Rebecca Quasi ha radunato post e commenti di mercoledì scorso (Ricordate l’argomento? Abbiamo parlato della responsabilità dello scrittore) e ne ha ricavato questo articolo che sottoponiamo alla vostra attenzione.

Qui non si scherza.

L’argomento è delicato e infatti Babette lo ha introdotto scomodando il compianto Oscar Wilde che afferma: “Non esistono libri morali o immorali. Ci sono solo libri scritti bene o libri scritti male. Questo è tutto.”

Per non lasciare a Oscar l’ultima parola, Alessandra Oddi Baglioni risponde citando Lev Tolstoj: la scrittura “è un mezzo di comunicazione che riunisce gli uomini accomunando le sensazioni ed è necessario alla vita ed al progresso verso il bene del singolo uomo e dell’umanità”.

Un taglio più trasversale lo introduce Grazia Maria Francese citando Stevenson: “Se i tuoi principi morali ti rendono triste, puoi essere certo che sono sbagliati.”

Tre punti di vista molto differenti, due antitetici e induttivi (Wilde e Tolstoj) e uno deduttivo che ti permette di procedere valutando caso per caso (Stevenson).

Il partito di Wilde porta gli autori a percepire la responsabilità come qualcosa di circolare che inizia e finisce con la stesura dell’opera, quello di Tolstoj apre la via ad una relazione educativa, ad una tensione che si origina dall’autore e si espande in modo imprevedibile nel vasto mondo.

Il dibattito virtuale che è seguito nell’arco della giornata, ha fatto emergere riflessioni molto profonde e sfumate sul concetto di responsabilità (le sfumature sono la cifra dei gruppi rosa e dintorni, facciamocene una ragione).

Prima della carrellata sui punti di vista espressi dai membri del gruppo, ritengo utile cominciare citando l’introduzione di Maria Masella che ci ricorda l’etimologia latina del sostantivo “responsabilità”:

“Il termine responsabilità deriva dal latino respònsus, participio passato del verbo respòndere, rispondere cioè, in un significato filosofico generale, impegnarsi a rispondere, a qualcuno o a se stessi, delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. […]”.

Dopo questo assunto Maria espone il proprio parere sulla responsabilità ponendo l’accento sulla reciprocità del legame tra autore e  lettore. “[…] Posso scrivere qualsiasi scena e di qualsiasi argomento purché al lettore sia chiara la mia posizione sull’argomento, in modo che possa condividerla o rifiutarla. […]”.

Ed ora accingiamoci a percorrere le vie distintamente.

Sentire la responsabilità principalmente verso i lettori porta alcuni autori a introdurre in modo più o meno intenzionale il messaggio che i loro scritti portano con sé.

“[…] mi è comunque difficile non sentirmi responsabile di quanto scrivo, del messaggio che voglio dare. Tendo, a torto o a ragione, a inserire sempre una morale nei miei scritti, qualcosa che faccia riflettere, qualcosa del tipo “non fate come il protagonista” oppure “sì, fate come lui” […]”, scrive Linda Lercari.

[…] È chiaro che ciascuno di noi ha una sua visione del mondo e una sua etica; è altrettanto chiaro che non è possibile creare astraendosi da se stessi, e che quindi filtreranno nell’opera e saranno più o meno individuabili e riconoscibili (e più o meno condivisibili).[…]”, dice  Sara Benatti. Per lei si tratta più di un’emanazione trasversale, qualcosa che l’autore non può evitare.

“Ma il confine tra #responsabilità e censura è sottile. […]”, questo scrive Lily Carpenetti, il che potrebbe aprire un altro lungo mercoledì.

Il distinguo puntualizzato da Streusa Maybe, “[…] Le cose cambiano quando questi atti vengono descritti con una sfumatura positiva, anche se impercettibile, con la conseguenza di glorificarli. Mi vengono in mente non solo il dark romance ma pure certe fiction con protagonisti mafiosi che ne escono quasi come dei miti agli occhi di giovani o semplicemente di persone facilmente traviabili. Ecco, in questi casi l’autore non può dire “sono stato frainteso”: un autore come si deve sa benissimo cosa sta veicolando e ne ha la responsabilità […]” diventa, a mio parere, l’ago della bilancia tra il partito di Wilde e quello di Tolstoj.

Nonostante la delicatezza e il potere che la parola scritta possiede, io sono del partito di Wilde: ritengo che gli autori non debbano scrivere sentendosi responsabili di messaggi o intenti morali, soprattutto perché di fatto non possono conoscere età, stato d’animo e maturità di chi leggerà ciò che scrivono (assai differente è il ruolo di insegnanti e genitori).

Marilena Boccola probabilmente appartiene al partito di Stevenson: “Riguardo all’argomento di oggi mi viene da dire che quando scrivo io penso di avere una responsabilità innanzitutto verso me stessa ed è quella di non tradire il mio sentire, il mio modo di essere e di percepire le cose […]”

Sintetizzando, si può dire che la responsabilità del messaggio verso chi legge può essere intenzionale o emanarsi in modo spontaneo in una sorta di danza seduttiva tra autore e lettore, perché, come dicevano i nostri nonni “La mela non cade lontano dall’albero”.

Lo scambio tra lettore e autore, a mio parere, rimane, in entrambi i casi, misterioso e sfuggente, un gioco giocato su piani diversi, che anche in caso si incontrino, non si disveleranno mai l’un l’altro in modo completo.

Sono quelli che scrivono a Babette Brown: “Senti, avrei una cosetta da mandarti. Posso?” E Babette, fregandosi le mani, incamera e pubblica.

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