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Simona Liubicich torna indietro nel tempo e immagina un gruppo di patrioti serbi all’alba della Prima Guerra Mondiale. Patria, amore e morte avvinti in un nodo inestricabile.
Blazuj, Serbia. 28 giugno 1914
«Li hanno acciuffati! Gavrilo e gli altri sono stati arrestati!» sbraitò Vasilije, spalancando la porta all’improvviso e piombando come un forsennato all’interno del casolare, il petto ansante.
Il focolare annerito dall’usura ardeva in un angolo, riflettendo sul muro la danza scarlatta delle fiamme intanto che la fragranza del boslanski lonac, una zuppa a base di cavolo e carne, colmava la stanza. Gli uomini che avevano atteso con trepidazione l’arrivo del loro compagno, osservarono Vasilije impietriti. Vojvodan Popov, il leader della società segreta, picchiò un pugno rabbioso sul tavolo. Il bicchiere di slivoviz si rovesciò facendo colare la grappa sul pavimento di legno, le gocce che picchettavano nel silenzio della stanza.
Era la fine di giugno e quel giorno a Blazuj, villaggio limitrofo a Sarajevo, si celebrava la festa di San Vito: i boschi erano rigogliosi, i prati ricoperti di bianchi gigli selvatici, l’aria profumata d’estate e di sole.
«Quando è accaduto?» domandò Vojvodan, la voce grave.
«L’ho appena appreso da Jakov, giù alla locanda. È appena giunto da Sarajevo, non senza difficoltà e ha riferito che verrà qui al più presto per farti rapporto. Il piano ha avuto successo, nonostante avessimo temuto fosse tutto perduto.»
«Vuoi farmi intendere che l’attentato è riuscito?»
«Sì, l’abbiamo spuntata. Il cecchino non è riuscito a fare fuoco dalla finestra del palazzo ove si era appostato perché disturbato dalla folla, ma Nedeljko, poco più avanti ha lanciato un candelotto di dinamite sulla colonna d’automobili di quei porci. Purtroppo, ha colpito solo la quarta vettura, dove viaggiavano gli accompagnatori. Ci sono stati alcuni feriti e il panico si è scatenato tra la folla dei curiosi lungo la strada. Il percorso che avevamo studiato, grazie alle informazioni del nostro infiltrato, non è stato modificato dalle autorità e l’Arciduca ha insistito per visitare l’ospedale con le vittime dell’esplosione, subito dopo il discorso tenutosi al municipio. Gavrilo è riuscito ad avvicinarglisi presso il Ponte Latino, confondendosi nella calca e ha aperto il fuoco appena l’obiettivo è stato a tiro. Francesco Ferdinando è morto, e con lui anche la moglie.»
A quelle parole, la donna che sino a quel momento si era tenuta silenziosamente in disparte, apparentemente intenta a rimestare la zuppa nella marmitta, si voltò di scatto lasciando cadere a terra con un tonfo sordo il ramaiolo, i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi che sprizzavano scintille.
«Per la miseria, Vojvodan! Lei non doveva essere coinvolta, avevamo detto che non c’entrava con questa maledetta questione politica, così come gli accompagnatori! Dovevamo colpire solo l’arciduca e il governatore Potiorek! Stiamo diventando degli assassini, Cristo!»
«Tieni la bocca chiusa, donna! Questa è una maledetta guerra, non un giuoco per fanciulli! Disgraziatamente, ne fanno le spese anche individui senza colpe. Quanti uomini abbiamo perso in questi tre anni, quanti giovani hanno sacrificato la loro vita per la nostra causa?» le inveì contro il marito, facendola trasalire.
«Credi ch’io non lo sappia o non sia in grado di comprendere, forse?» incalzò lei, alzando il mento in segno di sfida. «Pensi davvero che non pianga ancora la morte di mio fratello? Io stessa sarei pronta a dare la vita per i miei ideali ma non ad accoppare gente inerme senza motivo!»
