉek. SamaelJaniĉek” rispose prontamente la voce, e nemmeno nel pronunciare il cognome tradì più di tanto l’accento slavo. Quell’uomo, chiunque fosse, aveva conosciuto il privilegio di crescere con il più puro plain english riversato nelle orecchie. “Vedo che si è ripreso” aggiunse, e il suo tono tradiva un autentico piacere.
“Nei limiti del possibile, Dottor Janiĉek” rispose Guillaume, garbato. “Ho ragione di credere che la mia attuale sistemazione sia concepita appositamente per mantenermi al limite delle mie possibilità. È lei che devo ringraziare, per una simile premura?”
“Sono certo che comprenderà la mia cautela, Signor De Joie” si schermì la voce nel buio. “Avevo buone ragioni di credere che la sua reazione al risveglio non sarebbe stata del tutto cordiale. Ho dovuto prendere provvedimenti.”
“Comprendo perfettamente” lo rassicurò il vampiro, mantenendo il suo tono neutro. Stava studiando la situazione, come un giocatore di scacchi che valutasse quali pezzi gli fossero rimasti, dopo che l’apocalisse aveva spazzato via il mondo intero. “D’altra parte, farmi attaccare da quel vostro uomo, e bruciarmi gli occhi con… che cosa è stato?”
“Un fucile a raggi UV.” La voce trasudava compiacimento, come se si fosse preparato a lungo per ricevere complimenti a riguardo. “Un mio prototipo, sebbene l’idea l’abbia avuta mia cognata. È lei la vera esperta in famiglia riguardo a voi.”
“Noi vampiri?” domandò Guillaume.
“Esatto.”
“Capisco. Un’impresa famigliare, quindi” sospirò il vampiro. “Davvero impressionante. E lei invece di cosa si occupa, Dottore?”
“Oh, licantropi, per lo più” rispose l’altro, urbanamente. Guillaume non aveva idea di che aspetto avesse, ma poteva quasi visualizzarlo, mentre accavallava le gambe e una mano lunga, sottile, disegnava un cerchio vago nell’aria.
“Licantropi. Certo. Questo spiega quell’energumeno che mi ha scagliato addosso. È notevole come sia riuscito ad assoggettarlo” valutò il vampiro.
“Raoul è uno dei miei esperimenti meglio riusciti” rispose il Dottore, accogliendo con gioia quell’ulteriore complimento. Parve invece ignorare volutamente la faccenda dell’attacco, come fosse un dettaglio di poco conto. “È con me da molti anni. Lo scontro con lei l’ha molto provato. Sono davvero impressionato dalla sua forza. Sul serio. Non ho mai conosciuto uno come lei” concluse, senza fare nulla per celare la propria ammirazione.
Questa volta fu il turno di Guillaume di schermirsi per il complimento. In realtà iniziava ad essere annoiato da quello scambio di piacevolezze del tutto fuori luogo.
“Uno come me. Intende un vampiro?” domandò.
“Un vampiro così forte. Così bello. È davvero molto bello, sa? Impressionante…”
Perfino la vanità di Guillaume aveva dei limiti.
“Le assicuro che senza ustioni, con gli occhi a posto e magari un outfit decente, farei una miglior figura. Magari quando questa faccenda sarà conclusa la invito a cena da qualche parte, così glielo dimostro” propose, con apparente serietà. Ma era chiaro che non poteva parlare seriamente, e infatti il Dottor Janiĉek accolse quella proposte nell’unico modo in cui aveva senso accoglierla: ridendo.
“Adoro il suo spirito, De Joie. Davvero” osservò, l’eco di quell’ilarità ancora nella voce. “E no, le posso assicurare che io la trovo splendido così. Una statua perfetta spezzata. Un capolavoro assoluto deturpato. Non dubito che nel pieno della sua forma lei debba avere un numero sconcertante di estimatori, ma io sono, come dire, un eccentrico, e posso affermare senza falsa modestia che la mia percezione estetica tende a prediligere l’imperfezione, al suo contrario. Sebbene io non la conosca bene, non ancora almeno, credo di poter affermare con una certa sicurezza che la sofferenza le dona moltissimo.”
