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Nozomi vuole scrivere l’haiku (*) più bello che sia mai stato scritto per vincere il concorso Ito-en. Ci riuscirà? Forse, seguendo le raccomandazioni del nonno…

“Hai la debolezza di voler stupire. Cerchi versi splendidi per cose lontane; dovresti trovarli per cose che ti sono vicine”, le ripeteva sempre il nonno, facendo sue le parole del poeta Basho, ma Nozomi non ci stava.
Lei avrebbe scritto l’haiku più bello che fosse mai stato scritto e voleva trovare qualcosa di unico, qualcosa che a nessuno era ancora venuto in mente e con quello avrebbe vinto il concorso di Ito-en, il più famoso fra i produttori di tè. E, anche se non l’avesse vinto, c’era sempre la possibilità di finire con altri 1999 sulle bottiglie del tè Oi Ocha. Sai che soddisfazione ricevere a casa una scatola di bottiglie con il suo haiku bello stampato sopra? Non le avrebbe mai bevute, ma tenute da parte per farle vedere ai suoi figli, quando sarebbe stata grande e sposata con Hogay, che però ancora non sapeva di essere il suo futuro fidanzato. In fondo c’era tempo, aveva solo dodici anni e Hogay appena uno in più.

«Cosa ho detto, Nozomi?» le chiese il professore di storia, intrufolandosi nei suoi pensieri. Doveva inventare qualcosa, subito, altrimenti sarebbe stata un’altra nota da portare a casa, un’altra sgridata di papà, ma soprattutto stoviglie di tutti da lavare per una settimana o forse per un mese, se la mamma fosse stata particolarmente di malumore.
«Allora?» incalzò il noioso professor Mashiti. La sua faccia era cattiva e gli occhi, dietro le lenti, più sottili del solito.
Fu in quel momento che accadde. Lieve come un beccheggiare di barca, nessuno si mosse. Anni di abitudine avevano mutato il panico in rassegnazione, ma fu sufficiente perché Mashiti distogliesse l’attenzione da Nozomi. Poi cadde un libro dalla libreria e il sussultare si fece più intenso e sembrava non finire mai.  Bisognava uscire e scendere le scale, con calma. L’edificio era antisismico, ma nel caso di una scossa così intensa era sempre meglio andare in strada. Nozomi agguantò lo zainetto delle emergenze e indossò l’elmetto, poi si mise in fila dietro Ragani. La facevano spesso, l’esercitazione di prova. Solo che adesso era vero, terribilmente vero, e quella scossa non finiva più, quello era lo jishin, il grande terremoto.
Nozomi vide che in strada c’era un sacco di gente, ma anche tanto silenzio. Nessuno si sarebbe sognato di mettersi a gridare, se aveva paura se la teneva dentro perché un atteggiamento scomposto avrebbe potuto spaventare gli altri fino a diventare contagioso. E si sarebbe scatenato il panico.

Nozomi aveva paura.
Paura di arrivare a casa e non trovare più nessuno, la casa crollata, le sue cose sparse ovunque, la bambola con la quale giocava – anche se era grande, come le diceva sempre la mamma – schiacciata sotto un cumulo di macerie. “Mocciosa”, la chiamava il fratello e chissà dov’era in quel momento. E i suoi genitori? La mamma doveva essere al mercato, a quell’ora, ma che ore erano? E il papà? Forse era in strada anche lui con i colleghi del suo ufficio. Erano preoccupati per lei?
Nella sua testa la confusione si aggiunse alla paura, ma nessuno l’avrebbe immaginato perché, da fuori, appariva solo come una graziosa ragazzina a cui il caschetto dava un’aria interessante.
Arrivarono in file ordinate al punto di aggregazione per decidere lì il da farsi. Erano bambini, non li si poteva lasciare andare a casa da soli; ma Nozomi non si sentiva affatto una bambina, lei aveva già avuto il kikan, la prima nella sua classe, a testimoniare che era grande e avrebbe persino potuto avere un bambino tutto suo, anche se giocava ancora con le bambole.
Si sedette sul marciapiede mentre Mashiti prendeva accordi con gli altri professori per organizzare l’emergenza. Parlavano sottovoce fra loro, uno ascoltava qualcuno dall’altra parte del cellulare e poi riferiva agli altri, ma Nozomi non voleva sapere quello che si dicevano perché temeva di sentire qualcosa che le avrebbe fatto ancora più paura di quella che già aveva, e che ora riusciva a nascondere. Sarebbe bastato pochissimo per farla scoppiare. E allora avrebbe pianto e gridato fino a rimanere senza fiato, e tutti le si sarebbero fatti intorno per consolarla e magari anche il professor Mashiti le avrebbe allungato una carezza.
Si chiuse le orecchie con le mani e, nel silenzio della sua testa, ebbe la sensazione che forse le sarebbe uscito quell’Haiku che cercava da sempre, quello era il momento giusto ed era un momento irrepetibile perché ancora non sapeva nulla di quello che era realmente successo, se la sua casa fosse ancora là, se avrebbe rivisto la sua famiglia.
“Ora o mai più” pensò e l’haiku le sgorgò lieve.

Trema la terra
Non provare paura
È così che va

Non era un verso splendido per cose lontane, era qualcosa di così vicino che stava dentro di lei. L’avrebbe recitato al nonno e poi spedito a quel concorso. Magari sarebbe finito su qualche bottiglia, che avrebbe messo da parte per mostrarla a figli e nipoti.
Per un po’ dimenticò di avere paura, quelle diciassette sillabe ebbero uno strano potere su di lei; allora si girò verso Fumika, la sua piccola e spaventata compagna di banco, e gliele sussurrò nell’orecchio.
Fumika sorrise e poi le strinse forte la mano.

(*) Lo haiku (俳句 [häikɯ]) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo. Generalmente è composto da tre versi per complessive diciassette more (e non sillabe, come comunemente creduto), secondo lo schema 5/7/5 (Wikipedia).

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Cristiana Pivari vive a Trento dove, per lavoro, cataloga libri. Si è occupata di teatro per molti anni e ora si limita a scrivere. Ha all’attivo qualche pubblicazione sia in solitaria sia in progetti comuni. Di prossima pubblicazione il suo ultimo romanzo dal titolo “Joyce”.