«Ti prego, calmati, draga» si chetò allora Vojvodan. «Questo destino accomuna tristemente tutti noi ma non dobbiamo gettare altra pece sul fuoco.» Moderò il tono della voce e guardò alla moglie con un misto d’amore e comprensione. Ksenija chinò il capo, lasciando che i lunghi capelli corvini le coprissero il volto come un cupo sudario. Con un gemito sommesso, raccolse il mestolo da terra e riprese a badare al pranzo; lacrime di impotenza le riempivano gli occhi.
«Ciò che ancora non comprendo» proseguì Vojvodan «è il motivo per cui Gavrilo e gli altri non si siano attenuti ai piani; dovevano portare a termine la missione e togliersi la vita. Perché diavolo non l’hanno fatto?»
«Pare ci abbiano provato» gli rispose Jakov «ma le pastiglie di cianuro che ci eravamo procurati non hanno sortito effetto. Forse non erano abbastanza potenti o semplicemente erano vecchie. Gavrilo ha tentato di accopparsi usando la pistola ma è stato fermato dalla fiumana di gente prima di riuscirvi. L’hanno immobilizzato e arrestato insieme a Nedeljko. Mehmed è scappato, non sappiamo dove si trovi in questo momento, probabilmente non lo rivedremo più.»
Vojvodan fissava un punto sopra il tavolo, lo sguardo smarrito nel vuoto. La società segreta aveva impiegato mesi a programmare quell’attentato ma ora si stavano ritrovando in una situazione a dir poco rovinosa.
«Ci daranno la caccia, Vojvodan» disse Matej. «Li faranno parlare, li tortureranno sinché non riveleranno i nomi di ognuno di noi. La Crna Ruka è bruciata, siamo tutti in grave pericolo. Da giorni covavo un infausto presentimento: gli studenti della Mlada Bosna, la giovane Bosnia, hanno la testa colma di appassionate fantasie politiche ma non erano preparati ad affrontare la lotta armata, tantomeno le pericolose conseguenze.»
Vojvodan annuì col capo. «Dovevamo usare unità esperte, dovevamo andare noi stessi. In quale inferno ho trascinato i miei compagni…» mormorò rivolgendo lo sguardo amareggiato verso i due corresponsabili seduti di fronte a lui. Uno di loro si alzò in piedi all’improvviso, ribaltando la sedia e iniziando a passeggiare nervosamente avanti e indietro, attraverso la stanza. Era di corporatura imponente: i capelli scendevano lisci e neri a sfiorare le poderose spalle, le gambe fasciate in pantaloni che s’infilavano in consunti stivali di pelle e la camicia aperta sul torace. Quando si voltò verso il suo comandante, i suoi occhi color ferro parevano lame affilate.
«Vojvodan, tu non hai nulla da rimproverarti. Sei un ottimo condottiero, un maestro per tutti noi nonché un amico fraterno. Eravamo tutti consci che Gavrilo e i suoi fossero poco più che ragazzi. Ora non possiamo più recriminare il passato ma pensare a un piano di emergenza. Se i prigionieri dovessero cantare, saremmo tutti perduti insieme al nostro movimento. Sapevamo sin dall’inizio quali sarebbero stati i rischi da correre in questa missione, ma se vogliamo unificare sotto uno stesso stato tutti i territori serbi, non possiamo farci sconfiggere proprio ora, non adesso che l’erede al trono d’Austria-Ungheria è finalmente morto. Io non mi fermerò mai, mai!»
«Farci sconfiggere Draja? Se Gavrilo e i suoi faranno i nostri nomi, ci sarà un massacro» rispose Vojvodan. Matej annuì preoccupato col capo e Ksenija, improvvisamente divenuta pallida, si appoggiò alla parete portandosi una mano al petto e voltando lo sguardo verso la culla dove dormiva il loro figlioletto di pochi mesi.
«Lei… stanotte verrà?» chiese Vojvodan all’uomo in piedi di fronte a lui.
«Sì, sai bene che non è mai mancata, pur arrischiando la sua stessa vita. Non sarà diverso questa volta» rispose Draja.
«La tua è una donna coraggiosa, fratello. E ti ama.»
«Già, e non sa quanto sta azzardando. È un’incosciente.»
«A lei non importa! Sapeva chi eri quando ha scelto di restare al tuo fianco, abbracciando la nostra causa e sprezzando le sue origini.»
