L’Alchimia degli opposti 5 – LSDA

I

Anatoly Viktorovich Dmitriev era tutto ciò che ci si aspettava da un vory v zakone, un ‘ladro nella legge’. O almeno lo sarebbe divenuto col tempo, dal momento che era giovane, dannatamente giovane. Eppure i suoi uomini, il più minuto dei quali avrebbe potuto facilmente spezzarlo in due, lo temevano. Poi c’era il fatto che non era stato in carcere. Non ancora. La permanenza nelle patrie galere era una condizione sine qua non per assurgere all’anzianità richiesta a un vory v zakone Ma, come si dice, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Anatoly Viktorovich Dmitriev era giovane, bello come un attore, impeccabile nel suo completo di Armani. Sedeva su un divano di pelle, il valore del quale avrebbe potuto sfamare quattro famiglie del Dagestan per un anno, circondato da guardie del corpo. Nella stanza accanto, ragazze appariscenti aspettavano solo l’occasione di poterlo compiacere. Poteva sopportare l’onta di essere considerato un semplice mafioso. Le gratificazioni, quelle vere, sarebbero arrivate col tempo. Forse.
“Dunque, signor De Joie, mi faccia capire bene” ripeté per la terza volta. Il suo inglese era fluente, solo una vaga inflessione slava che si accentuava nelle consonanti liquide e nel pronunciare il cognome del suo ospite. Ma quest’ultimo era francese, e si sa, i francesi se possono ti complicano la vita in ogni modo.
Guillaume De Joie si aggiustò gli occhiali sul naso sottile e assunse un’espressione concentrata. Far capire bene la situazione al giovane Viktorovich era il fine ultimo della sua visita all’Amaranth, il night club londinese rilevato dalla famiglia Dmitriev, e in particolare ai locali sul retro, l’opulenza dei quali faceva apparire la Royal Suite del Savoy un ostello della gioventù.
Anatoly Viktorovich Dmitriev non si sforzò di sorridere.
“Lei vorrebbe entrare in affari, sì? Con me”. Guillaume sorrise, invece, davanti a tanta perspicacia. Il giovane Viktorovich era notevole, da molteplici punti di vista. Se solo non fosse stato così russo…
“Sì, è per questo che sono qui” confermò, paziente.
Il russo sollevò la mano fresca di manicure a interromperlo.
“Lo so perché. Non so ancora come. I miei collaboratori hanno ordini precisi riguardo a chi far entrare e per quale motivo. Se siete arrivato fin qui, o siete molto persuasivo, o la vostra guardia del corpo è davvero cattiva” osservò, indicando Raistan in piedi dietro la poltrona del francese.
Era una battuta? Forse. L’umorismo russo era sempre così spregiudicato… Nel dubbio Guillaume sorrise di nuovo. Raistan no. Il suo ruolo di guardia del corpo non glielo consentiva. E comunque non aveva voglia proprio voglia di sorridere davanti a quel manichino. Strappargli la testa e giocarci a dodgeball sarebbe stata un’opzione più interessante. Ma non era il momento, non ancora. Al diavolo Guillaume e i suoi giochetti!
Il francese non parve minimamente turbato dal tono insinuante del giovanotto. Anatoly si comportava in modo cordiale, come può essere cordiale un barracuda che avesse individuato una preda appetibile. E nessuno riusciva ad apparire appetibile quanto Guillaume, quando ci si metteva. Infatti eccolo sorridere, innocente come il mese di aprile, scostarsi i capelli biondi dal viso con una mano, mentre con l’altra lisciava una piega invisibile dai pantaloni bianchi.
“Mettiamola così, Monsieur Dmitriev” abbozzò, soppesando la figura del giovane uomo con malcelato apprezzamento, “La mia guardia del corpo è molto, molto, molto cattiva, e io sono dannatamente persuasivo. Infatti non solo i suoi uomini non hanno trovato nulla da obiettare a farci accomodare, ma anzi sono stati così gentili e solleciti da venire a riferirle della nostra visita. Naturalmente, dopo averci offerto lo champagne” concluse, agitando la flûte che teneva tra le dita.
Anatoly annuì impercettibilmente. Il discorso del francese non faceva una piega. Lanciò un’occhiata ai due buttafuori che avevano accolto così festosamente quell’intraprendente seccatore e il suo cane da guardia. I due uomini non riuscirono a reggere il suo sguardo. Sembravano a stento consapevoli perfino di dove si trovassero.
“Ma non voglio farle perdere troppo tempo” riprese Guillaume, distogliendo il giovane dalle sue cupe riflessioni. “Sapete come si dice in Inghilterra? Il tempo è denaro
“Si dice anche in Russia” lo interruppe l’altro, caustico.
Guillaume sgranò gli occhi, come se Anatoly gli avesse appena rivelato l’esatta ubicazione di Atlantide.
Anatoly Viktorovich Dmitriev sospirò, unì le punte delle dita e si protese verso il francese.
“Mi dica cosa potrei volere da lei, Signor De Joie. O, eventualmente, cosa lei vorrebbe da me. Così ci rendiamo subito tutti conto della situazione, e lei potrà dichiararsi con piena cognizione di causa fortunato o meno che i miei uomini l’abbiano fatta entrare.”
Guillaume strinse le labbra. Finse per una manciata di secondi di valutare le parole del russo, di cercare in esse un significato che fosse meno che minaccioso. Finse perfino di non aver udito il ringhio sordo di Raistan alle proprie spalle.
“Vediamo, Monsieur Dmitriev… Cosa lei potrebbe volere da me. Le rispondo subito” annunciò, raggiante. Quando infilò la mano nella giacca quattro uomini scattarono in avanti. Lo stesso fece Raistan, a una velocità tale che nessuno dei presenti nella stanza fu in grado di capire come fosse arrivato da dietro il divano davanti al proprio padrone.
Guillaume sbatté le palpebre, come se non comprendesse il motivo di tanta agitazione. Ritirò la mano dall’interno della giacca, rivelando una fialetta.
A un gesto di Anatoly gli sgherri si ritirarono. Raistan no. Anzi, finse di ignorare Guillaume, che gli bisbigliava di scansarsi. Solo quando si sentì afferrare per un lembo del trench, si degnò di lanciargli un’occhiata da sopra la spalla. Quello che lesse nei suoi occhi gli fece capire che era il caso di pazientare ancora un po’. Tornò al proprio posto nascondendo le zanne con un broncio ostentato.
“Cos’è quella?” domandò Anatoly. Da quando la fialetta era apparsa tra le dita del francese, tutta la sua attenzione ne era stata catalizzata. Ora ne seguiva i movimenti sinuosi, come ipnotizzato.
“Oh, monsieur, è qualcosa che non ha mai sperimentato” rispose il francese, con voce suadente. “E le garantisco che, una volta provato, non potrà più farne a meno.”
Anatoly ostentò un tiepido interesse.
“Ho appena acquisito un nuovo cuoco che soddisfa pienamente le mie esigenze e quelle dei miei clienti” annunciò, con noncuranza. Ma i suoi occhi non lasciavano la fialetta, e il liquido che occhieggiava al suo interno.
Quando Guillaume la inclinò, esso colò lungo la parete di vetro, lentamente, lasciando una scia color rubino.
“Me ne compiaccio per lei, Monsieur, ma posso affermare con assoluta sicurezza e senza timore di essere smentito, che questo è molto, molto meglio” lo redarguì, serafico. E aggiunse, quasi casualmente: “Anzi, dovrebbe provarla.”
Anatoly fece una risata metallica, che rivelò i denti perfetti.
“Non provo mai per primo la cucina locale” sentenziò, schioccando le dita. Subito uno dei suoi tirapiedi gli si accostò. Anatoly gli bisbigliò qualcosa in russo. L’uomo si allontanò con passo marziale e sparì nella stanza accanto.
Ne fece ritorno dopo pochi secondi in compagnia di una ragazza. Nonostante il trucco esagerato e il vestito di rete dorata che copriva a stento le forme morbide, era poco più che una bambina. Lasciò scivolare i grandi occhi ombreggiati dal kajal sugli uomini presenti nella stanza.
Attendeva ordini. Probabilmente non era nuova a certe situazioni.
“Lo faccia assaggiare a Caska, il suo nettare, De Joie” propose Anatoly, e a un suo cenno la ragazza si accostò al francese e rimase a guardarlo, docile.
“Con piacere” assentì Guillaume, rivolto a Anatoly, ma con gli occhi fissi su quella bambola così graziosa e fuoriluogo.
