Ha inizio con questo articolo una nuova Rubrica, IL TACCUINO DI MATESI, gestita dalla nostra poliedrica recensora Maria Teresa Siciliano, di cui potete gustare ogni sabato le recensioni (L’Artiglio Rosa).
Ho insegnato italiano e latino nei licei per decenni. Per la verità la mia laurea è in lettere classiche e all’università nei primi anni Settanta pensavo di insegnare latino e greco, ma, come si dice, l’uomo propone e Dio dispone (delle donne non si parla), per cui, dopo aver vinto il concorso a cattedre per italiano e latino, ho insegnato queste due materie per il resto della mia vita professionale. E la cosa, tutto sommato, non mi è dispiaciuta, dal momento che aver dovuto approfondire le mie competenze in letteratura (italiana e straniera) mi ha dato un maggiore spessore culturale. O così mi pare. E gradualmente, nell’antica querelle se siano superiori gli antichi o i moderni, ho finito per schierarmi con i moderni. Ciò è avvenuto perché, avendo insegnato a varie generazioni di studenti, ho capito che il problema principale della scuola superiore italiana era l’aggiornamento di metodi e contenuti. Quando ho iniziato, i programmi di letteratura italiana per il triennio del classico arrivavano a Pirandello. E non sono sicura che nelle intenzioni di chi li aveva redatti fosse compreso anche il teatro. Del resto vi ho già rammentato che ancora nel 1997, quando Dario Fo vinse il Nobel per la letteratura, anche nella scuola ci fu un po’ di scandalo, in parte per le opinioni politiche, allora di estrema sinistra, dello scrittore, ma soprattutto perché il teatro, e in particolare un teatro un po’ diverso con preminenza della mimica sul testo vero e proprio, non era considerato davvero letteratura.
Personalmente pian piano, sulla scorta di nuove conoscenze, mi sono emancipata dalla formazione classica in modi a volte provocatori: mi ricordo un corso di aggiornamento, credo nei anni Ottanta, in cui feci venire quasi un infarto ad un illustre ispettore, di cui non ricordo più il nome, affermando che lo studio della lingua latina non serviva a niente. In particolare condannavo la comune opinione secondo cui tale studio era essenziale per imparare a ragionare. Scopo che si raggiungeva ugualmente, secondo me, apprendendo una lingua moderna come il tedesco, oppure discipline come la matematica o le scienze.
È vero che nessuna traduzione può essere equivalente al testo in lingua originale, però mai si è riusciti nel liceo classico a far acquisire agli alunni una competenza della lingua latina così profonda da far loro gustare non dico Tacito, ma neanche Seneca in originale. Certo non ci arrivava già la mia generazione e, se andiamo a leggere gli articoli di Gramsci sulla scuola, troviamo con stupore il suo dispiacere per il fatto che i ragazzi di inizio Novecento (una scuola di élite, come sappiamo) non fossero più in grado di tradurre in modo soddisfacente, a differenza di quelli di epoca precedente. Sospetto che, andando ad approfondire, avremmo trovato lamentele simili anche lì e, risalendo indietro di decenni in decenni, scommetto che avremmo individuato come esperti latinisti solo gente tipo Lorenzo il Magnifico oppure Cicerone in persona. Che ovviamente rappresentavano il meglio alla loro epoca, e non solo. In ogni caso poi voleva dire uno per secolo, e neanche sempre. Punti di riferimento poco adatti alla scuola di massa, insomma.
Le cose sono persino peggiorate negli ultimi tempi. Se negli anni Novanta, a forza di una fatica diuturna e tenace, mia e degli alunni (ed era il mastery learning), si riusciva a portare tutti almeno alla sufficienza in traduzione, nel duemila non ci si riesce più. Immagino che gli allievi di oggi non abbiano più le competenze linguistiche di base necessarie. Per cui all’esame di maturità, nella correzione della seconda prova, i miei colleghi ed io eravamo costretti a fare “carte false”, tutti d’accordo, insegnanti esterni ed interni, ignorando gli errori più leggeri e svalutando quelli gravi. Insomma nessuno degli alunni superbravi, quelli a cui si dà giustamente 100 o addirittura la lode, era in grado di presentare una traduzione impeccabile, mentre riusciva benissimo a scrivere un saggio breve di alto livello. E allora?
Si dovrebbero inventare altri metodi dal momento che in fondo alla mia età potrei avere una mentalità arretrata. Per la verità nessuna innovazione introdotta negli ultimi tempi mi è sembrata fruttuosa. Non funzionano, mi pare, le tecniche sperimentate nello studio delle lingue moderne, dal momento che il latino e il greco sono lingue morte, e insieme molto complesse, ma non parlate in nessun paese del mondo: vi ricorderete che, quando Benedetto XVI dichiarò la sua volontà di dimettersi da papa (discorso letto in latino, la lingua usata dalla Chiesa cattolica nelle occasioni solenni), la maggior parte degli ascoltatori, tutta gente che aveva familiarità con la lingua latina, non comprese subito che cosa stava dicendo il papa. E avrete notato che perfino nella via crucis del venerdì santo non si usa più il latino, ma si traduce nelle principali lingue moderne.