“Dottore, potrei stare qui a disquisire di estetica per ore” lo interruppe Guillaume, sollevando la mano come a invocare una pausa. Ignorò il dolore che quel semplice gesto gli causò.“Ma credo che non sia per questo che mi ha rinchiuso qui dentro, dopo avermi fatto fare quasi a pezzi dal suo… Raoul. Sono sicuro che lei ha tutto il tempo di questo mondo, ma credo sia giunto il momento di mettere da parte i convenevoli e chiarire le ragioni della mia presenza qui.”
“Naturalmente, Signor De Joie. Naturalmente.”
Seguì un lungo silenzio. Guillaume fu colto dal dubbio che il dottore se ne fosse andato. Ovviamente non era così. Lo sentiva ancora, nella stanza, a dispetto delle sue percezioni indebolite. Sentiva il suo respiro, il suo odore, sotto il velo di colonia 4711 che avvolgeva il suo corpo. Attese, immobile in quella posizione scomoda, degradante. Una posizione che non avrebbe potuto tenere a lungo. Cosa sarebbe accaduto quando, alla fine, si sarebbe accasciato, offrendo una porzione di corpo più vasta al pavimento? Ci avrebbe pensato a tempo debito.
“Ebbene, Signor De Joie” riprese infine il Dottor Janiĉek, con un sospiro, “La ragione per cui l’ho fatta portare qui è molto semplice. Voglio quello che lei ha dato alla giovane puttana e al signor Anatoly Dmitriev.”
“Cosa le fa pensare che io sia in grado di fornirle quella sostanza?” lo interruppe Guillaume, sforzandosi di mantenere un tono neutro, urbano.
Di nuovo la risata del Dottore risuonò, fredda.
“Andiamo, Signor De Joie, siamo uomini di mondo, lei ed io. Lei poi lo è da un tempo infinitamente più lungo. I miei informatori stanno riscontrando enormi difficoltà a risalire alle sue origini, sa? Non che abbia molta importanza. Difficilmente uscirà vivo da quella gabbia, ma diciamo che è un mio interesse personale. Vivo, poi…” E rise di nuovo. “Le chiedo scusa, la forza dell’abitudine.”
Guillaume non rispose. Non si sforzò neppure di sorridere. Il tempo dei sorrisi era passato. Sapeva esattamente con chi aveva a che fare. Aveva conosciuto individui simili nel corso della sua lunga non-vita. Ce n’erano in ogni generazione, in ogni epoca. Intelligenti, scaltri, totalmente privi di empatia, mescolati alla compagine umana, ma per nulla umani. C’era un solo modo per definirli: mostri. Ma da parte di uno come lui un’affermazione del genere avrebbe potuto sembrare una contraddizione in termini.
“No, sul serio, Signor De Joie” riprese Janiĉek. Ogni traccia di ilarità era scomparsa dalla sua voce. Risuonava vuota, incolore, un nulla freddo che non risuonava di alcuna eco. “Ho lavorato per anni sul sangue di creature non umane. Ho potuto riscontrare l’effetto che esso può avere sui comuni mortali.” Guillaume ebbe una visione fugace, ma significativa, delle implicazioni insite in quell’affermazione, di quanta sofferenza, quanta morte quel genere di esperimenti avesse generato, nel tempo.
“Ora, ho esaminato il sangue della puttana…”
“Ha un nome.”
“Prego?”
“La ragazza. Ha un nome. Caska” lo corresse il vampiro.
“Certo. Caska. Non la facevo così galante, De Joie.”
“Sono pieno di sorprese.”
“Caska, dicevamo” riprese il Dottor Janiĉek. “Erano rimaste tracce labili, ma inequivocabili, di un composto non riconducibile ad alcuna droga naturale o sintetica di cui io sia a conoscenza.”
“Immagino lei sia una specie di esperto” lo interruppe Guillaume. Non era un complimento, ma il Dottore lo prese come tale.
“Sono certo che la base di quella sostanza fosse il suo sangue, probabilmente raffinato con qualcosa per smorzarne gli effetti… collaterali.”
“Sono impressionato dal suo acume.” Questa volta l’ironia risuonò palese, feroce. “E posso chiedere cosa le ha somministrato lei, in seguito? Giusto per capire quante speranze ha la ragazza di uscire viva e integra mentalmente da questa situazione.”