Aprì la fialetta e sollevò la mano per invitare Caska a raggiungerlo. Lei obbedì e gli si sedette sulle gambe. Anatoly manifestò il proprio assenso con un mezzo sorriso.
Guillaume posò l’indice sull’apertura della fialetta, la inclinò e lasciò che il liquido bagnasse la punta del dito. Quando lo ritirò, una goccia vermiglia brillava sulla pelle candida, solo una minuscola puntura di spillo. La mostrò a Anatoly, come un prestigiatore in procinto di eseguire un numero di magia, poi porse il dito a Caska che socchiuse le labbra rosso-lacca per accoglierlo obbediente. Avvolse il dito con la bocca, con la lingua rosea, succhiando con una voluttà perfino eccessiva per quella piccola, minima quantità di liquido, gli occhi fissi in quelli di Guillaume, il seno soffice premuto contro il suo braccio. Anatoly osservava lo spettacolo assorto.
Quando il francese estrasse il dito dalle labbra della ragazza apparve evidente che lei opponesse una seppur debole resistenza. Per un po’ non accadde nulla, l’intera scena congelata in un istante di sospensione perfetta. Poi dalle labbra di Caska sfuggì un piccolo sospiro. Nessuno, a parte Guillaume e Raistan alle sue spalle poté notare il mutamento avvenuto sul suo volto, il modo in cui le pupille si erano dilatate all’inverosimile, inghiottendo tutto il verde dell’iride, per poi ridursi a capocchie di spillo. Ma tutti videro come si avvinghiò a Guillaume, affondando la bocca nella sua, abbarbicandosi alle sue spalle, al suo collo, le dita affondate nei suoi capelli. Il francese subì quell’assalto senza scomporsi, nemmeno quando la ragazza lo imprigionò tra le gambe, stritolandolo in una morsa di feroce lussuria.
“Finiscila Caska, subito” ordinò Anatoly, con una smorfia infastidita, ma era chiaro che stava seguendo con molta attenzione la scena.
La ragazza non diede l’impressione di aver udito, anzi, rinnovò il suo assalto, piegando all’indietro la testa di Guillaume e iniziando a percorrere con la lingua la curva armoniosa del suo collo.
“Ti ho detto di finirla, stupida puttana” ripeté il russo, e fece un gesto a uno degli sgherri, che staccasse quella cagna in calore dal suo nuovo amico.
Detto fatto, l’uomo raggiunse Caska e l’afferrò brutalmente per un braccio. Il movimento della ragazza fu così fulmineo da non risultare visibile, ma lo schiocco della spalla che usciva dalla sede fu ben udibile per tutti. L’uomo proruppe in un ululato di dolore, mentre la ragazza tornava a baciare Guillaume come se nulla fosse accaduto.
Quando un secondo tirapiedi l’assalì, si rivoltò come una furia, colpendolo con una violenza tale da farlo volare oltre la stanza, contro il muro. Il terzo si ritrovò con i testicoli imprigionati nella sua mano serrata e gridò, gridò, e continuò a gridare finché Caska non mollò la presa: allora si accasciò piagnucolando sul tappeto.
La ragazza si guardò intorno, come valutando se ci fosse qualcun altro da sistemare, e Anatoly Viktorovich Dmitriev poté vedere la trasfigurazione che si era operata in lei. Il volto, se possibile ancora più incantevole, aveva acquisito un che di alieno, di spaventoso. La pelle lasciata generosamente scoperta dalla rete sembrava emanare una debole luminescenza.
Quando la porta si spalancò e altri tre sgherri fecero irruzione, Caska sibilò e soffiò, avventandosi su di loro. Ne stese due con la facilità con cui avrebbe abbattuto due birilli, e usò il terzo come leva per un triplo salto mortale, che le permise di raggiunge l’uscita. Si udirono grida dalla stanza accanto, altri rumori di lotta, perfino spari, poi un silenzio attonito.
Quello stesso silenzio strisciò nella stanza, in cui erano rimasti solo Guillaume, Raistan e Anatoly Viktorovich Dmitriev. Quest’ultimo sembrava ancora deciso a mantenere una parvenza di distaccata sicurezza, ma il pallore del suo volto e il luccichio vagamente febbricitante nei suoi occhi raccontavano una realtà ben diversa.
“È… notevole” ammise, e subito si schiarì la voce. “Il mio cuoco cucina qualcosa di simile, in realtà. Ma è buona” continuò, fissando con intenzione Guillaume.
“Oh, lo so che è buona” commentò il francese, raggiante. “Ci ho messo il meglio di me, se capisce cosa intendo.”
No, il russo non poteva capire, ma Raistan sì. Sbuffò rumorosamente. Doveva andare avanti ancora un pezzo quella pantomima? Le prodezze della ragazza gli avevano messo addosso una certa frenesia, sia quelle compiute sui tirapiedi di Dmitriev, sia su Guillaume. Cominciava ad averne le palle piene di tutta quella diplomazia gratuita.
“Riguardo al suo cuoco, Anatoly” riprese Guillaume, e non sorrideva più, affatto. “è proprio lui che speravo di trovare, venendo qui” ammise.
Anatoly non accusò il colpo, almeno all’apparenza.
“Ah, sì, immagino si possa fare” rispose con noncuranza. “Anzi, sarà opportuno che lo incontri, se entreremo in affari con quella roba… a proposito, ha un nome?” domandò, cercando con gli occhi la fialetta che era tornata a sparire nel panciotto immacolato del francese.
“LSDA, se proprio dobbiamo dargliene uno” fece Guillaume, con una piccola smorfia. “è un acronimo per Le Sang Des Anges. Non è tremendamente poetico?”
Il russo sbuffò. I russi, si sa, sono così emotivi…
“Non vuole provarla, prima di concludere l’affare?” propose il francese, tirando fuori nuovamente la fialetta. Raistan, che era stato inaspettatamente bravo e buono fino ad allora, ebbe un moto di irritazione. “E cazzo, dobbiamo proprio?” sbottò.
Anatoly non si scompose per quell’uscita irrispettosa. Ormai tutta la sua attenzione era catalizzata dalla fialetta. Guillaume gliela porse con un gesto solenne, e con altrettanta solennità l’uomo l’afferrò. Raistan ringhiò una bestemmia.
“Ah-ah” esclamò Guillaume, vedendo il russo portarsi la fialetta alle labbra con uno slancio davvero eccessivo. “Solo una goccia, glielo consiglio. Una dose eccessiva potrebbe avere effetti collaterali non del tutto gradevoli.”
Anatoly fece una smorfia, gettando il capo all’indietro e bevendo un sorso generoso, ma senza svuotare la fiala. Guillaume sospirò, scuotendo il capo.
Il corpo del russo fu scosso da un tremito, poi da un convulso violento, come se fosse stato attraversato da una scossa elettrica. Il bel volto si deformò in una maschera di dolore e un grido gutturale gli sfuggì dalla gola. L’espressione di Guillaume gridava te lo avevo detto in tutte le lingue del mondo, ma fu una serie di improperi in russo a essere vomitata dalla bocca contratta dell’uomo. Poi, come era arrivata, la crisi parve affievolirsi. Le pupille di Anatoly si dilatarono, e si fissarono su Guillaume con un’espressione di rabbiosa concupiscenza. Si alzò di scatto, e nel farlo colpì il divano, che si spaccò in due come fosse fatto di polistirolo. Le due metà andarono a sbattere ai lati opposti della stanza. Il russo guardò incredulo entrambi i monconi di legno e pelle e imbottitura. Guardò di nuovo Guillaume, e rise istericamente. Si rivolse ai due energumeni che erano entrati nella stanza attirati dal rumore, e a uno spezzò un braccio con la facilità con cui avrebbe spezzato un bastoncino da Shangai, all’altro polverizzò una rotula con un calcio.
Poi si lanciò addosso a Guillaume, le mani contratte. Solo allora il francese si alzò a sua volta, senza fretta apparente, e sollevò un’unica mano a frenare il suo slancio. Lo afferrò alla gola, bloccandolo in una morsa d’acciaio. Anatoly si dibatté, consapevole della propria nuova forza, del fatto che nessun uomo avrebbe potuto contrastarlo. Nessun uomo comune.
E allora forse capì, un istante prima che Guillaume lo attirasse a sé e affondasse le zanne nel suo collo. Cercò di gridare, cercò di parlare, e la voce gli uscì in un gorgoglio scarlatto dalla gola squarciata. Forse, dopotutto, non sarebbe mai diventato un vory v zakone.

