Ogni volta che accade qualcosa nel mondo delle donne, dalla violenza psicologica a quella che sfocia nell’omicidio, la mia coscienza si risveglia un po’ di più e molti aspetti del mio passato emergono senza neanche che li richiami espressamente. È che li avevo accantonati, chiusi in maniera ermetica in qualche cassetto della memoria, per non tornarci sopra e non incaponirmi di nuovo sugli stessi interrogativi che non facevano altro che farmi star male e basta. Però più vado avanti e più diventa difficile mettere a tacere quello che fa parte del mio modo di essere, soprattutto quando sento una nota stonata in qualche discorso e non capisco perché. Ma il perché c’è sempre, si tratta solo di scendere negli abissi e portare a galla lo “scomodo” e il “fastidioso”. Così è accaduto che qualche giorno fa, sul gruppo di Babette, si parlasse del rapporto tra due persone e della violenza sottile e psicologica che molti uomini, e in numero sempre maggiore,  perpetrano ai danni delle loro compagne. E ho iniziato a capire che la confusione è tanta e le certezze per nulla scontate.
Perché? Perché si parlava di compagni gelosi e io storcevo la bocca? Perché mi veniva naturale sentire nello stomaco che qualcosa, in quei pensieri, era troppo forzato? Eppure quello che veniva e viene detto era ed è corretto: c’è la gelosia, il controllo, l’isolamento… Eppure, se ripenso alla mia esperienza, non c’era nulla di eclatante, nulla di tutto ciò. E allora mi sono detta: Federica, pensa. Concentrati e ricorda… E me ne sono uscita con questo commento:

Io non avevo più amiche. Ma non era perché lui dimostrasse di essere geloso, Psyco sapeva bene come agire e dove andare a colpire. I miei “amici” non esistevano più, c’erano solo i suoi, e i suoi ci provavano. Sempre. E le sue amiche a me stavano tutte sulle palle perché ci provavano con lui. Sempre. Bene inteso che era tutto filtrato dalla sua bocca, dalla quale io pendevo come un calzino spaiato. Ed ero un calzino spaiato, anche se non me ne rendevo conto. O forse sì, ma assecondare era più facile che guardarmi dentro sul serio.

Pulire casa, in maniera forsennata, per me era il tentativo di farmi accettare, di fargli vedere “Vedi che brava? Adesso amami, però, perché io non sono quella che potresti solo abbracciare una sera, io sono quella che ti voleva proprio accanto sempre. E come me, chi ti amerà mai?”. Stare a casa, dirgli e pensare che avesse ragione, era quello che ci si aspettava da una brava compagna. E lo facevo non perché costretta da lui con la forza o con imperativi arroganti, ma perché ero abituata a sentire che le altre erano tutte mignotte, che se mettevi il rossetto o la gonna, era per attirare sguardi, e che non si scherzava con gli altri maschi perché ero così tanto carina e ingenua che la gente se ne sarebbe potuta approfittare. Lui pensava a me e io, di conseguenza, dovevo essere riconoscente e vedere l’amore che provava nei miei confronti.

La cosa, quindi, non era presentata come un atto di gelosia, ma come una verità: e io ci credevo a quella verità. Prima dei lividi c’è una manipolazione estrema, lenta, silenziosa, ed è vero che quasi ci si aspetta di vedere un livido, come è vero che, per quanto si tenda ad allontanare tutti perché non capiscono, ci si aspetta anche, si spera quasi, che arrivi qualcuno che ci tragga in salvo. Io quella persona la aspettavo, qualcuno in grado di capire che la cosa sbagliata era anche quella giusta.

Prima dei lividi c’è quindi una manipolazione estrema. Ma questa manipolazione non si vede. Soggioga, rende cieche, porta quasi a venerare la persona che si ha di fianco, manco fosse il Messia. Pensare che addirittura, in uno dei picchi massimi, io riuscii anche a dire “Grazie, perché mi fai vedere le cose da un altro punto di vista. Più corretto, più sano.”
Di sano non c’era niente, perché io non pensavo più con la mia testa, ma con la sua. E questo è il controllo, questa è la vera violenza. Perché se si arriva al punto di non sapere neanche più se preferire la carne o il pesce,  c’è stata davvero una manipolazione durata anni e riuscita alla perfezione. Per questo le persone accanto non si rendono conto di nulla. Per questo la vittima non capisce di essere vittima, pur sentendosi sola, e indifesa, e infelice. Fa tutto parte del controllo.  Può anche accadere, come è successo a me, che quei lividi non vengano mai a presentarsi, sapete? Ma non servono quelli per pensare a farla finita, a finire in un baratro buio e soffocante. I lividi servono, per assurdo, agli altri.

E poi sono arrivata io. Solo dopo quella persona che aspettavo e che, invece, non è arrivata in tempo. Ho avuto la fortuna di rimanere, per assurdo, lucida nel profondo e ho cominciato ad allontanarmi dal controllo. Perché se non ci si sblocca da sole, non è possibile uscire dal limbo, dallo stato di sudditanza in cui si è piombate.

Quando nessuno si rende conto di te e l’unica persona che ti è rimasta a fianco non fa che screditarti, perché il tempo dell’amore è finito ed è rimasto quello del controllo e della marionetta pronta a soddisfare fisicamente e psicologicamente la bestia, ci sono due opzioni percorribili: soccombere o alzare la testa.

E il modo giusto di aiutare non c’è mai. Come amica, purtroppo, puoi fare davvero ben poco. Perché qualsiasi cosa dirai sarà sempre vista come “maliziosa” e pregna di secondi fini. Io mi innervosivo quando qualcuno criticava Psyco, e poi mi innervosivo scoprendo che avevano ragione da vendere, e poi mi innervosivo perché lui non cambiava ed ero io invece che dovevo farlo. Per lui. Si entra in una spirale assurda e allucinante e dal di fuori, davvero, servirebbe vedere quel piccolo livido per rendersi conto e agire. Il problema è che, dal momento che la violenza psicologica innesca di fatto una sorta di “malattia mentale”, il primo passo, quello decisivo, deve compierlo la vittima stessa. Dopo vengono gli altri, gli aiuti, il sostegno. E non servono parole o consigli. C’è un punto di rottura, e di solito è creato dal possibile tradimento del carnefice, che cambia ogni prospettiva, fa sfumare gran parte dell’effetto droga che serve alla vittima per ricaricarsi e amare ancora. Fino a che il punto di rottura non viene raggiunto, la presa di coscienza vera di vivere qualcosa che non dovrebbe essere vissuto non scatta. C’è poco da fare…

Ma sapete poi cosa accade, spesso? Che dopo il punto di rottura e l’allontanamento, quella stessa bestia che come un animale ti ha soggiogata e piegata, si redima. E ti contatti. E ti cerchi. E minacci di uccidersi. E allora tu, che non guarirai mai del tutto, torni indietro e ti preoccupi. E accetti il famoso “caffè” per chiarirsi, per dire basta, per mettere il paletto.
Io quel caffè non l’ho accettato, né la prima volta, né la seconda, né la terza. Quando mi disse che voleva uccidersi, io lo chiamai, ma poi non gli risposi più. Perché capii che era una strategia e che aspettava solo il “la” per avvicinarmi di nuovo.
Se avessi accettato quel caffè sarei ancora qua? Non lo so, non voglio saperlo. Ciò che so è quello che posso dire: scappate, ignorate, non cercate. Lui non ha mai avuto pietà di voi, prima, non abbiatela voi per lui, dopo.