“Mi lasci dire che trovo molto toccante questo suo interessamento per le sorti della ragazza. Soprattutto tenendo conto della dieta che quelli della sua razza seguono. O devo raffigurarmela come un incubo gentile che va a nutrirsi degli umani nottetempo senza dar loro troppo fastidio? Dalla mattanza che lei e il suo amico avete fatto all’Amaranth ne sarei sorpreso.”
Touché pensò stancamente Guillaume. Ma non si prese la briga di dirlo ad alta voce. Quella situazione stava diventando sempre più disagevole. Forse sarebbe stato il caso di considerare che aveva un problema davvero grande. Ovviamente, non lo avrebbe ammesso fintanto che quell’uomo fosse rimasto nella stanza.
“Per rispondere alla sua domanda, le ho somministrato sangue di mannaro” aveva ripreso intanto il Dottore. “E no, non posso scommettere che questo miscuglio risparmierà le sue facoltà mentali” aggiunse, con un vago tono dispiaciuto. Come se avesse appena considerato un danno collaterale del tutto risibile. “In realtà, al momento quel sangue è la sola cosa che la sostiene. Se glielo togliessi immagino che avrebbe un collasso.”
“Sì, suppongo sia inevitabile quando si pasticcia col sangue di creature non umane…” commentò Guillaume. Stanchezza, iniziava a provare una stanchezza infinita. Quello sterile blaterare serviva solo a esasperarlo e sfinirlo. Probabilmente era quello che il Dottore sperava. Ma non poteva illudersi che fosse così facile, così presto. Se solo avesse potuto risposare un momento, stendersi, smettere di sentire quel dolore costante che scavava le membra, pelle, carne, muscoli, fino all’osso, in un logorio senza sosta…
“Quindi ora cosa farà? Dei prelievi, immagino” Si costrinse a non tradire la sofferenza, l’ansia che lo stava cogliendo. La disperazione.
“Conto sulla sua collaborazione, naturalmente” intervenne Janiĉek. Aveva un tono professionale, ora, come se il tempo dei convenevoli fosse finito e fosse giunto quello degli affari. “Se lei sarà così gentile da rivelarmi la formula del Sangue degli Angeli, mi limiterò a trattenerla per estrarre l’ingrediente fondamentale. Non ci sarà bisogno della gabbia, o di inutili maltrattamenti. Ne converrà. Preferirei averla come ospite gradito che come prigioniero, signor De Joie.”
“Molto gentile.” Cercò di cambiare posizione, e poi qualcosa accade, all’improvviso. Una lama incandescente lo trapassò, dal capo ai piedi, facendogli esplodere la testa in un fuoco d’artificio di puro dolore, che riverberò lungo la colonna vertebrale, per tutto il corpo. Avvertì un grido spaventoso modulato da una voce che non riconobbe subito come la propria. Crollò in ginocchio, e il contatto con la pavimentazione della gabbia amplificò l’eco di quella tortura.
“Ecco quello che intendevo” osservò Janiĉek, un tono tra il dispiaciuto e il petulante. “Vogliamo tutti fare a meno della gabbia, non è così?” Gli si rivolgeva come se dovesse convincere un bambino recalcitrante a obbedire a un ordine impartito da un adulto consapevole.
Guillaume cercò di parlare, solo per accorgersi di avere cenere e sabbia in gola. La gabbia… Era come essere stato trafitto da un raggio di sole sparato a distanza ravvicinata.
“Sto preparando qualcosa che dovrebbe velocizzare la procedura di estrazione. L’ho chiamato il ‘Trono’, spero apprezzerà l’aulicità.”
Di nuovo la sua voce si stava sciogliendo in un tono colloquiale, amichevole.
Guillaume non lo udiva più. Mentre il dolore lo lambiva da ogni parte, conficcandogli nella carne uncini che la straziavano ritirandosi, il suo pensiero volò a casa, a Raistan, alla sagoma del suo corpo disegnata dalle lenzuola di seta, come una statua pronta per essere svelata. Pensò all’argento dei suoi capelli che gli scorreva tra le dita, alla sua voce che colmava il silenzio dei suoi pensieri. Pensò a Raistan, al fatto che la sua sola consolazione era che non avessero preso lui.