II

“E comunque non mi sono divertito” ripeté di nuovo Raistan, mentre seguiva Guillaume nel labirinto che si estendeva nei sotterranei dell’Amaranth. Non era vero. Un po’ si era divertito, quando il francese gli aveva lasciato libertà d’azione, e anzi, gli aveva chiesto di aprirgli la strada attraverso gli sgherri russi ancora in piedi. Finalmente aveva potuto smettere di guardare male la gente e basta, e aveva lasciato che la sua aura malefica si levasse nell’aria ad accrescere il panico e la confusione delle povere guardie del corpo di Anatoly, un attimo prima di scattare con un ruggito, méta i loro corpi surriscaldati e saturi di ormoni. Quattro, ne erano rimasti.
Il primo, un bestione di poco più basso di lui, aveva sgranato gli occhi e gli aveva artigliato i capelli, nel maldestro tentativo di tenere lontane le sue zanne dalla propria gola; un attimo dopo, il suo cuore ancora pulsante terminava la propria carriera nella mano contratta dell’Olandese, che lo aveva lappato come se fosse un delizioso manicaretto e aveva rivolto all’energumeno un ghigno indiavolato, dipinto di rosso, che poi era stata l’ultima cosa che il russo aveva visto in vita sua.
A quel punto, agli altri tre uomini la fuga era parsa l’opzione più consigliabile, ma i primi due erano stati raggiunti in un battito di ciglia e le loro teste si erano fracassate nell’impatto dell’una contro l’altra, con un orrido scricchiolio molliccio.
L’ultimo era stato il più sfortunato.
Dopo essersi guardato intorno per controllare che la situazione fosse sotto controllo – Guillaume si stava ancora intrattenendo con Anatoly e non sembrava avere particolare fretta –Raistan si era diretto verso di lui a passo tranquillo, fissandolo con sguardo da predatore e un sorriso colmo di promesse di morte. “Dove te ne vai… Andrej? Che ne dici di questa serata? Ti stai divertendo? Che sorpresa, vero, constatare che quelli che credevi due checche si sono rivelate essere anche qualcos’altro! Non è quello che hai pensato da quando siamo arrivati, specie del mio… capo? No, non scrollare la testa, non serve a niente mentire. D’altronde voi russi siete così virili, basta guardare te… ai froci fate fare una brutta fine, giusto? Beh, guarda quel frocio vestito di bianco che bella fine sta facendo fare al tuo capo…Oh oh, capolinea, stronzo” aveva ghignato Raistan, vedendo il russo schiacciarsi con la schiena contro il muro, gli occhi grandi come fanali. Solo a quel punto l’uomo aveva estratto la pistola dalla fondina ascellare nascosta sotto la giacca, chissà perché. Misteri provocati dal panico. La mossa era stata abbastanza inaspettata da interrompere per un attimo l’inesorabile avanzata del vampiro, ma il suo sorriso, invece di affievolirsi, si era fatto ancora più ampio, facendolo assomigliare alla versione albina dello Stregatto.
“Che cosa stavi aspettando, per usarla, una congiunzione astrale favorevole? Dai, spara, grand’uomo. Fammi vedere come sei coraggioso.”
Sei deflagrazioni in rapida sequenza, accompagnate da lampi simili a flash, avevano squarciato il silenzio di morte disceso sui locali privati dell’Amaranth. Il russo aveva visto Raistan sobbalzare con una smorfia di dolore sul viso, come se si fosse trasformato in una marionetta governata da un burattinaio epilettico. Vai giù, maledetto, vai giù!!aveva pensato, ma non era accaduto. Il biondo aveva aggrottato la fronte per un attimo, esaminandosi il petto su cui spiccavano, fumanti, i fori dei proiettili, grossi come pugni, poi gli aveva sorriso di nuovo in quel modo spaventoso, che faceva pensare a tutto ciò che di letale c’era al mondo. Doveva essere un incubo. Non poteva essere diversamente.
“Raggio di sole, ti sei fatto rovinare la camicia nuova, insomma!” aveva detto il tizio vestito di bianco – chiazze di sangue a parte – affiancando il suo accompagnatore e guardandolo con un cipiglio che non riusciva a nascondere una divertita indulgenza.
“Scusa Fiorellino, non ci ho pensato…” aveva risposto il bestione dalla lunga chioma, per poi rivolgere di nuovo l’attenzione sul russo.
“Vedi cos’hai fatto? E adesso chi me la ripaga? Dimmelo un po’!” gli aveva chiesto.
Andrej, con la pistola ancora puntata su di lui, aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma poi aveva rinunciato. L’ultima cosa che aveva visto era un proiettile scivolare fuori da una delle ferite, che si stava rapidamente richiudendo, e aveva avuto la conferma definitiva che fosse tutto un sogno bizzarro; poi la sua testa era volata a parecchi metri di distanza, staccata da un violento manrovescio di Raistan.
Niente di che, insomma, di certo nulla che giustificasse quella colossale perdita di tempo. O forse no. Conosceva troppo bene Guillaume per credere che avesse organizzato tutto quel teatrino solo per brindare con sangue russo, quella notte. Doveva esserci altro, ed era probabile che il loro avanzare tra i corridoi di quel bunker li avrebbe portati al bandolo di quella matassa.
“È qui” annunciò infatti Guillaume, fermandosi davanti a una delle tante porte di ferro, anonime, che si aprivano a intervalli regolari nella parete.
Raistan non fece domande. Afferrò la maniglia e strappò la porta dalla sua sede. Non aveva dubbi che il suo compagno avrebbe potuto fare altrettanto, ma gli sembrava in linea col suo ruolo per la serata.
L’ambiente che si rivelò ai loro occhi era inequivocabilmente un laboratorio, e visti i traffici loschi in cui il mai abbastanza presto defunto Anatoly Dmitriev era invischiato, era improbabile che non fosse un laboratorio analisi. Di certo, l’uomo che accolse il loro arrivo con un lieve cenno del capo non aveva l’aspetto di un medico della mutua.
Guillaume entrò senza alcuna esitazione, puntando dritto verso di lui. Il suo recente confronto con Anatoly aveva inzuppato il davanti del suo impeccabile doppiopetto bianco. Strano che si fosse lasciato prendere così tanto dalla foga, di solito sorbiva il sangue con un’eleganza tale da sporcarsi appena le labbra. L’uomo col camice bianco non parve impressionato da quella vista. In effetti la sua faccia era già di per sé molto più impressionante.
“Che ti hanno fatto…?”
Quella di Guillaume non era una domanda.
L’uomo non rispose, limitandosi a sollevare con un movimento lento le dita a grattarsi una delle tante croste in suppurazione che gli decoravano il volto grigiastro. Non aveva un bell’aspetto, no davvero, valutò Raistan.
“Lasciami indovinare… ti hanno tolto i piercing senza aprirli, amico?” domandò allo sconosciuto.
Dalla natura e dalla posizione delle lesioni era probabile che fosse andata esattamente così.
L’uomo spostò lo sguardo velato da Guillaume a lui.
“Ti sei rimesso in piedi” osservò in tutta risposta, continuando a grattarsi finché dalla ferita non riprese a uscire sangue misto a pus. Parlava con una cadenza greve, come se ogni parola gli rubasse uno sbadiglio. Sembrava preda di un’indicibile sofferenza, dalla quale, tuttavia, si fosse affrancato, raggiungendo in qualche modo una totale, indolente insensibilità. Quando tentò di muoversi barcollò visibilmente. Guillaume fu lesto ad afferrarlo.
“Ti porto fuori di qui. Tornerai come nuovo” disse soltanto. L’uomo non diede segno che la cosa fosse così importante.
“Prima però dobbiamo distruggere questa fogna” aggiunse Guillaume, guardandosi intorno, tetro.