«È solo una ragazzina, perdio! Ha saputo più tardi chi ero realmente, quando ormai non potevamo più tornare indietro. È la compagna di un assassino, si è sporcata le mani di sangue, come tutti noi. Non volevo ciò per lei.»
«Lei ha scelto, compagno. Ha scelto di essere una donna libera, come te, come tutti noi. Sei un uomo libero, Draja, questa è la sola verità. Tienila sempre bene a mente poiché tu combatti per la patria e lei non è più una giovinetta ma uno dei nostri migliori aggregati. Senza il suo aiuto non saremmo giunti sino a oggi. È solo grazie alle sue preziose informazioni se siamo venuti in possesso del percorso che avrebbe compiuto l’Arciduca con la sua scorta oggi a Sarajevo.»
«Ci chiamano “terroristi”, Vojvodan.»
«Noi siamo patrioti, un popolo innamorato della propria terra, fratello. Ci batteremo sino alla morte se sarà necessario. Non scapperò di fronte agli austroungarici, non mi tirerò indietro come un coniglio e affronterò il mio destino. Se dovrà essere, cadrò abbracciando le mie chimere.»
Draja osservò per un fugace istante il prato attraverso la piccola finestra: apparentemente sembrava una splendida giornata estiva ma dentro sé, l’anima era oppressa da sensi di colpa. Aveva sempre creduto in ciò per cui combatteva. La famiglia di Vojvodan Popov lo aveva accolto in seno a sé quando lui era poco più di un bambino, dopo che sua madre lo aveva abbandonato per fuggire con un turco a Istanbul. Del padre non aveva mai saputo nulla: lui era uno dei tanti bastardi seminati in giro dopo pochi attimi di lussuria tra le cosce di una femmina.
Quando Vojvodan era entrato a far parte della società segreta del movimento nazionalista della Mano Nera, fondato nel maggio del 1911, Draja aveva chiesto senza indugio di poterlo seguire. All’inizio, l’amico era stato risolutamente contrario ma il giovane aveva alla fine avuto la meglio, dimostrandogli di avere fegato da vendere e diventando ben presto il suo inseparabile braccio destro. Purtroppo, entrambi ancora non sospettavano che il folle atto di quel giorno avrebbe sconvolto presto l’equilibrio di tutta l’Europa dando inizio a un conflitto di portata mondiale.
La festa di San Vito veniva celebrata ogni anno con danze, falò e lunghe tavolate conviviali. Tutto il paese festeggiava la commemorazione della battaglia della Piana dei Merli del 1389 contro gli ottomani. La notizia dell’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando aveva fatto eco in tutta la zona, incendiando ancor più gli animi. In molti simpatizzavano per la Crna Ruka, nonostante in paese quasi nessuno fosse a conoscenza dell’identità dei suoi membri integranti. Gli schiamazzi e le risate colmavano l’atmosfera, il suono dei violini echeggiava in ogni viottolo di Blazuj intanto che il profumo della carne di montone speziata e cotta alla brace stuzzicava piacevolmente l’olfatto e il palato.
Draja, appoggiato a uno steccato di legno, teneva lo sguardo rivolto verso il limitare del bosco, in attesa. Lei compariva sempre da quella parte all’imbrunire. Dio, pensò, sono perdutamente innamorato di lei ed è la cosa che mi fa più terrore.
Quando una figura avvolta in un mantello e col cappuccio calato sul volto, uscì dalla boscaglia in sella a un destriero nero come la notte, il volto Draja si aprì in un dolce sorriso. La sua amante galoppava a briglia sciolta e appena fu dinanzi a lui, smontò con un agile balzo e si gettò tra le sue braccia. Draja la strinse contro al suo corpo infiammato mentre affondava con prepotenza nella sua bocca, i sensi destati dal profumo di lavanda che l’avvolgeva. Il cappuccio di velluto le ricadde sulle spalle insieme a una cascata di capelli color miele, ricci e corposi. Sentiva le sue braccia cingergli il collo, rispondendo con ugual passione al suo attacco, mentre aderiva al suo corpo come fossero due parti di uno stesso essere. Quando Draja si staccò da lei, i suoi occhi ardevano di desiderio.