*

Era stato un pomeriggio spaventoso, costellato di atroci esplosioni di dolore; per un attimo aveva chiaramente sentito Guillaume urlare, e quel grido conteneva una sofferenza che lo aveva annichilito e lo aveva privato di ogni atomo di forza. Aveva percepito le proprie gambe cedere e si era ritrovato accartocciato sul pavimento del soggiorno senza sapere come ci fosse arrivato, con il lycan che, senza dire una parola, lo aveva afferrato per un braccio e sostenuto fino al divano. Non gli aveva fatto domande, né lo aveva forzato a parlare. Anzi, era sparito nella stanza accanto per dargli il tempo di riprendersi o di dare sfogo ai propri sentimenti, se era quello che desiderava fare.
A parte una conversazione con Nathan, che gli aveva anche inviato un file con tutto quello che aveva scoperto su Dancenko & Co., era stato un susseguirsi di momenti che andavano dall’orrendo allo spiacevole.
C’era stata la telefonata di Eloisa, per dirne uno. La ragazzina era sull’orlo dell’isterismo. Lo aveva tempestato di domande sullo zio, lo aveva supplicato più e più volte di riportarlo a casa per poi inveire contro di lui perché non ci era ancora riuscito, facendolo sentire ancora più inutile e inadeguato. Ancora si chiedeva come avesse fatto a non perdere le staffe e a non rispondere alle sue accuse con insulti rivolti a quella testa di cazzo di Guillaume De Joie, che se n’era sbattuto allegramente di lei e di lui e se n’era andato in giro a fare l’investigatore, convinto della propria invulnerabilità. Come aveva potuto essere così arrogante, stupido ed egoista? Proprio tu parli, che ti sei quasi fatto ammazzare da un branco di barboni puzzolenti, solo perché pensavi di essere intoccabile. Una bella coppia, davvero.
E ora…
“Come sarebbe a dire che non me li puoi mandare?!” urlò Raistan nel telefono, sfrecciando avanti e indietro per la stanza, simile a un ciclone nerovestito.
“Mi dispiace, Sommo Maestro, il Kilarmeth ritiene che…”
“Cosa? Che cosa?!! Quegli avvoltoi osano mettere in discussione l’ordine del loro Sommo Maestro?! Su quali basi?! Negano a me l’apporto dei miei uomini quando li richiedo espressamente?!!”
“Dicono… dicono che… non ti puoi servire dei vampiri del Clan per le tue faccende personali, per di più al di fuori dei confini della Francia… sostengono che i lycan inglesi potrebbero vedere la cosa come una pericolosa invasione del loro territorio…”
Raistan si lasciò sfuggire una risatina incredula.
“Sono a casa del fottuto comandante dei lycan inglesi, testa di cazzo! Vuoi che lo faccia parlare con loro?”
“Ti… ti prego, Sommo Maestro, non è colpa mia… io mi limito a riferirti le loro parole…”
“Bene. Allora riferisci loro questo: se entro domani sera non avrò quei dieci vampiri a Londra, mi occuperò personalmente di impalarli nel giardino della Casa Madre! Stronzi!”
“Non… non posso dire una cosa del genere, loro…”
“Anche tu osi contravvenire ai miei ordini, lurido succhiatopi? Tu non sai cosa ti succederà, appena torno! Vai da quei bastardi e riferisci immediatamente quello che ti ho detto, e poi richiamami per dirmi che cosa hanno risposto. Fallo, Ramsey, o giuro che…”
“Va bene, va bene, Sommo Maestro, perdonami se…”
Raistan interruppe la comunicazione e si trattenne a stento dallo scagliare il cellulare dalla parte opposta della stanza. Si passò una mano fra i capelli ingarbugliati e lanciò a Greylord uno sguardo gelido.
“Che hai da guardare, cane?”
“Non chiamarmi cane, stronzetto. Te lo dissi a suo tempo: avresti dovuto sbarazzarti di quei vostri giudici appena ti sei insediato. Non smetteranno mai di metterti i bastoni fra le ruote.”
“Se provano a ostacolarmi in questa faccenda giuro che li faccio squartare! Avrebbero dovuto essere già qui! Avremmo dovuto essere diretti all’Amaranth, a spaccare culi russi e a fargli sputare dove tengono nascosto il mio amico! E invece sono qui, nel tuo salotto, a inveire contro tutto il fottuto mondo, mentre lui…”
Sentì gli occhi bruciargli, ma ricacciò il groppo in gola dritto al mittente.