Taccio quindi sul tentativo di far parlare gli alunni in latino, cosa che può avere effetti divertenti, ma certo non migliora le loro competenze nel settore, dal momento che oggi usiamo oggetti e concetti che spesso non hanno un corrispettivo in latino, o almeno non ce l’hanno nel latino classico.
Ma, naturalmente, una nuova generazione di insegnanti potrà in futuro trovare e sperimentare tecniche che io non riesco neppure a immaginare. Non mettiamo limiti alla provvidenza, come si dice. In fondo i professori della mia generazione hanno rivoluzionato l’insegnamento in tutti i settori.
Però a me pare che, così facendo, trascuriamo la cosa più importante. Perché noi siamo figli dei Romani (e dei Greci)? Perché loro hanno inventato le categorie fondamentali del nostro ragionare. Perché loro hanno gettato le basi della filosofia, della politica, della storia, della matematica, della scienza e, nonostante i grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi tremila anni all’incirca, la nostra cultura non potrebbe ancora prescindere da loro. Quindi inutile sprecare tante energie per tanti anni a tradurre in modo maccheronico. Impieghiamole piuttosto a meditare i testi dei grandi autori.
Quando insegnavo, dedicavo almeno un paio di ore al mese all’analisi e discussione di un classico in traduzione: quindi con lo scopo di capire il messaggio culturale e non la lingua. Quanto tempo ho passato con i miei alunni a meditare sull’intellettuale di Seneca:
Non gli è permesso prestare servizio militare: si candidi a cariche pubbliche. Deve vivere da privato cittadino: faccia l’oratore. È costretto al silenzio: aiuti i cittadini con una assistenza legale tacita. Gli è pericoloso anche l’ingresso nel foro: nelle case, agli spettacoli, durante i banchetti faccia il buon compagno, l’amico fidato, il convitato sobrio. Ha perduto gli incarichi del cittadino: svolga quelli dell’uomo.
Oppure su quello di Tacito:
Sappiano coloro che son soliti ammirare i gesti di ribellione che anche sotto cattivi prìncipi vi possono essere uomini grandi e che una riservata obbedienza, se accompagnata da energica operosità, può innalzare al vertice di quella gloria di cui molti si ammantano ostentando il sacrificio della propria vita, attraverso arduo percorso e senza vantaggio per lo stato.
Qui si tratta di principi di educazione civica, ma nei classici c’è tutto quello che riguarda, appunto, l’humanitas.
Sempre illuminante il pensiero di Teresa Siciliano. Su questo argomento, la sua modernità risulta addirittura sconvolgente. Personalmente mi abbarbico ai ricordi degli insegnamenti del liceo classico come a un bene preziosissimo e altamente formativo, ma in effetti Teresa mi ha fatto riflettere sul fatto che il grosso dell’insegnamento che mi è rimasto non è stato nelle tecniche linguistiche ma nella cultura che trapelava dalle righe tradotte. Le pongo allora una domanda provocatoria: è forse possibile trasmettere tale humanitas e tale cultura senza piegare gli alunni alle forche caudine di una grammatica obsoleta? Lo stesso effetto si avrebbe con una rapida lettura di versi e passi già tradotti? Ricorderemmo ancora chi è Saffo se non avessimo perduto la testa dietro la traduzione dei suoi frammenti?
Riporto la risposta (scritta nel gruppo) di Teresa Siciliano: Ovviamente tutti noi alunni del classico siamo sempre partiti dalla lingua. Però, quando ero una professoressa appena laureata, mi colpì un tema assegnato alla maturità sull’eredità del mondo classico. Ebbene, dopo 9 anni di studio di latino e greco e una laurea in lettere classiche con 110 e lode, io non avrei saputo svolgere quel tema. L’unica cosa che mi veniva in mente era il diritto. Diritto romano di cui all’epoca non sapevo nulla.
Insegnando poi nel triennio, ho visto che nella mente degli alunni non restava niente del brano, neanche quando era una pagina densa di significati. La fatica della traduzione era tale che tutto si riduceva a un rebus, a un abracadabra che non doveva avere senso, neanche logico e sintattico.
Invece la lettura integrale di opere brevi come Il De tranquillitate animi di Seneca o l’Agricola di Tacito, caspita come lasciava il segno! E serviva a capire come le tematiche trattate, fatte le debite differenze, fossero in fondo quelle ancora attuali.
Mi trovo d’accordo con Teresa. Ai tempi della scuola, quando sudavo sulle traduzioni, del testo in sé non mi rimaneva nulla o quasi. Ero concentrata solo sulla traduzione. Mentre nelle ore dedicate alla letteratura latina, quando studiavamo i testi con lettura a fronte in italiano, le cose erano assai differenti.