«Stai rischiando troppo a venire sin qui, specialmente dopo gli avvenimenti di oggi. Non mi sento tranquillo a saperti vicino a me adesso che la situazione è precipitata.»
Lei sollevò lo sguardo color zaffiro sul suo volto cesellato. Draja possedeva lineamenti spigolosi, il naso leggermente aquilino, occhi color ferro e capelli come il manto di un corvo. Era il suo amante da tre anni. Si era innamorata di lui sin da quando lo aveva visto per la prima volta a Sarajevo. Era il 1911 e il suo cuore aveva sobbalzato nel petto quando il giovane falegname, intento a riparare una porta finestra nel salone del suo palazzo, le aveva sorriso, sfrontato. Vedere quei muscoli guizzanti, il sudore che imperlava la sua fronte e i bicipiti contratti dallo sforzo, l’aveva fatta vergognare per i pensieri intemperanti che l’avevano sfiorata. Lei era Jelena, unica figlia del colonnello Aleksije Tesla, braccio destro del generale Oscar Potiorek, ed era riuscita a invaghirsi nientemeno che di un rozzo popolano. D’altronde, era sempre andata controcorrente; viveva sprofondata in biblioteca, sommersa da pubblicazioni e testi politici, la sua passione. Se sua madre usciva per vedere le amiche in una pasticceria del centro, lei prediligeva le solitarie passeggiate a cavallo, dove si sentiva libera dalle costrizioni dell’etichetta. Non era un segreto, in famiglia tutti la consideravano una “stramba figliola”.
Era diventata donna tra le braccia di Draja, aveva conosciuto il suo corpo intimamente. Poi, aveva incontrato la sua gente. Scappava da palazzo in piena notte, vestendosi come una contadina. Aveva riso di cuore, ballato sfrenata senza curarsi delle imposizioni nobiliari con le quali aveva convissuto sin da quando era venuta al mondo, oppressa da un sistema che non approvava. Soprattutto, molto presto aveva scoperto che Draja Nemanja non era solo un semplice popolano ma un membro di rilievo della Crna Ruka; era un pericoloso rivoluzionario sul quale pendeva lo spettro della pena di morte. Sul momento la notizia l’aveva sconvolta ma, durante le notti trascorse tra le sue braccia, ascoltando la passione che animava il suo proposito, Jelena aveva compreso il motivo che lo aveva spinto a entrare nel movimento nazionalista. Così, anche lei aveva presto insistito per partecipare alle riunioni segrete e i membri della società le avevano accordato la loro fiducia, rafforzata ulteriormente da quando lei aveva iniziato a trafugare informazioni riservate dallo studio privato di suo padre. Aveva ricopiato mappe, fotografato cartigli e lettere, diventando un membro della Mano Nera a tutti gli effetti, una spia doppiogiochista. Un grande rischio il suo: il padre stesso non avrebbe esitato ad ammazzarla con le sue mani se avesse saputo del tradimento, ma lei non si era mai pentita della sua decisione, né mai lo avrebbe fatto. Erano due anni e mezzo che militava nell’organizzazione. Aveva imparato a maneggiare con destrezza la pistola, a usare il coltello per difendersi e tenere a freno il panico. A diciott’anni, Jelena era un agente addestrato e la compagna del braccio destro di Popov: il “siva ubica”, lupo assassino.
«Il pericolo fa parte della mia vita, Draja» gli disse. «L’ho scelto quando m’innamorai di te, quando mi rivelasti la tua vita parallela avvolta dall’oscurità e quando io stessa insistei per entrare nella Crna Ruka. Ho deciso di rimanerti accanto perché ti amo più della mia stessa vita e non ti abbandonerò adesso che le carte sono in gioco.»
«Sei cocciuta come un mulo, contessa.»
«Non chiamarmi con quel titolo, non lo sopporto dalla tua bocca, Draja.»
«Non puoi rinnegare ciò che sei, Jelena. Sei una nobildonna e siamo tutti in grave pericolo; non avrei mai dovuto metterti gli occhi addosso» mormorò cupo.
«Hai mai chiesto un parere a me, dupe? Tu vorresti decidere al mio posto ma io so, dentro il mio cuore, che cosa desidero. Io sono la tua donna, siva ubica… E ti amo.»