III

“Ma i capelli te li fai da solo o anche il tuo parrucchiere è fatto di acido?” chiese Raistan all’uomo seduto sul sedile posteriore, riferendosi alle striature azzurre che percorrevano la sua chioma. Da quando si erano allontanati dall’Amaranth, con il francese al volante, Raistan non aveva smesso un attimo di punzecchiare il povero Chimico. Si era addirittura sistemato sul sedile con la schiena contro la portiera, per poterlo guardare meglio. Il fatto che l’uomo non gli rispondesse, ma tenesse lo sguardo spento fisso sul finestrino alla propria destra, non lo scoraggiava per niente. Era un animaletto troppo bizzarro per non mettere alla prova la sua sopportazione.
Guillaume gli colpì la spalla con uno schiaffo a cui Raistan reagì con una risatina.
“Lo vuoi lasciare in pace?!” ringhiò il francese.
“Sto solo cercando di fare conversazione, mi dici sempre che dovrei essere più socievole… Allora? Me lo dici chi è che si occupa dei tuoi capelli?”
Raistan si accese uno spinello e tirò una lunga boccata, prima di soffiare il fumo in direzione dell’umano, con aria soddisfatta. Per la prima volta il Chimico parve rendersi conto di dove si trovava e si voltò con lentezza verso l’Olandese, fissandolo con quello strano sguardo remoto. Si sporse in avanti e gli prese la sigaretta dalle labbra, poi si riappoggiò allo schienale e aspirò a sua volta il fumo aromatico, mentre una fugace espressione di sollievo gli attraversava per un attimo il volto martoriato.
“Ma prego, serviti pure, ci mancherebbe!” commentò il vampiro, divertito suo malgrado. “Guillaume, ma dove lo hai trovato un tipo del genere?”
“È una lunga storia, prima o poi te la racconterò. Ma tu lascialo stare, abbi un po’ di pietà. Se non per lui, almeno per le mie orecchie…”
Raistan parve non averlo nemmeno sentito e tornò a rivolgere la sua attenzione sull’umano.
“Che cosa volevi dire con Ti sei rimesso in piedi, prima? Che cazzo ne sai tu?…. Ehi, pianeta Terra chiama Marte, ci sei?”
Non ottenendo risposta per l’ennesima volta, Raistan sbuffò e si rivolse al compagno.
“Tu sai cosa voleva dire?”
“È la persona che mi ha aiutato a recuperarti nella fogna degli Archi. Senza di lui non ci sarei riuscito. Almeno per questo, dovresti mostrargli un po’ di rispetto. Dico sul serio, Raistan. Chiudi la bocca.”
L’Olandese alzò gli occhi al cielo e sbuffò per l’ennesima volta, poi si raddrizzò sul sedile e incrociò le braccia sul petto, immusonito.
“Non si può neanche chiacchierare un po’… Manca molto? Voglio andare a casa a fare una doccia. Puzzo di russo.”
“No. Siamo arrivati” rispose il francese, fermando la macchina in una stradina laterale e indicando l’insegna di un albergo sulla strada principale, alle loro spalle. Non sembrava un posto di lusso, ma nemmeno una topaia. Come avrebbero fatto ad entrare senza dare nell’occhio, conciati com’erano, era un mistero. Quando espresse i propri dubbi a Guillaume, lui gli rivolse un ghigno sbilenco.
“Buchi sulla camicia a parte, tu sei abbastanza a posto, con i tuoi vestiti neri. Conosco il proprietario, mi deve diversi favori. Basterà che tu gli dica che vi mando io e vi darà un’ottima camera dove il mio amico potrà riprendersi con tranquillità.”
“Quindi devo accompagnare io la mummia? Devo anche metterlo a letto e rimboccargli le coperte?”
“Sarebbe molto gentile da parte tua. Intanto…”
Guillaume si morse il polso, facendone sgorgare un rivolo di sangue, e lo porse all’uomo sul sedile posteriore che si voltò a guardarlo, gli occhi animati per la prima volta da una stilla di vita.
“Bevi. Ti farà sentire molto meglio” disse, incoraggiante. Raistan serrò la mascella e distolse lo sguardo, cupo come una tempesta invernale. Quando l’umano prese la mano di Guillaume tra le sue e avvicinò le labbra esangui al suo polso, l’Olandese non riuscì a trattenere un ringhio di contrarietà che gli fruttò un’occhiata interrogativa del francese. Dopo pochi istanti, le lesioni sul viso del Chimico presero a richiudersi e tutto il suo corpo fu scosso da un violento brivido, che non si placò nemmeno quando Guillaume gli sottrasse il polso.
“Drogato del cazzo…” bofonchiò Raistan, scendendo dalla macchina e richiudendo la porta con tanta violenza da far vibrare tutta la vettura per qualche secondo. Si accese una normale sigaretta e prese a camminare avanti e indietro con impazienza, lanciando occhiate di fuoco al compagno attraverso il parabrezza. Non gli era piaciuto vedere quell’umano nutrirsi del sangue di Guillaume. Non gli era piaciuto nemmeno un po’, anche se sapeva che non c’era nessun sottinteso sessuale nel gesto con cui il francese glielo aveva concesso. Quando entrambi scesero dalla Maserati, Raistan gettò a terra il mozzicone e atteggiò il viso alla migliore simulazione di indifferenza di cui era capace, ma sapeva che nulla, del suo stato d’animo, poteva sfuggire all’altro. Bene, meglio così. Che sapesse come la pensava sull’argomento.
“Possiamo andare? Non ho tutta la sera.”
“Andate. Il padrone dell’hotel si chiama Gary Soames. Digli che voglio la migliore sistemazione per il nostro amico e che passerò domani ad accertarmi che le mie richieste siano state soddisfatte. Che abbia cibo e tutto quello che chiede, ok? Ti aspetto qui.”
Il grugnito con cui Raistan accolse le sue parole poteva avere molteplici significati, nessuno dei quali incoraggiante.
“E… Raistan…?”
“Che cosa?!” rispose lui, voltandosi con esasperazione mentre già si stava avviando verso l’albergo, trascinandosi dietro il Chimico.
“Sii gentile. Per favore.”
Guillaume gli si avvicinò in una ventata e gli passò una mano fra i capelli, fissando gli occhi nei suoi. La postura di Raistan si fece subito un po’ più morbida. Almeno non sembrava più che volesse saltare alla gola di qualcuno da un momento all’altro. Lo sguardo, però, conteneva un avvertimento quanto mai esplicito, fatto di gelosia e possesso. Tu sei mio. Il tuo sangue appartiene solo a me, dicevano quegli occhi. Guillaume lo baciò con dolcezza sulle labbra, trattenendogli la testa con una mano dietro la nuca. Adesso anche lui era ansioso di tornare a casa.
“Me lo prometti, mon ange?”
“Ma sì, sì. Farò del mio meglio, ok?”
“Immagino che dovrò accontentarmi.”
“Dovrai.”