“Diamo un’occhiata al file che ti ha mandato il tuo amico hacker, che ne dici? Se devo essere coinvolto in questa faccenda, meglio che sappia anch’io con chi abbiamo a che fare.”
Raistan annuì, segretamente grato al suo vecchio nemico per il suo pacato supporto. Quando, pochi minuti dopo, sullo schermo del pc apparve una foto di Dancenko, Raistan memorizzò ogni dettaglio di quel viso insignificante. La tentazione di tornare all’Amaranth era fortissima, quasi irresistibile, ma non vi avrebbe ceduto. Non senza un piano e un supporto adeguato. La cosa triste era che al momento non aveva né l’uno né l’altro.
Il cellulare squillò di nuovo, facendoli trasalire entrambi. Di nuovo il Clan. Se Ramsey gli avesse di nuovo portato brutte notizie, lui…
“Allora? Hai riferito a quei bastardi quello che ti ho detto?”
Un attimo di silenzio accolse le sue parole quasi ringhiate nel telefono, ma non fu la voce esitante del suo assistente a rispondergli. Proprio no.
“Sì, Sommo Maestro. Lo ha fatto. E lasciami dire che non ci è piaciuto molto sentirlo.”
“Chi…” oh, cazzo. “Kilar? Kilar Rafael?”
Se fosse stato umano, Raistan sarebbe sbiancato fino ad assumere la tonalità della calce, ma non successe. Si bloccò sul posto, invece, e strinse con più forza il telefono che protestò con un sonoro scricchiolio.
“Proprio io. Allora? Impalati nel giardino della Casa Madre? Un bel progetto, direi.”
Il tono del Giudice conteneva una gelida ironia che Raistan non mancò di notare. Deglutì, la bocca improvvisamente secca. Rafael era l’unico dei sette Kilar con cui aveva un rapporto almeno vagamente civile. Loro non sopportavano lui, considerando ancora un affronto la sua elezione a capo del Clan dei Diurni, e lui non sopportava loro, con la chiusura mentale tipica dei burocrati che li contraddistingueva.
“Ascolta, Kilar, ho davvero bisogno di quella squadra. Non siete voi a dover decidere queste cose, non potete…”
“Non possiamo decidere quello che sia lecito o no per il bene e la sicurezza del Clan? Credevo che fossimo qui per quello, Sommo Maestro. A cosa ti serve, questa squadra?”
Raistan frenò una risposta poco educata e chiuse gli occhi per mantenere il controllo. Aveva ricominciato a sfrecciare avanti e indietro per il soggiorno, con la faccia di uno che sia sul punto di vomitare da un momento all’altro.
“Per aiutarmi a liberare una persona. Un vampiro di grande valore. Un antico.”
“Ma non mi dire! E chi sarebbe? Ti riferisci al vampiro per il quale stai così clamorosamente trascurando i tuoi doveri nei confronti del Clan da due anni a questa parte?”
“Io non sto…”
“Oh, sì che lo stai facendo. Quanti richiami ufficiali ti abbiamo inviato in questi mesi? Decine. Completamente ignorati. E adesso pretendi di mettere in pericolo valenti membri del nostro Clan per salvare il… pervertito con cui ti diverti? Non se ne parla, Sommo Maestro. Non finché io sarò un membro del Kilarmeth. Riguardo alla tua imperdonabile mancanza di rispetto… avrai presto nostre notizie. Buona serata.”
Raistan lo sentì arrivare e seppe di non poter fare nulla per fermare l’improperio che gli stava emergendo in gola. E nemmeno voleva, cazzo.
“Vai a fare in culo tu e il tuo tribunale, stronzo. La pagherete, questa è una promessa. Buona serata anche a te.”
Questa volta il telefono attraversò in volo tutta la stanza e Raistan lanciò un urlo spaventoso di pura furia.
“Cazzo! Cazzo! Io li ammazzo, quei bastardi!”
Greylord, seduto sul divano, abbassò la testa contro la mano e la scosse.
“Tu sei pazzo. Non sopravvivrai a stanotte, te ne rendi conto?”
“Non me ne frega un cazzo! Non sono loro che comandano, sono io!”