«C’è la tua vita in ballo, perdio! Qui non si parla d’amore o d’ideali ma di morte…Morte! Se Gavrilo e gli altri canteranno salterà fuori anche il tuo nome, lo capisci? Se ti troveranno insieme a me, sarà la fine!» le disse alzando la voce e scuotendola per le spalle, facendole quasi male.
«Sai meglio di me che ormai è troppo tardi per tornare indietro e io sono pronta ad affrontarne le conseguenze. Non me ne andrò. Stanotte sono venuta per restare, non tornerò a casa mai più.»
Draja spalancò gli occhi. «Che diavolo significa, donna?»
«Che ho lasciato una lettera, spiegando ai miei familiari che da tempo non condivido più i loro ideali. Certamente non ho accennato alla Mano Nera ma ho semplicemente scritto che mi ero innamorata di un uomo libero, un cittadino senza titoli né istruzione e che volevo restare con lui per sempre, rinunciando a ogni mio diritto di nascita. Da questa sera la contessa Tesla muore e nasce Jelena, Jelena Nemanja, se tu lo desidererai.»
Draja la guardò esterrefatto, gli occhi che sembravano tizzoni. Che cosa le era saltato in mente?
«Cristo, sei impazzita? Loro ti ritroveranno. Tuo padre non si fermerà di fronte a nulla e con l’aiuto di Potiorek, stai certa, non avrai vie di fuga.»
«Vedremo. Potiorek non possiede il dono della veggenza, nessuno sa dove io mi trovi, in questo preciso istante.»
«Ma se troveranno me, ci sarai anche tu.»
«Per ora, io rappresento il problema minore. Mio padre non è neppure tornato a casa dopo l’attentato; con tutta probabilità, trascorrerà l’intera notte al palazzo del governo e mia madre…oh, quella non si accorgerebbe di nulla, impegnata a discorrere di sciocchezze e bere vodka. Draja, era da tempo che meditavo di andarmene! Non crucciarti, sono felice tra la tua gente e qui voglio rimanere.»
«Scopriranno che sei coinvolta» le sussurrò mesto, passandole un dito lungo la guancia.
«Non li temo, non se sarò insieme a te» rispose lei, alzando il mento. Draja la osservò attraverso le folte ciglia scure. Jelena era una ribelle per natura e Dio, nonostante il furore, aveva voglia di strapparle i vestiti di dosso e possederla sull’erba di quel prato, sotto quel meraviglioso cielo stellato con le cicale che frinivano. Come se gli avesse letto nella mente, lei gli sussurrò: «Adesso portami a casa, ljubav. È la notte di San Vito, la festa del nostro popolo e non la trascorrerò certo questionando, giacché sono giunta fin qui con ben altre intenzioni.»
Piccola volpe bionda, pensò Draja mentre i suoi sensi si ridestavano al suono della voce seducente. Afferrò le redini del cavallo di Jelena e tenendola per mano, attraversò il prato sino a un vialetto che conduceva a una piccola casa di legno e pietra, dove un cane meticcio si mise a latrare appena li vide giungere.
«Silenzio, botolo, sveglierai i bambini con questo fracasso! Fila via!» gli ordinò, cosicché la bestia si rintanò nella cuccia, la coda tra le zampe. Draja aprì la porta del casolare, un locale unico adibito a cucina e soggiorno con una porta che dava su una stanza disadorna, povera, con un letto dalla testiera intagliata che lui stesso aveva creato. Non aveva nulla da offrire a Jelena se non il suo amore. Come avrebbe fatto a trascorrere una vita priva di qualsiasi agio dopo il mondo dorato nel quale ella aveva vissuto per anni? Non avrebbe mai dovuto sorriderle e restare ipnotizzato da quegli occhi color del mare, non avrebbe dovuto baciarla quella sera nel parco della villa, nascosti dai cespugli di camelie e sprofondare nella sua dolcezza virginale, perdendosi per sempre…
La depose sul letto come un gioiello prezioso e iniziò a sfilarle gli abiti di dosso sinché non fu completamente nuda alla sua vista. Jelena era la cosa più bella che gli fosse capitata nella vita. Se le fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Si spogliò, gettando tutto a terra in un mucchio stazzonato di vestiti e le si adagiò di fianco. Percorse con un dito il suo collo, il piccolo seno e la pelle lattea sino al ventre, mentre lei si lasciava andare a un sospiro beato. Le catturò la bocca con un bacio ardente e la coprì col proprio corpo. Ben presto, i suoni della musica provenienti dalla festa di Vidovdan attutirono i sospiri d’estasi dei due amanti.