Mi associo ai complimenti per la nuova rubrica di cui certo non perderò un appuntamento.
Cara Matesi, non hai idea di quante volte mi sia riproposta di riprendere i classici in mano. Che mi mancasse la tua spinta per farlo?
Un caro saluto
Viviana
Grazie a tutte le intervenute nel blog e su facebook.
Io amo il latino, quindi il mio non è il commento di una persona che a scuola odiava fare traduzioni. Credo però che Teresa abbia ragione. Il latino non è utile in quanto lingua (ormai morta, ahimè), ma piuttosto in quanto concetti. Le idee di Latini e Greci ancora stanno alla base del nostro pensare e del vivere comune. Trovo però che le traduzioni in latino abbiano un aspetto positivo, che non è legato solo a quello nostalgico: insegnare ai ragazzi (nella pratica) a capire quali sono gli elementi della frase, a fare l’analisi logica e del periodo. Dunque, ben venga mettere da parte le traduzioni del latino per lasciar spazio al pensiero dei latini, ma andrebbero poi incrementate le ore di analisi logica, grammaticale e del periodo, perché sono in molti a non saper riconoscere le subordinate e gli elementi della frase e ciò si traduce in virgole messe a caso (a volte fra soggetto e verbo, altre fra il verbo e il sostantivo del complemento oggetto, altre ancora mancanti prima/dopo i vocativi). Un’istruzione più moderna va bene, ma andrebbe integrata con altro (come suggerivo: più ore di analisi logica, del periodo e grammaticale, oltre a quelle dedicate al pensiero dei latini), in modo che la conoscenza della lingua italiana non vada persa.
Concordo. Al momento si stanno perdendo le competenze linguistiche italiane. Anche fra gli insegnanti e, ahimè, fra gli scrittori.
COLETTE KEBELL HA COMMENTATO NEL GRUPPO:
Latino a scuola?
Potrei anche cavarmela con la seconda parte ma per il latino sono andata sul sicuro, ho chiesto a mio marito. Io di mio non saprei dire la differenza tra rogito ergo sum e obtorto collie (a parte che è un cane col collo storto).
Colette: Il latino a scuola. Spendere anni per tradurre (male) testi invece di leggere i testi dei grandi autori.
Marito: Bella domanda. Il metodo induttivo non aiuta, ho tre esempi: un compagno di classe per 5 anni non ha mai studiato una briciola di latino (A parte venerunt legati ut tractarem pacem, o qualcosa del genere, che il prof usava per salvare gli inetti); era il periodo quando si usavano i borsoni da ginnastica per andare a scuola, nel suo caso pieno di bigini. Ha poi studiato medicina ed è diventato un chirurgo affermato. Un latinista decente me lo sono ritrovato anni dopo a lavorare da Longoni Sport e cercare di vendermi una bicicletta e una che sapeva decentemente il latino ora fa la Life Coach. Quest’ultima deve aver imparato qualcosa perché si fa pagare e non ho ancora capito cosa faccia nella vita.
Colette: morale?
Marito: non ne ho idea. A me non è servito. E mi sono avvicinato seriamente alla letteratura perché una professoressa ha creduto in me e mi ha dato un libro da leggere. Mi chiamò da parte e disse “questo secondo me potrebbe interessarti e darti qualche dritta.” Sono gli individui che fanno la differenza, quasi mai le istituzioni. Se non fosse stato per quel libro probabilmente mi sarei perso. Ah, digli che il problema non è solo del latino: anche le divina commedia nella versione del Sapegno ha fatto i suoi danni. Dico, per ogni riga di poesia metteva quaranta note di spiegazione. Si può essere più anali di così?
Ops.
Mi ha colpito moltissimo questa frase di Babette: ” La fatica della traduzione era tale che tutto si riduceva a un rebus…”
Mi sono diplomata allo scientifico e poi mi sono laureata in Ingegneria, ve lo dico giusto per farvi capire che ai tempi della scuola non ero proprio una fan del latino 😉 Ho concluso gli studi convinta che del latino non mi fosse rimasto nulla e che fosse stato tutto tempo sprecato.
Ho capito che sbagliavo quando mi sono accinta ad imparare il tedesco (la cui grammatica ricalca quella latina), lo spagnolo ed ora il francese.
Col senno di poi posso anche affermare che la faticaccia che ho fatto per risolvere quei rebus con le lettere mi è servita per affrontare altri rebus fatti di numeri.
Care prof, se quei frammenti tradotti meccanicamente non hanno parlato alla mia mente di diciottenne, state certe che il metodo è servito! Il latino è stato un’ottima palestra per il mio cervello analitico 🙂
La frase è di Teresa Siciliano…
Come hai detto, e come hanno confermato altre amiche, noi studenti eravamo così presi dalla traduzione che in testa non restava nulla.
Complimenti, per la nuova rubrica.