“Raistan!”
Il richiamo imperioso di Greylord ebbe il potere di interrompere il distruttivo treno di pensieri su cui l’Olandese si stava imbarcando. Si voltò a guardarlo, con gli occhi che mandavano lampi e i pugni che si contraevano e si allargavano senza che lui ne fosse minimamente consapevole.
“Cosa?” ringhiò, scoprendo i canini in una smorfia spaventosa.
“Non puoi continuare così, stai dando i numeri. Calmati. Non è questo il modo di risolvere le cose. Il tuo amico ha bisogno di qualcuno che pensi, non di un pazzo che sbraita tutto il tempo e si scava la fossa con le proprie mani. Adesso richiami quel bastardo di giudice e ti scusi con lui. Hai sempre detto che è una persona abbastanza comprensiva, no? Fallo ragionare. Promettigli che ti impegnerai di più col Clan, in futuro, ma fagli capire che hai assoluto bisogno di quei vampiri, per questa faccenda. Fallo. Adesso.”
“No. Neanche morto. Non posso.”
“Quindi il tuo orgoglio è anche più importante della vita del tuo amico?”
Raistan abbassò la testa e prese a fissarsi le nocche delle mani, con sguardo cupo.
“Non servirà a niente. Quelli godono a umiliarmi.”
“Forse. Ma se non ci provi e le cose andranno male, ti rimarrà sempre il rimorso di non averlo fatto.”
Con un sospiro, l’Olandese raggiunse il telefono, miracolosamente intatto dopo un atterraggio sul divano, e compose il numero della Casa Madre. Lasciò squillare a lungo, ma nessuno rispose. E dire che Ramsey avrebbe dovuto essere lì per quello, quando lui era assente. In effetti non era mai accaduto prima. Brutto segno. Bruttissimo.
“Allora?” lo incalzò Greylord, che stava incominciando a farsi contagiare dal malessere dell’amico.
Raistan scrollò la testa. “Si stanno preparando, ci scommetto i canini. Come hai detto tu, forse non sopravvivrò a questa notte. Non m’importa di me, davvero. Io sono… trascurabile. Uno psicotico che in trecento anni e passa ha fatto danni a non finire. Se sparissi, sarebbe molto meglio per tutti. Però gli ho promesso che lo avrei sempre protetto. Gliel’ho giurato poche sere fa, sai. Com’è stato ingenuo e presuntuoso da parte di uno che non riesce nemmeno a non mettere nei casini se stesso…”
“Ihhhhhhhh, come sei noioso e funereo! Brutta razza, sempre detto! Se non potrai avere una squadra di vampiri, ne avrai una di licantropi. Allora sì che per quei russi del cazzo inizierà il vero divertimento!”
Raistan lo fissò per un attimo, poi distolse lo sguardo in tutta fretta perché il lycan non lo vedesse riempirsi di lacrime. Provò un impeto di affetto così forte che, se non si fosse chiamato Raistan Van Hoeck, probabilmente gli sarebbe balzato addosso per abbracciarlo. Invece alzò le spalle e disse solo: “Basta che teniamo i finestrini aperti sul furgone che useremo, o morirò per la puzza di cane” anche se la sua voce suonò curiosamente malferma, nel dirlo. E Greylord, che oltre ad essere un lupo era anche un gran volpone, sogghignò.
“Non c’è di che. Dai, studiamoci il file di quel bastardo. Direi che se riusciamo a far parlare lui, scopriremo dove nascondono il tuo amico. Come si chiama, a proposito?”
“Chi?”
“Il tuo amico, no?”
“Guillaume. Guillaume De Joie.” Solo pronunciare quel nome lo faceva star male.
“Bel nome da fighetto…”
“Glielo dico sempre anch’io” ghignò Raistan. Era il primo sorriso che gli distendeva i lineamenti da quasi due giorni.
Lavorarono al file mandato dall’hacker per le successive due ore, poi Greylord lo convinse ad uscire, per una visita esplorativa all’Amaranth: “Entrerò solo io, tu mi aspetterai in macchina e ti farai un sonnellino di un paio d’ore. Devo dirtelo, vampiro, hai un aspetto spaventoso. Io vedrò se il nostro amico è in giro e cercherò di scoprire altre cose interessanti, d’accordo?”