La luna piena occhieggiava attraverso la piccola finestra della casa, arrossendo, osservando il lupo e la volpe avviluppati nella danza dell’amore.
30 luglio 1914
Le settimane seguenti all’attentato di Sarajevo trascorsero in un’atmosfera angosciante. Tutta l’Europa era sconvolta per l’assassinio dell’Arciduca e già in molti simpatizzavano per l’Austria. Era la fine di luglio e nessuna notizia era giunta dal carcere nel quale erano rinchiusi Gavrilo Princip e gli altri. A Blazuj, tutto faceva sembrare una tranquilla estate e pochi giorni prima, nella minuscola cappella in cima alla collina, Draja si era unito in matrimonio con la donna che amava. Una cerimonia celebrata in semplicità: solo gli sposi, il prete e i testimoni, Vojvodan e Ksenija. La sera avevano cantato e ballato sino a notte fonda, rompendo diversi bicchieri per festeggiare la nascita della nuova famiglia ed evitando di pensare, solo per un poco, al tremendo pericolo che incombeva su di loro.
Dopo essersi lavato, usando vari secchi d’acqua attinti al pozzo e un pezzo di sapone casalingo, Draja si sedette nell’aia di fronte a casa, asciugandosi al calore del sole. Le cicale frinivano e lui si sentiva in pace, rapito mentre osservava il trionfo della natura attorno a sé. Ma fu distolto all’improvviso dai suoi lieti pensieri non appena scorse tre figure femminili uscire dal bosco correndo a perdifiato verso la sua casa. Le donne si reggevano le gonne, sollevando le gambe nude nell’erba alta. Cristo santissimo, pensò…erano Jelena, Ksenija e Natalija. Cosa stava accadendo? Draja s’alzò in piedi e si precipitò loro incontro, raggiungendole in poche falcate.
«Che accade?»
«Soldati! Stanno venendo verso il villaggio!»
«Quanti sono?»
«Almeno trenta, Draja. Sono tanti, mio Dio…» mormorò Jelena.
«Presto, a casa di Vojvodan! Natalija, trova Jakov e raggiungeteci immediatamente!»
«Che sta succedendo Draja?» chiese sgomenta Jelena.
«Ci hanno trovato. I prigionieri hanno parlato.»
Tenendosi per mano, i due accorsero verso la casa dei Popov, incrociandosi lungo la strada acciottolata con Matej e Vasilij.
«Draja, è notizia certa!» gridò l’amico mentre correva su per il pendio. «Hanno cantato! Quei bastardi adesso sanno tutti i nostri nomi. Matej li ha scorti dalla collina: sono guidati da Tesla in persona.»
Jelena si voltò, terrorizzata. Suo padre era alla guida di quella squadra omicida! L’avrebbe scoperta, avrebbe appreso del suo tradimento e attentato alla vita di Draja. Non poteva permetterlo.
Il peggior incubo di Draja si stava avverando. Per un breve attimo aveva pensato che la verità non sarebbe più venuta a galla, che forse avrebbero avuto una possibilità. Cosa ne sarebbe stato di loro adesso? Vojvodan era fermo di fronte alla sua casa, la pistola carica in mano.
«Presto, tutti dentro!» gridò al gruppo. Appena entrarono nella casa, lui richiuse la porta alle sue spalle e la sbarrò, abbracciando Ksenija con trasporto.
«Vojvodan, ci hanno trovato.»
«Non preoccuparti, moje srce, andrà tutto bene. Prendi Luka e mettilo nel passaggio, svelta!»
Draja guardava la coppia di amici, lo sguardo orripilato. Tutto stava per finire, quel giorno non avrebbero visto il sole tramontare.
«Dove sono Jakov e Natalija, perché non giungono?» chiese Jelena, in preda all’ansia. Aveva appena finito di parlare che i primi colpi di fucile iniziarono a esplodere intorno a loro. Provenivano dal paese, insieme a suoni di grida concitate. La giovane corse all’armadio nella camera di Vojvodan e agguantò un’arma insieme a una buona scorta di pallottole¸ la caricò e ritornò vicino alla finestra. Adesso poteva vederli. Le giubbe rosse, in testa il loro comandante, suo padre.
Forse, se lei si fosse consegnata, avrebbero risparmiato la vita agli altri. Poggiò la pistola a terra e lanciò una fuggevole occhiata a Draja, che si voltò verso di lei, afferrando all’istante le sue intenzioni.
«Jelena…Che cosa…NO!» Ma lei aveva già aperto la porta ed era sgusciata fuori dalla casa. Il vento caldo le sferzava la massa di capelli chiarissimi e il cuore le balzava sordo nel petto. Appena incrociò lo sguardo del padre, lo vide trasalire. Tesla alzò il braccio dalla vettura militare fermando la truppa; era terreo in volto e la mandibola gli tremava. Scese lentamente dal veicolo e si fermò a pochi passi da lei. Poco più in là, sopra un carro, due corpi abbandonati l’uno sull’altro come bambole rotte, esanimi nell’arrendevolezza della morte. Jelena si portò una mano alla bocca mentre l’orrore la sopraffaceva: Natalija e Jakov.
«Avrei preferito saperti morta, Jelena.»
«Ho scelto la mia vita, padre» ribatté lei, cercando di non dare a vedere quanto era spaventata e trattenendo le lacrime.
«Non chiamarmi più così! Non osare!» sbraitò, livido. «Tu non sei più mia figlia! Sei solo una lurida puttana e una spia della Crna Ruka. Il disonore che hai portato sulla mia famiglia non si può quantificare, maledetta traditrice.»
«Mi dispiace» mormorò mentre Draja, uscito anch’egli dalla casa, si metteva di fianco a lei, cingendole la vita con un braccio.
«E così hai lasciato la tua famiglia per questo bifolco terrorista? Provo ribrezzo nei tuoi confronti, Jelena. Verrai arrestata insieme agli altri, accusata di tradimento e condannata a morte» sentenziò il colonnello, la voce gelida come il vento del nord. «Arrestateli tutti!» ordinò secco.
Prima che i soldati riuscissero a muoversi, numerose fucilate esplosero alle loro spalle, costringendoli a ritirarsi per un breve istante, intanto che Draja approfittava del diversivo e afferrava di peso Jelena, trascinandola nuovamente dentro casa.
«Che cosa diavolo avevi intenzione di fare?» le urlò contro, dopo aver sbarrato la porta.
«Io… Io volevo cercare di salvarvi la vita. Natalija e Jakov sono… Sono… Dio mio benedetto!» rispose mentre crollava in lacrime tra le sue braccia, sconvolta.
Draja sospirò, esausto.
«Sei una donna coraggiosa, Jelena Nemanja e ti amerò anche oltre la vita.» Si chinò a baciarla dolcemente sulle labbra; sapeva che era l’ultimo momento d’amore prima della morte.
«Draja!» lo chiamò Vojvodan.
«Fratello.»
«Prendi Ksenija e il bambino. Dovete andare, subito!»
«No!» gridò la moglie. «Non ti lascerò qui da solo, mai.»
«Ksenija, lo farai per nostro figlio. Ora va’. Imboccate il passaggio segreto: una macchina vi attende all’uscita e vi accompagnerà sino al confine. A bordo vi saranno consegnati dei documenti falsificati. Potrete proseguire per la Romania e ricominciare una nuova vita.»
«No, Vojvodan» mormorò Ksenija, abbracciandolo con trasporto. «Ho scelto di rimanerti accanto in quest’impresa folle e lo farò sino alla fine. Niente ci separerà, ormai.»
«Che ne sarà di Luka, senza una madre e un padre? Ne faremo un orfano infelice.»