*

Superarono facilmente il potenziale ostacolo della reception: appena Raistan ebbe pronunciato il nome di Guillaume, l’umano in comando si fece incredibilmente gentile e servizievole e li condusse personalmente in quella che definì “la migliore stanza dell’albergo”, assicurando loro che avrebbe fatto recapitare in camera una cena degna di un gourmet. Niente moduli, niente documenti; per l’ennesima volta, Raistan si stupì dell’influenza del suo amico anche nel mondo umano.
Il Chimico, il cui aspetto, grazie al sangue di Guillaume, era decisamente migliorato, ma che manteneva le stesse movenze lente e pesanti, si sedette sul letto appena l’uomo se ne fu andato. Non curiosò in giro per la camera, non ispezionò il bagno, non accese la TV, non fece assolutamente niente, a parte sedersi e fissare il buio oltre la finestra. Raistan si chiese che cosa il francese si aspettasse da lui, in termini di gentilezza e perché tenesse tanto a quella curiosa approssimazione di essere umano pensante.
“La camera ti va bene?” gli chiese bruscamente, accendendo la luce in bagno e constatandone la pulizia.
“Sì, bene” rispose il Chimico, dopo attimi di apparente, profonda riflessione.
“Fossi in te, mi farei un pasto decente, una doccia di un mese e una bella dormita, esattamente in quest’ordine. C’è qualcos’altro che posso fare per te?”
“Mi piacerebbe assaggiare una goccia del tuo sangue.”
Anche questa frase venne pronunciata con una lentezza esasperante, come se le parole provenissero da abissi di inimmaginabile profondità. Mentre parlava, i suoi occhi di quello strano non-colore che caratterizzava il suo aspetto si posarono su Raistan, senza, per altro, rivelare emozioni particolari.
“Non è proprio il caso, anzi, gradirei che tenessi la bocca lontana anche dalle vene del mio amico.Stai giocando troppo col fuoco. Riposati. Domani qualcuno verrà a darti un’occhiata, ok?”
Non attese il cenno di assenso dell’uomo e raggiunse Guillaume che lo stava ancora aspettando nella stradina di fronte all’albergo. Era seduto in macchina, perfettamente immobile con gli occhi chiusi, perso in una delle arie che gli piaceva ascoltare con somma disperazione di Raistan, che invece le detestava. La prima cosa che fece, infatti, dopo aver preso posto al suo fianco, fu di azzerare il volume, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo.
“Fatto?” gli chiese il francese, senza nemmeno aprire gli occhi, ma ruotando di nuovo la manopola del volume.
“Sì, fatto. Adesso possiamo tornare a casa, per favore?”
“Sei stato gentile con lui?”
“Addirittura amorevole. E tu, sarai gentile con me? Mi hanno addirittura sparato, per colpa tua” disse, con tono volutamente petulante.
Guillaume si voltò a guardarlo e sorrise, scrollando la testa.
“Sarò gentilissimo” rispose, e nel farlo gli appoggiò una mano sulla coscia.

*

“Ti dico di sì! Li ho visti io! …. No, non ero fatto, devi credermi! ….. ma sì, ti dico di sì, anche Anatoly ha preso quella roba! …. Tutto combinato un cazzo, ti dico! .… gli hanno sparato sei volte, a quello grosso, non ha sentito niente! …. Va bene, ma tu manda qualcuno! Ok. Sì, dove cazzo vuoi che vada?”
Un piccolo uomo dall’aspetto molto arruffato si accese una sigaretta presso l’uscita secondaria dell’Amaranth, ma l’accendino gli cadde due volte, prima che ci riuscisse. Era incredibile quello che aveva visto, davvero pazzesco. Dovevano assolutamente mettere le mani su quella roba che la ragazza e Anatoly avevano bevuto prima di trasformarsi in belve. Un prodotto simile poteva avere infiniti utilizzi, soprattutto in campo militare. Era stata una fortuna, per lui, uscire indenne da quell’inferno, e anche la morte di Anatoly non costituiva chissà quale tragedia. Gli stava bene, a quel pallone gonfiato, che lo aveva sempre sfottuto per la sua scarsa statura. Intanto, grazie al suo aspetto poco appariscente, lui si era salvato e quello stronzo era morto. E se tutto andava come doveva andare, e fossero riusciti a mettere le mani su quel LSDA o come diavolo si chiamava, lui, Vladimir Dancenko, sarebbe diventato il nuovo signore del castello. Sfidava chiunque a impedirglielo.

*

Guillaume entrò in bagno mentre Raistan aveva appena cominciato a spogliarsi. Il francese indossava soltanto un accappatoio bianco, i capelli umidi pettinati all’indietro a scoprirgli la fronte candida. Notò i movimenti un po’ esitanti con cui il compagno si liberava della camicia sforacchiata, il viso contratto in una smorfia di dolore e gli si avvicinò con un sorriso.
“Mon pauvre petit… lascia che ti aiuti…” gli disse, aprendo gli ultimi bottoni e sfilandogli l’indumento dalle braccia. Sei enormi lividi violacei spiccavano sul torace altrimenti immacolato, tre nella parte alta del petto e gli altri tre a scendere, come se chi aveva sparato avesse man mano perso il coraggio e la determinazione, abbassando sempre di più la mano armata. Guillaume posò baci delicati su ognuna delle lesioni, seguendo a sua volta un percorso verso il basso, fino a ritrovarsi in ginocchio davanti all’Olandese, che non aveva ancora mosso un muscolo, ma aveva accolto le sue effusioni con un sospiro soddisfatto. Gli sbottonò i jeans neri e percorse con la lingua la striscia di peli chiarissimi che dall’ombelico si inabissava nei pantaloni, ottenendo un primo mugolio di piacere. Percepiva lo sguardo di Raistan puntato su di lui e nascose un sorriso, ben sapendo l’effetto che avevano i suoi baci. Amava quel corpo, potente e flessuoso nello stesso tempo, e amava anche il suo odore, non ancora modificato dai profumi artificiali dei detergenti, su cui spiccava, imperioso, quello del sangue versato a causa dei proiettili. Quando gli abbassò i pantaloni sui fianchi e rivolse le sue attenzioni al suo membro, Raistan gli artigliò i capelli con una mano e rovesciò la testa all’indietro, socchiudendo gli occhi con un vago sorriso. Non era una stretta dolorosa e il francese non vi si oppose, sorridendo a sua volta. La prontezza con cui il corpo dell’Olandese reagiva alle sollecitazioni era qualcosa che lo aveva stupito, all’inizio della loro storia, ma che non mancava mai di deliziarlo. Lo avvolse con le labbra e gli posò le mani sui fianchi, sentendolo sussultare, felice di essere il veicolo di quel piacere che gli si poteva leggere sul viso, ora, e in ogni fibra. Lo indusse a inginocchiarsi a sua volta e prese possesso della sua bocca con un bacio esigente, accarezzandogli nel contempo il viso, i capelli, la schiena attraversata da mille cicatrici, con le mani di Raistan che lo liberavano con impazienza dell’accappatoio e percorrevano il suo corpo con urgenza febbrile. Nessuno dei due aveva ancora detto una parola, non ce n’era bisogno. I loro occhi fissi gli uni in quelli dell’altro dicevano tutto quello che c’era da dire, almeno fino a quando l’immagine di Guillaume che concedeva il proprio sangue al Chimico non attraversò la mente di Raistan come un fulmine a ciel sereno. Le sue dita affondarono nella carne delle spalle del francese e un ringhio animalesco gli sfuggì dalle labbra. Guillaume si staccò per un attimo da lui, solo per tornare ad accarezzargli il viso e a ricoprirglielo di baci delicati.
“Lo so, lo so. Non era niente, solo… vita. Ci sei solo tu, moncher. Solo tu.”
Raistan lo fissò, serio, ancora per un attimo, poi lo indusse a coricarsi sul pavimento.Ricambiò con generosità i baci su tutto il suo corpo, poi scese ad esplorarlo con mano esperta finché non lo giudicò pronto ad accoglierlo con altrettanta generosità. A un certo punto percepì le labbra del francese percorrergli il lato del collo e inclinò la testa per invitarlo a nutrirsi da lui, suggellando in quel modo, il loro modo, la loro unione, per l’ennesima volta. Quando sentì i denti di Guillaume aprirsi la strada nella sua carne, intensificò le proprie spinte, e dopo pochi istanti venne travolto dall’orgasmo. Rise di gioia, quando al corpo sotto il suo accadde la stessa cosa, e lo abbracciò come a non volerlo più lasciar andare. Erano rare le volte in cui si sentiva davvero felice, ma c’erano momenti come quello, in cui avrebbe voluto che il tempo si fermasse e in cui provava una gratitudine immensa per la persona che aveva reso possibile quella sensazione così bella. Percepiva addirittura una trasformazione sul proprio viso, come se i muscoli si distendessero, finalmente, permettendo al suo sorriso, quello autentico e più dolce, quello del Raistan-che-fu, di riaffiorare e di mostrarsi, se non al mondo, almeno a colui o colei che lo avevano liberato. E poi Guillaume se ne accorgeva sempre, e non lo faceva sentire debole o stupido. Gioiva di quell’apparizione fugace, e non di rado lo ringraziava per avergliela regalata. Lo fece anche quella volta, accarezzandogli il volto e guardandolo quasi con meraviglia e soggezione.
“Com’è bello, il mio angelo…” disse, baciandogli la punta del naso.
“Solo per te. Solo per te” rispose Raistan e gli appoggiò la testa nell’incavo tra collo e spalla, chiudendo gli occhi.

Due ore dopo.
“Raggio di sole, che cosa ti angustia?” chiese Guillaume, rompendo il silenzio della stanza buia. Da quando erano andati a letto, lo aveva sentito rigirarsi come un’anima in pena tra le lenzuola. E dire che avrebbe giurato che si sarebbe addormentato all’istante, come sempre accadeva dopo che avevano fatto l’amore. Raistan gli cinse la vita con un braccio e lo attirò a sé, adattando il proprio corpo al suo, protettivo come il guscio di una conchiglia. Occorse qualche istante perché a Guillaume giungesse la sua risposta.
“Niente… dormi.”
“Non posso dormire, con te che ti agiti in questo modo. Se fossi ancora umano, direi che hai ancora in circolo fiumi di adrenalina, ma nel nostro caso è una possibilità alquanto remota. Ripeto la domanda: che cosa ti angustia?”
“Lo sai che farei qualsiasi cosa per proteggerti, vero? Che non lascerò che qualcuno ti faccia del male. Mai.”
L’eco di un alito gelido sfiorò l’orecchio di Guillaume che rabbrividì e accarezzò il braccio del compagno, intrecciando le dita con le sue. Stava per pronunciare una delle sue battute sagaci, ma la ricacciò in gola, percependo l’autentica preoccupazione dell’Olandese e sapendo quanto fosse difficile, per lui, esprimere i propri sentimenti.
“Sì. Lo so e ti ringrazio. Lo stesso vale per me. Ma so badare a me stesso, quindi non è il caso di preoccuparsi. Però è il caso di dormire, perché siamo molto stanchi entrambi, non pensi?”
Voltò la testa e cercò le labbra di Raistan nel buio, per poi posarvi un bacio delicato. Lo sentì farglisi ancora più vicino e intensificò la stretta sulla sua mano. Dopo qualche istante percepì un nuovo abbandono nel corpo dell’Olandese e capì che si era finalmente addormentato. Lui rimase ancora per un po’ a fissare il buio, una nuova inquietudine a scavargli dentro come un tarlo.

IV

La ragazza aveva ali dorate, con bordi taglienti e piume che tintinnavano accarezzate dal vento. Ogni piuma era un dardo, era la punta di una spada, pronta a conficcarsi nel cuore di chiunque avesse tentato di farle ancora del male.
Il mondo era bello e selvaggio, attraverso il velo scarlatto che le era sceso sugli occhi. O forse no, era il contrario, qualcuno o qualcosa aveva sollevato ogni velo, strappato ogni filtro, permettendole di vedere finalmente ciò che la circondava, quanto meravigliosa e terribile fosse la realtà. Aveva corso attraverso la notte, e dalla sua pelle si staccava polvere di fata, che cadeva come neve e lasciava scie di luce al suo passaggio.
Non si era mai sentita così bella.
Non si era mai sentita così viva.
Aveva fatto l’amore con tutti gli uomini del mondo, e con tutte le donne, e forse a qualcuno aveva fatto male, così male… Ma ora era stanca, tanto stanca. Era salita sulla cima del palazzo più alto, oltre le nuvole, e lassù aveva costruito un nido di piume rosa e cipria e profumo di biscotti e polvere nei pomeriggi assolati della sua infanzia. Voleva solo chiudere gli occhi e riposare.
Ma non poteva. Non glielo permettevano. Lui non glielo permetteva, l’uomo che le parlava attraverso la nebbia splendente. Per un attimo aveva creduto fosse l’angelo bianco che le aveva dato le ali. Anche lui era biondo, e sottile, e la sua voce era come un fiore che perdesse i petali.
Ma il suo odore era diverso. Eppure lei lo aveva seguito, perché in fondo non era che una bambina che aveva smarrito la strada, mentre volava verso la seconda stella a destra. Forse lui avrebbe potuto aiutarla. O forse era un pirata travestito da gentiluomo.
“Come ti chiami, cara?” le aveva chiesto, mentre infilava nel suo braccio un ago di ghiaccio ardente. “Caska” aveva risposto lei.
Era stato allora che le sue ali avevano preso fuoco e lei si era sentita ardere del fulgore di una stella.

“Confesso, signor Dancenko, di essere un po’ deluso, finora.”
L’uomo sottolineò quelle parole abbandonandosi contro lo schienale della poltrona Frau in pelle bianca, come se si sentisse improvvisamente stanco. Non meno stanco della ragazza accasciata nella poltrona poco più in là, alla quale era stata assicurata da cinghie di cuoio rinforzato e catene. Precauzione inutile e ridicola, visto che non sembrava in grado neppure di respirare. E questo prima dell’iniezione.
Vladimir Dancenko si sentì subito in dovere di rassicurarlo.
“Non dovrebbe, signor Janiĉek. Ha visionato i video di sorveglianza, e poi ci sono le foto…” Si affrettò a spingere verso di lui le stampe ricavate dalle registrazioni, che ingombravano il tavolino.
“Sì, sì, e infatti sono ancora qui” rispose l’altro, petulante, “Ma le confesso che vista l’urgenza e la concitazione con cui mi ha fatto chiamare, mi aspettavo qualcosa di più…” fece un gesto vago con la mano, dita lunghe, esili come quelle di una donna, la pelle tirata sulle ossa al punto da sembrare trasparente. “… scenografico. Dovrebbe sapere bene quanto sia prezioso il mio tempo. Prezioso e costoso” concluse, intrecciando le dita.
Dancenko si tamponò la fronte alta con un fazzoletto. “Signor Janiĉek, se lei fosse stato in quella stanza… se avesse visto cosa ha fatto la ragazza, e poi Anatoly…”
“Ma non c’ero” lo interruppe l’altro, con un tono tra il dispiaciuto e l’annoiato, “E sinceramente i vostri racconti sconnessi non meriterebbero alcuna attenzione, se non fosse per queste” aggiunse, indicando le foto. Di nuovo si protese in avanti, con un sospiro, come se quel semplice movimento gli causasse uno sforzo infinito. Sciolse le dita e prese a sfogliare nuovamente le foto, soffermandosi su alcune. Gli occhi dietro le lenti degli occhiali fumé erano ombre chiare.
“D’altra parte, se è così convinto, immagino valga la pena fare un tentativo” continuò, rivolto più a se stesso che all’ometto che gli sudava davanti, e che prese ad annuire come uno di quei cani giocattolo con la testa dondolante. Indugiò su una foto. Le punte delle sue dita sfiorarono la figura in bianco che si stagliava drammaticamente nella stampa virata al blu, come se la stessero accarezzando.
“Bene. Bene. Bene” annuì il cane-Dancenko. “Come suggerite di procedere?” domandò ansioso.
L’altro sollevò lo sguardo su di lui, come se improvvisamente si fosse accorto che qualcosa di terribilmente sgradevole si era materializzato davanti ai suoi occhi.
“Signor Dancenko… Siete voi i professionisti, o sbaglio?”
Dall’espressione dell’ometto si rese conto che sì, probabilmente sbagliava. Tornò ad appoggiarsi allo schienale, con un altro sospiro, la foto ancora tra le dita.
“Mio fratello maggiore suggerirebbe che per catturare una preda quel che occorre è un’esca” mormorò stancamente. Sollevò la mano a scostarsi i capelli che ricadevano in fili sottili ai lati del viso. “E si dà il caso che un’esca noi l’abbiamo” continuò.
Solo quando rivolse lo sguardo verso la ragazza incosciente, che aveva preso a tremare, Dancenko capì di cosa stesse parlando e riprese ad annuire convulsamente. L’uomo sottile mascherò la propria frustrazione senza troppo impegno.
“Mandiamo fuori l’esca, e vediamo se la preda abbocca. Se quello che mi ha detto è vero, sarebbe inutile andare a cercarlo. Meglio che sia lui a venire da noi.” Di nuovo sfiorò l’immagine indistinta, così vividache sembrava emanare luce propria. Ne disegnò i contorni con la punta dell’unghia.
“Poi, quando sarà qui, scopriremo se gli angeli possono davvero sanguinare” concluse.
Dancenko non comprese quell’ultima affermazione, perché smise di annuire e aggrottò la fronte unta. “Cioè lo costringeremo a rivelarci la formula di quella roba, signor Janiĉek…?” domandò.
L’uomo non lo degnò di alcuna attenzione. Solo emise un altro sospiro, come se fosse davvero molto, molto stanco, e puntualizzò: “Dottore. È Dottor Janiĉek. SamaelJaniĉek. Veda di ricordarsene.”