“Va bene… pensi che potremo agire già domani?”
“Penso che non ci saranno problemi. Ai miei ragazzi farà piacere avere qualcosa da fare, anche se non faranno salti di gioia a collaborare con te.”
“Posso immaginare.”
“Dai, muoviamo le chiappe. Vado a mettermi in ghingheri, poi si parte.”

Un’ora dopo erano parcheggiati a breve distanza dal locale. Greylord aveva ragione: Raistan aveva l’aspetto di qualcuno che avesse trascorso le ultime dieci ore in uno spremiagrumi industriale, con uno sguardo stregato che metteva a disagio il vecchio licantropo, le mani che tremavano e i capelli insolitamente arruffati. Non appena l’amico scese dalla macchina, appoggiò la testa al finestrino e si addormentò senza nemmeno rendersene conto.

*

“Tutto fatto! Ho individuato quel piccolo bastardo! Certo, è più protetto del Presidente degli Stati Uniti, ma troveremo il modo di restare da soli con lui per il tempo che ci serve a sapere quello che vogliamo. Oh, buonasera, dormito bene?”
Raistan trasalì come se gli avessero sparato, quando il lycan tornò in macchina, quasi tre ore dopo.
“Riposavo gli occhi” rispose, con voce impastata. Si passò una mano sul viso e cercò di focalizzare la propria attenzione sull’amico. “Quindi c’è. Nonostante quello che è successo, ha il coraggio di girare ancora da queste parti. Bene, bene. Dicevi dei suoi sgherri…”
“Sì. Sono in molti e non lo mollano nemmeno quando va al cesso, ma io ho a disposizione tutti gli uomini che voglio, quindi li seppelliremo.”
“No. Non voglio rischiare che Dancenko fugga, o peggio, crepi prima di aver saputo quello che mi interessa, quindi faremo a modo mio.”
“E sarebbe?”
Il vampiro glielo spiegò. Man mano che parlava, Greylord diventava sempre più pallido.
“Ma è una follia! Affidarsi così ciecamente alla tecnologia! Lo sai com’è andata l’ultima volta, con uno di quegli aggeggi! No, no, non mi piace, ci sono altri modi!”
“No. Non dobbiamo mettere in allarme quelli che tengono prigioniero Guillaume, potrebbero decidere di spostarlo o addirittura di ucciderlo, se si sentissero minacciati. Così è più sicuro.”
“Più sicuro per chi?”
“Per tutti. E poi ne avrò due, addosso. Non andranno mica in tilt entrambi, no?”
“Non mi piace, vampiro. Ho una responsabilità enorme sulle spalle. Non so se me la sento. Se qualcosa andasse storto…”
“Non succederà. Mi fido di te.”
“Tu sei fuori di testa, lo sai?”
“Sì. Me lo hanno detto. Adesso accompagnami un attimo a casa, lycan. Devo prendere delle cose. E poi, se posso, vorrei tornare a casa tua. Sempre che non ti dispiaccia.”
“Terribilmente, in effetti.”
Nel vedere l’espressione abbacchiata dell’Olandese, Greylord scoppiò a ridere e quasi lo ribaltò con una pacca sulla spalla. “Sto scherzando, idiota! Dai, andiamo. Devi cercare di dormire, hai capito? Come vanno le… ehm… fitte?”
“Non l’ho più sentito. E non è una buona notizia. Può voler dire che si sta indebolendo sempre di più, oppure che…”
“Ahhh, non ricominciare. Su, sbrighiamoci. C’è un bel film in TV. Magari ce lo possiamo guardare insieme…”
Dopo, tutto accadde in modo talmente rapido che Raistan, nei giorni che seguirono, si chiese più volte se avrebbe potuto evitarlo, ma non fu in grado di rispondere. Proprio inaspettato non fu. Dopo la discussione con Rafael, sapeva che prima o poi gli avrebbero scatenato addosso i loro cani da guardia, ma non immaginava che sarebbe avvenuto così presto.
Successe appena ebbero parcheggiato di fronte al cottage di Raistan a Kensington: fece appena in tempo a percepire un forte odore di vampiro nell’aria, qualcosa di cui si accorse anche Greylord e che lo spinse a ringhiare, che la portiera della BMW si spalancò e una torma di uomini con fucili automatici gli si parò davanti, armi spianate. Indossavano tutti giubbotti di pelle simili, con la K rossa ricamata sulla manica. I Pretoriani. La guardia privata del Kilarmeth, niente meno. Non erano passate nemmeno cinque ore, e quei bastardi erano già lì.