Ksenija si voltò verso Draja e Jelena, un sorriso malinconico sul viso. «Vi prenderete cura del nostro bambino, come fosse vostro? Lo farete per noi?»
Draja scoppiò a piangere, portandosi una mano al volto. Sapeva che se avesse deciso di rimanere, sarebbero morti tutti quanti. Nella vita vi erano circostanze nelle quali un capo doveva essere in grado di compiere enormi sacrifici. Ora doveva salvare Jelena e il piccolo Luka. Sacrificando altri innocenti.
«Lo faremo. E vi ricorderò sempre con affetto immenso. Un giorno ci ritroveremo nei giardini del cielo, fratelli miei» mormorò, la voce incrinata. Abbracciò Vojvodan e Ksenija mentre i singhiozzi gli squassavano il petto. In un angolo, Jelena assisteva disperata alla scena mentre i primi colpi di fucile iniziavano a rimbalzare sulla casa e sfondare i vetri, le pallottole che sibilavano pericolosamente attorno a loro esplodendo sulla mobilia e sui muri.
«Andate ora, non v’è più tempo!» gli ordinò Vojvodan, staccandosi e imbracciando il mitragliatore, seguito dai due compagni. Draja prese per mano Jelena e si precipitò nella stanza da letto. Spostò l’armadio dietro il quale era celata una porta di legno consunto. Ruotò la maniglia di ferro e la aprì. Una galleria angusta, dalla quale usciva aria umida e fredda, si allungava oscura dinanzi a loro. Non si vedeva il fondo ma Draja accese la torcia appesa a un gancio mentre Ksenija, dietro di lui, era pronta a richiudere il passaggio.
«Addio amici miei!»
«Ksenija…io…» disse Jelena, la voce tremante.
«Abbi cura di mio figlio. Luka è un bambino buono. Crescilo come fosse tuo e te ne sarò grata in eterno, mia cara. Raccontagli un giorno chi eravamo, della Mano Nera e in quali valori credevamo.»
«Io… lo farò, te lo giuro sulla mia vita» rispose la giovane tra le lacrime. Draja porse il bambino alla madre, che lo sorresse un’ultima volta tra le braccia. «Addio, mia creatura adorata, la mamma ti amerà e veglierà su di te da lassù, per sempre» gli sussurrò prima di baciarlo sulla fronte con amore struggente. Piangendo, lo consegnò a Jelena e richiuse subito il passaggio dietro di loro con il grosso mobile.
Draja fece luce e iniziò a camminare spedito lungo il passaggio freddo e scivoloso. I colpi di mitra riecheggiavano forti sin nella galleria e Jelena strinse forte a sé il neonato.
All’improvviso, tutto tacque. L’uomo si fermò, voltandosi per un attimo e guardando in viso la compagna; la Crna Ruka era sconfitta, entrambi sapevano ciò che era appena accaduto.
«Via, dobbiamo sbrigarci!» le sussurrò secco, ricominciando a correre lungo la galleria. Poco dopo, gradualmente riavvolti da una fioca luce, sbucarono attraverso un cespuglio intricato che celava l’ingresso del cunicolo dall’esterno. Un autocarro era fermo dinanzi a loro, uno sconosciuto alla guida. I tre salirono in silenzio e la vettura partì veloce lungo la strada sollevando un gran polverone.
Timisoara, Romania. Ottobre 1914.
L’inverno era ormai alle porte. Il cielo coperto da nembi plumbei e l’aria gelida annunciavano una sicura nevicata entro la sera. Avvolta in un pesante mantello di lana, Jelena osservava dal terrazzo di un palazzo decadente, la città romena in fermento. Draja la cingeva con le sue braccia muscolose, una sigaretta tra le labbra, mentre il fumo azzurrognolo si diffondeva nell’aria.
«Devo andare, draga. La fabbrica non aspetta e devo essere puntuale. La catena di montaggio sta producendo armi a tutto spiano. Dio, se penso che la responsabilità di tutto ciò è solo nostra…»
«Draja, noi credevamo fermamente in ciò che stavamo compiendo, anche se non m’aspettavo che l’Austria-Ungheria avrebbe dichiarato guerra alla Serbia coinvolgendo anche la Francia e la Russia. