Chi di noi non ha il segno di ferite inferte e ricevute? Temo nessuno. Ed è questo uno dei temi del romanzo: una condizione che accomuna tutti, donne e uomini, innocenti e colpevoli.
Mariani doveva morire durante l’esondazione del Cerusa, tutto il romanzo “Le giuste scelte” era stato pensato indirizzandolo verso quella conclusione: il corpo di Habanera, martoriato dalla mareggiata, era un preludio a quello, disperso, di Antonio. I molti incontri con persone del periodo più oscuro del suo passato dovevano essere un “tirare le somme”, come la soluzione del problema Iachino.
E volevo che morisse per mano di uno dei suoi amori, la sua città.
Ma le proteste di chi aveva avuto l’onere di leggere la prima stesura mi avevano spinto a ripensarci e ad aggiungere poche righe possibiliste.
Quindi salvarlo.
Quindi un uomo che, ancora una volta, ha visto la morte. Un uomo di cinquant’anni abbondanti, stanco e provato, perché a ogni indagine prova maggior dolore scoprendo quanto male gli esseri umani riescano a infliggersi: tutti Caino. Ma nel “tutti Caino” non c’è assoluzione piuttosto un invito pressante a riconoscere il male in noi stessi e a tenerlo a bada.
Abbiamo colpe nostre, non colpe che ereditiamo, perché sono sufficienti le nostre a guastarci la vita.
Dove far rinascere Antonio? Da sua madre. Da Emma che lo conosce perché tanto si somigliano. E sarà lei a spingerlo a rinascere occupandosi di una “ferita del passato” che sta diventando “ferita del presente”.
E, a fatica, Antonio rinasce. Come in un lungo travaglio.
Nasce sfruttando due luoghi che mi avevano colpito.
Nizza Monferrato con la lapide sull’eccidio degli ebrei e i suoi portici che mostravano macellerie.
Cremeno, sulle alture di Bolzaneto, luogo verde e bellissimo, luogo di pace. E datemi un luogo così e la tentazione di usarlo come location per un sanguinoso delitto arriva subito. Come avevo fatto anni prima con Recita per Mariani e Mariani allo specchio.
Il romanzo è autoconclusivo, i riferimenti alle indagini precedenti sono minimi.
Aggiungerei due parole sulla copertina. Immagini di Genova ne avevo avute tante, ho proposto un risseu.
Nella copertina c’è un esplicito riferimento a Caino e Abele, perché ogni delitto è fratricidio. Non esiste un “altro” verso cui sia consentito il delitto. La copertina riproduce un risseu, tipico mosaico di ciottoli, bianchi e neri, mezzo povero, mezzo non raffinato, comunissimo in Liguria. Ma soprattutto coerente con il romanzo: esiste il bene e il male? Sì. Ma in ognuno di noi male e bene sono intrecciati, nessun ciottolo del risseu è perfettamente bianco o nero, ma lo diventa se confrontato con gli altri.
E Carlo Frilli, il mio editore, mi ha proposto l’immagine che trovate in copertina: Caino uccide Abele. Perfetto per il romanzo. Mi ha sempre colpito come Caino risponda quando gli viene chiesto dove sia Abele: “Non sono il custode di mio fratello.” Ecco, Mariani non ci sta. Continua a sentirsi custode di suo fratello, lo si dovrebbe capire in alcuni gesti, in certe corse che non sono soltanto per acchiappare un assassino.
Forse ogni scrittore riscrive sempre la stessa storia, aldilà dell’intreccio, perché ognuno è ossessionato da alcune domande. Quali sono le mie? Una è la verità che non è soltanto trovare gli assassini. Ma la seconda è di certo la colpa, la responsabilità, discorso che è cominciato con Mariani e il peso della colpa.
Alcuni colleghi indagano la società e “usano” il noir come strumento; a me interessano le persone, i loro dubbi, i loro errori.
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