“Scendi dall’auto, Sommo Maestro. Subito” disse un graduato, un pel di carota dall’aria gelida che non gli pareva di aver mai visto prima. D’altronde i Pretoriani non si mischiavano ai Diurni comuni. Erano un branco di stronzi molto presi dal loro ruolo. Come i loro superiori, in effetti.
Greylord gli posò una mano sul braccio, come a volerlo trattenere, ma lui scosse la testa. Il veicolo era circondato, e non voleva mettere in pericolo l’amico con qualche azione avventata. Aveva già fatto abbastanza, in quel senso.
“Ti ho detto di scendere, Raistan Van Hoeck. Non farmelo ripetere. I miei uomini hanno il grilletto facile.”
“Scenderei se ti spostassi, coglione.”
Il pretoriano fece un passo indietro, imitato dai propri uomini, per permettergli di smontare dal veicolo. Anche Greylord scese, i nervi che sfrigolavano per la vicinanza di tutti quei potenziali nemici. Un lycan meno antico avrebbe ceduto al senso di minaccia e si sarebbe trasformato; lui resistette, ma non poté impedirsi di ringhiare al loro indirizzo, i muscoli tesi e un’espressione di gelo assoluto sul volto.
“Ah, ecco da dove veniva la puzza di cane” disse uno dei soldati, suscitando le risate dei colleghi, almeno una quindicina.
“Brutte frequentazioni, Sommo Maestro, se mi è permesso dirlo” sentenziò il rosso.
“Sempre meglio delle tue. Allora, che cazzo volete da me? Non ho tempo da perdere.”
“Sei in arresto per ordine del Tribunale Supremo dei Diurni, con l’accusa di oltraggio alla Corte. Soldato, ammanetta il Sommo Maestro.”
Raistan percepì un tonfo nel petto, come se il cuore gli si fosse rimesso in moto solo per bloccarglisi un momento più tardi. No. Non poteva succedere davvero. Non in quel momento, con Guillaume in mano a chissà chi. Le braccia gli vennero strattonate dietro la schiena e lui percepì robusto metallo chiuderglisi attorno ai polsi. Non era argento, non faceva male. Forse sarebbe stato meglio, se fosse stato doloroso. Avrebbe attenuato la sensazione sempre più incombente di essere imprigionato in un sogno orribile, di cui non vedeva la fine. Sentì la voce di Greylord levarsi minacciosa all’indirizzo dei soldati, ma non ci fu risposta da parte loro. Freddi e controllati, come ci si aspettava da un corpo di guardia scelto. Si voltò a guardarlo e aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse. Non sarebbe servito a niente. Non oppose resistenza, quando lo sospinsero verso uno dei due furgoni neri materializzatisi davanti e dietro la macchina del lycan. Solo, proprio in quel momento avvertì un’eco della sofferenza di Guillaume attanagliargli lo stomaco, come a voler sottolineare, se mai ce ne fosse stato bisogno, la sua incapacità di fare qualcosa per lui. Dovette chinarsi in avanti e vomitò un denso fiotto di sangue quasi nero, stringendo i denti per non urlare. Qualcuno imprecò. Forse Greylord, forse uno dei soldati. Non era importante. Solo una cosa lo era. Lo fecero salire sul furgone blindato e lo indussero a sedere su una delle panche accostate alla fiancata, per poi prendere posto accanto e di fronte a lui. Le porte si richiusero con un secco rumore metallico, tagliando fuori la luce dei lampioni e ogni speranza.
Aereo. Silenzio, alternato a domande a cui sceglie di non rispondere. O forse non può. Arrivo. Scaletta. Furgone. Pioggia battente che sferza il veicolo, come se migliaia di dita fameliche stessero raspando il metallo, bramando il suo contenuto. Tiene gli occhi chiusi, per non vedere le espressioni soddisfatte dei soldati. Tenta di trasformare la disperazione in odio, ma è troppo esausto per scegliere che cosa sentire.

La prima puntata potete leggerla QUI.