V

Una settimana dopo

La notte era un drappo indaco trapunto di luci, oltre l’ampia vetrata che si apriva nel salotto dell’attico. O almeno questo poteva vedere Guillaume, con i suoi occhi immortali. Non avrebbe mai smesso di maledire la propria creatrice per quella dannata vena malinconica che gli aveva instillato, al momento dell’Abbraccio. Doveva essere per forza colpa sua, perché lui non ricordava di essere stato così sensibile alla bellezza del creato prima. O forse era solo passato troppo tempo perché potesse ricordarlo distintamente. Che gli piacesse o no, dove i mortali scorgevano solo il cielo notturno e le luci della città, lui scorgeva disegni fantastici, bagliori pulsanti che incendiavano la notte come fuochi d’artificio, scie di stelle argentee che cavalcavano l’oscurità ignara. C’era così tanta Bellezza, che era davvero una beffa che solo in pochi dannati potessero goderne. L’ultima beffa del più crudele degli dei.
“Hai idea di cosa sia potuto succedere?” domandò, e dal cellulare uscì solo un profondo sospiro.
Guillaume attese, paziente, immobile davanti alla finestra, spalla a spalla con la statua di Hermes che aveva il suo volto, il suo sembiante.
“Non lo so” rispose il Chimico, dopo un tempo irragionevolmente lungo.
Guillaume si passò la lingua sulle labbra.
“Hai letto il mio messaggio. Hai visto i documenti che il mio contatto a Scotland Yard mi ha passato” insistette. Perdere la calma con il Chimico era come mettersi a inveire contro un ghiacciaio millenario: inutile, perfino controproducente.
“Sì” rispose la voce dall’altro capo del telefono.
“E che ne dici?”
“È carina. Molto.”
Questa volta toccò al vampiro tacere. Una ruga increspò la perfezione eburnea della sua fronte, intorno alla quale i capelli umidi di doccia si inanellavano come stucchi dorati. Di cosa accidenti stava parlando?
Il Chimico parve indovinare il suo sconcerto, ma Guillaume ci era già arrivato da solo. La fronte gli si distese e dalle labbra sarebbe sfuggito un sospiro, se solo fosse stato vivo.
“La ragazza. Caska. Sì, è molto carina” ammise. “Ma non dovrebbe fare quello che fa, e tu lo sai. È passata una settimana.”
“Lo so” rispose semplicemente l’uomo. Guillaume poteva figurarselo chiaramente, nella penombra perpetua della tana che si ostinava a chiamare casa, incapace di tollerare una luce più potente di quella di una lampada schermata, lambito da un silenzio per lui sempre troppo assordante. Forse era per questo che andava così d’accordo con il Chimico: aveva più cose in comune con la loro razza di qualsiasi umano avesse mai conosciuto.
“Non ho consegnato loro nulla. Non ho lasciato formule né dosi nel laboratorio. È impossibile che l’abbiano riprodotto”enumerò con voce cantilenante, e alla fine tacque, sfinito da quel flusso verbale.
Guillaume gli lasciò il tempo di riprendere fiato. Non aveva motivo di dubitare della sincerità delle sue parole, e non perché pensasse che il Chimico non fosse in grado di mentire. Anzi, era uno dei bugiardi più fantasiosi che conoscesse, forse anche perché era il primo a credere alle proprie menzogne. Ma non aveva ragione di mentirgli, non in quell’occasione, e a dispetto dell’apparente indolenza con cui gli rispondeva, era consapevole quanto lui che la faccenda era dannatamente seria.
La Vampira di Highgate, l’hanno chiamata. Quelli di Scotland Yard diventano acculturati solo quando non serve” riprese. Diede le spalle alla finestra e all’incanto della notte, tornando al laptop che ronzava sommessamente sul tavolo di cristallo. Sullo schermo, una delle foto rigorosamente top secret che il suo contatto alla Yard gli aveva inviato, forse più per chiedere spiegazioni che per fargli un favore. Il volto era riconoscibile, nonostante la foto fosse mossa. Era Caska, indubbiamente. Già. Ma come spiegare quella luce scarlatta che faceva brillare i suoi occhi come rubini malefici, e soprattutto la carneficina intorno a lei? Quel vicolo sembrava lo scenario di un film dell’orrore, o almeno così doveva essere apparso alla polizia quando era arrivata sul posto. Guillaume c’era abituato, ma di solito a creare un simile casino non erano puttane slave appena adolescenti…
“Ha ucciso almeno cinque uomini solo a Rathbone Street. Uomini grandi e grossi. Li ha praticamente sbranati, anche se non ha bevuto il loro sangue.” Parlava col Chimico, ammesso che fosse ancora lì ad ascoltarlo, ma soprattutto con se stesso. Che cosa gli sfuggiva, cosa? Si passò la mano tra i capelli, ricacciandoli indietro. “L’effetto di una dose simile è ridicolo. Dura poche ore, dopodiché chi l’ha assunta rimane praticamente svuotato di ogni energia. Non se ne va in giro a sbranare la gente a Shoreditch. Mi stai ascoltando?”
“Sì” commentò il Chimico con una specie di sbadiglio. “Però è davvero carina.”
Guillaume sentì la propria adamantina pazienza incrinarsi. Ma solo un poco.
“Andrò a dare un’occhiata. Non posso permettere che quella roba finisca nelle mani sbagliate” annunciò, risoluto.
“Mmm” fece il Chimico, in segno di assenso. “E non pensi che tutta questa faccenda potrebbe essere una trappola per attirarti allo scoperto?”
“Ovvio che lo è” rispose il vampiro, sbuffando. “Ma non vedo alternative. Se la Yard si mette a indagare sul Sangue degli Angeli potrebbero risalire a qualcuno di noi.”
Parlava di Raistan. E di se stesso, naturalmente. Il sangue di un neonato non avrebbe mai permesso di distillare nulla di così potente, e se un nuovo anziano fosse arrivato in città, lui lo avrebbe percepito.
“Sei preoccupato per il tuo amico” osservò il Chimico. “È bello da parte tua. Bello e stupido.”
Stupido era stato permettere al Chimico di pasticciare col suo sangue per creare quella dannata droga. Avrebbe dovuto essere solo per suo uso personale, e già quello sarebbe stato malato, ma chissà come la questione era sfuggita al controllo. Di certo non poteva biasimare solo il Chimico per quello che era successo.
“Se non dovessi tornare… se mi capitasse qualcosa…” cominciò, ma il Chimico lo interruppe.
“Devo aiutare Raistan a salvarti?”
A Guillaume venne da ridere. Non riusciva a concepire una squadra di salvataggio peggio assortita dell’Olandese e del Chimico. Davvero uno spasso, da farci una serie televisiva! Quell’inaspettata ilarità smorzò un poco l’apprensione che provava.
“No. Cercate di non mettervi nei guai, sarebbe già d’aiuto.”

VI

Raistan era un coagulo di tenebra azzurra nella stanza buia. Era scivolato in un torpore immobile, le lenzuola aggrovigliate intorno alle membra nude che lo facevano apparire come un Laocoonte che avesse infine sconfitto i serpenti prendendoli per sfinimento.
Guillaume lasciò scorrere lo sguardo su di lui, come a volersi imprimere nella mente ogni dettaglio del suo corpo. Non che temesse di non poterlo rivedere a breve. Se, e su questo lui e il Chimico concordavano, si stava cacciando in una trappola, non aveva il minimo dubbio di poter gestire perfettamente la faccenda da solo. Essere un mostro antico di cinque secoli aveva i suoi vantaggi, inutile negarlo. Sarebbe ritornato a casa prima che Raistan si svegliasse. Anzi, lo avrebbe svegliato lui, per uscire insieme, nella notte. Non aveva senso pensare altrimenti.
In quell’ottica, anche lasciare un biglietto sarebbe stato controproducente. L’Olandese si sarebbe risentito per non essere stato coinvolto in quell’iniziativa, e il risentimento di Raistan era l’ultima cosa di cui Guillaume sentiva il bisogno in quel momento. E poi, in agguato, ecco il ricordo del suo corpo ferito, spezzato dalla feccia degli Archi, umiliato e coperto di lordura, a un passo dalla distruzione. Guillaume contrasse impercettibilmente la mascella. Non avrebbe permesso che accadesse di nuovo, non se fosse stato in suo potere evitarlo. Di certo, non avrebbe messo Raistan in condizione di correre pericoli. E non perché non lo considerasse all’altezza. Conosceva la sua forza, aveva visto la sua storia nel sangue che si scambiavano ogni notte, di come si fosse distinto come guerriero, come stratega, guidando in battaglia uomini che gli erano devoti – era il caso di dirlo – oltre la morte. Ma… C’era un ma, e c’era una promessa che Guillaume aveva fatto a se stesso, cinquecento anni prima, quando nel suo petto batteva ancora un cuore, spezzato e sanguinante, ma vivo, a dispetto di se stesso. Non avrebbe saputo ripetere i termini di quel giuramento. Il tempo aveva reso labile la memoria, confuso il dolore in una nebbia indistinta. O forse era stato solo il prezzo da pagare per restare vivo. Forse in realtà quel giuramento non lo aveva neppure pronunciato, non ad alta voce, perché la voce gli si era infranta in gola per le troppe grida, sotto il sole abbacinante del cortile d’onore, in quel pomeriggio d’estate. Strinse gli occhi, perché la stanza, all’improvviso, non era più abbastanza buia per spegnere l’eco di quel sole spaventoso.
Non avrebbe più permesso a nessuno di esporsi a un pericolo per lui. Non avrebbe più messo a repentaglio la vita di qualcuno che amava. Si sarebbe gettato nel fuoco prima di farlo nuovamente. Non amare nessuno gli era parsa per secoli la soluzione migliore, più facile. Ma nemmeno lui poteva esercitare un controllo assoluto. Riaprì gli occhi, ma li distolse subito dalla figura immobile nel letto.
Prima fosse andato, prima quella faccenda sarebbe finita e sarebbe potuto tornare da Raistan.
Si alzò con un unico movimento fluido e lasciò la stanza senza fare rumore.

*

Guillaume aprì gli occhi e vide solo il buio. Non il buio vibrante di infinito splendore, come era abituato a vedere da quando era rinato. Non l’oscurità splendida e vellutata, più luminosa del pallore del giorno.
Il buio davanti ai suoi occhi era totale, privo di contorni, di profondità. Non respirava, non si gonfiava in volute sontuose. Era freddo, bagnato, e aveva un odore sgradevole e chimico, che gli feriva l’olfatto, bruciando i suoi recettori.
Si portò le mani al volto, e allora il dolore lo attraversò, come una scarica maligna, spezzando quel gesto. Ci riprovò, ostinato, e fu come sollevare un peso immane. Non ricordava di essersi sentito mai così debole, nemmeno quando era vivo, quando era umano.
Percorse con le dita i contorni del proprio volto e non si fermò quando avvertì la carne viva, la sgradevole sensazione di qualcosa di rotto, ma isolato, viscido. E ancora non vedeva nulla, solo il buio.
Poi ricordò.
Ricordò la corsa, nella notte, sui tetti resi sdrucciolevoli dalla pioggia sottile, persistente.
Lo smog si scioglieva in nebuli chimici, che accendevano di riflessi i suoi abiti bianchi.
Aveva seguito le tracce lasciate da Caska, tracce maldestre, scie di sangue e paura e imprudenza. Normale per chi non sapesse controllare il proprio potere, o volesse essere trovata.
Poi era arrivato in quell’edificio in costruzione, un guscio vuoto di cemento e acciaio e cristallo, a sud del fiume.
Un teatro ideale per uno scontro, o per una trappola. Ricordava di aver sorriso alla figuretta della ragazza che saettava tra i saloni vuoti, tra le colonne di calcestruzzo ancora friabile.
Dove lo voleva portare?
Si era accorto dell’uomo un istante prima che gli fosse addosso. Uomo… Era stato l’odore a confonderlo, a prenderlo di sorpresa, uguale a quello di Caska, ma infinitamente più intenso, più forte. Inequivocabilmente non l’odore di un umano, né di un vampiro.
Gli era piombato contro travolgendolo come una frana, e gli si era avvinghiato addosso, artigliandogli le membra, cercando la sua gola con una bocca che non era una bocca.
Guillaume ricordava la sensazione nuova, eppure infinitamente antica, di file di zanne che gli si chiudevano a pochi centimetri dal volto. Quando era successo? Era solo un ragazzo, ed era già a Parigi, e René D’Amboise aveva liberato di proposito i cani di D’Anjou. I suoi mastini. Così, solo per vedere cosa avrebbero fatto.
Ma quello non era un mastino.
Dopo la sorpresa iniziale lui aveva reagito, ovviamente. Aveva lottato, cercando di togliersi di dosso quella massa di muscoli ansante, e quando era riuscito a fargli perdere la presa lo aveva scagliato contro una colonna con violenza tale da fargliela spezzare. Anche le ossa di quella cosa si erano spezzate, lo aveva avvertito con intima soddisfazione. Ma il suo compiacimento era durato poco. L’uomo, perché alla fine sembrava in tutto e per tutto un uomo, nonostante la bocca smisurata, si era accucciato a terra e aveva ululato. E un attimo dopo non era più un uomo, oh no… Di nuovo Guillaume se lo era ritrovato addosso, e allora aveva colpito più forte, aveva affondato i denti nel sul collo, mentre gli artigli della creatura gli strappavano vestiti e pelle. L’odore del suo sangue, congiunto a quello della bestia, riempiva l’aria come una cacofonia. Per tre volte gli si era attaccato addosso e aveva preso a bere da lui quel sangue ricco, selvatico, e per tre volte l’uomo bestia se lo era scollato di dosso. Era forte, dannatamente forte, e animato da una ferocia disperata, ma non solo. Era come posseduto da qualcosa che lo costringeva ad attaccare ancora e ancora, senza considerare il proprio stato, con la violenza di un berserker lanciato in battaglia. E poi, quando finalmente sembrava che lo slancio dell’uomo bestia fosse smorzato, era arrivata la luce.
Era stato allora che gli occhi di Guillaume erano bruciati.
Un lampo di luce accecante e azzurra, poi un dolore spaventoso, che gli era entrato dagli occhi in tutto il corpo. E il buio. E nel buio il suo corpo continuava a bruciare, perché la luce c’era ancora, anche se lui non poteva vederla, ed era come se il sole fosse sceso dal cielo appositamente per abbracciarlo, per bruciargli la carne brandello dopo brandello.
Era svenuto?Era morto? Non lo sapeva. Che la morte ultima fosse quel buio gelido, quel dolore malato che gli impediva i benché minimi movimenti?Oh, sarebbe stata una tale beffa!
Davvero,Raistan, è così che finisce tutto? In questa tenebra cieca e disperata, in queste membra spezzate, bruciate, che agonizzano senza sapere come, perché?
No, un perché c’è. Sono io che l’ho voluto, che l’ho cercato. Brucia all’inferno, Guillaume De Joie. Brucia per l’eternità, nel buio.