È molto difficile tracciare i rapporti fra arte e morale: la letteratura deve trasmettere significati positivi? Quanto e come può rappresentare il mondo del male? Ed è responsabile delle conseguenze? La pubblicazione de I Dolori del giovane Werther di Goethe fu seguita da una vera e propria epidemia europea di suicidi giovanili. Era colpa dello scrittore? Qualcosa di simile avvenne anni fa con un film che si chiamava, mi pare, The program: un sacco di giovani deficienti si sdraiarono davvero per terra sulle autostrade sfidando la morte (e spesso morendo). E potremmo rammentare anche tutti quelli che dopo Il cacciatore giocarono alla roulette russa. Si chiama effetto imitazione. Alla fine degli anni Sessanta addirittura alcuni sostenevano perfino che, mettendo in guardia i giovani contro l’uso di droga, in realtà le si facesse pubblicità con l’effetto paradossale di incentivarne l’uso. Un discorso simile era diffuso negli Stati Uniti negli anni Trenta a proposito dei film di gangster: si trasformavano i delinquenti in eroi? E quando si gira una serie come Il capo dei capi o Gomorra, almeno una parte del pubblico soprattutto giovanile può essere influenzata fino al punto di aspirare a far parte di quel mondo? Aristotele lo negava. Ma in ogni caso il problema è che, seguendo questo criterio, alla fine non si potrebbe parlare mai di nulla.

D’altra parte la morale cambia continuamente nel tempo. Ancora negli anni Cinquanta nei romanzi “per signorine” concedersi al di fuori del matrimonio voleva dire essere sgualdrine oppure fare una brutta fine. Nei gialli c’è sempre un omicidio (o più di uno), violazione dell’ordine che viene sanata con l’individuazione e la punizione del responsabile. Ma poi col passare dei decenni sempre più spesso è capitato il caso in cui il colpevole se la cava.

La grande letteratura DEVE parlare di tutto. Senza censure. Ma certo poi può capitare che un critico (che è sempre un essere umano, magari malevolo o invidioso, oppure scrittore mancato, come qualcuno insinua) ti accusi dei reati che rappresenti. E successe anche al grande Dostoevskij. Fa parte del ruolo.

D’altra parte ci sono dei generi che istituzionalmente rappresentano il male e l’illegalità: per esempio il giallo e il noir. Quanto al sesso, un tempo (pensate al codice Hays) al cinema si contavano i secondi di durata del bacio, la rappresentazione dei rapporti sessuali era esclusa e ad essi si alludeva cripticamente, ad esempio facendo togliere la giacca all’uomo o le scarpe alla donna. Certo oggi lamentarsi dell’esistenza di scene di sesso in un erotico fa spesso ridere. Per cui ormai io condanno soprattutto dialoghi all’insegna di esclamazioni come “sì, sì, SSSSSÍ!!!”. E sempre più di rado il turpiloquio eccessivo.

Infine c’è il settore scottante delle orge, dei sadomaso o dei dark. In questi casi, che non è più politicamente corretto chiamare pornografici, secondo me, si deve sempre avvertire con chiarezza nella sinossi. Se poi la povera lettrice non la legge, colpa sua: chi è causa del suo mal…

Certo a volte anche le autrici possono sbagliare, oppure appartengono ad una generazione diversa dalle lettrici: quando ero ragazza, nei romance (che allora si chiamavano rosa) era concesso non più di un bacio, preferibilmente sulla fronte o sugli occhi (non chiedetemi come si facesse). Poi negli ultimi decenni è entrato sempre più sesso, che, secondo me, dovrebbe avere limiti molto precisi (mai, assolutamente mai violenza, neanche consensuale). Può entrarvi addirittura un mafioso, ma nel finale deve pentirsi e soprattutto cambiare vita.

Anche in questo genere edulcorato, però, nei contemporanei occorrerebbe un maggiore tasso di realismo: quindi io amo, da questo punto di vista, le scrittrici che in questa nostra epoca, segnata dall’AIDS (malattia ancora senza guarigione), hanno imparato a inserire con naturalezza i normali mezzi di protezione, senza pudibonderie e imbarazzi. Certo ci sono ancora persone fuori di testa che non pensano alla propria salute, ma noi non vogliamo indurre qualcuno ad imitarle. A me è bastato ascoltare anni fa in tv certe telefonate disperate all’insegna di domande patetiche tipo “ma posso essermi preso l’AIDS?” Grrrr!

E perché, in mezzo a tanti romanzi genere dominante/sottomessa, non mi è mai capitata una seria rappresentazione della cosiddetta sindrome di Stoccolma? Il tizio la sequestra, le taglia un dito da mandare a chi di dovere e, tempo ventiquattr’ore, lei si innamora di lui?! Ma ci fa o ci è?

Il Taccuino di Matesi – Gli articoli

“La Sindrome di Stoccolma promuove inverosimili rapporti affettivi tra le vittime di sequestro di persona ed i loro rapitori  sembra essere una risposta emotiva automatica, spesso inconscia, al trauma del diventare ostaggio e coinvolge sia i sequestrati che i sequestratori. Infatti consiste, generalmente, di tre fasi: sentimenti positivi degli ostaggi verso i loro sequestratori, sentimenti negativi degli ostaggi contro la polizia o altre autorità governative, e reciprocità di sentimenti positivi da parte dei sequestratori.Il termine Sindrome di S. è stato utilizzato per la prima volta da Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in seguito ad un famoso episodio accaduto in Svezia tra il 25 ed il 28 agosto del 1973: due rapinatori tennero in ostaggio per 131 ore quattro impiegati (tre donne ed un uomo) nella camera di sicurezza della Sveriges Kreditbank di Stoccolma. Nonostante la loro vita fosse continuamente messa in pericolo, durante il periodo di prigionia, che fu seguito con particolare attenzione dai mezzi di comunicazione, risultò che le vittime temevano più la polizia di quanto non temessero i rapitori, che una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori (che durò anche dopo l’episodio) e che, dopo il rilascio, venne chiesta dai sequestrati la clemenza per i sequestratori e durante il processo alcuni degli ostaggi testimoniarono in loro favore.” (Il Corriere.salute)

Questo pomeriggio, pubblicheremo l’articolo di Rebecca Quasi che l’autrice ha tratto da post e commenti di mercoledì scorso. Lo ricordate l’Argomento? Trattava proprio della responsabilità dello scrittore.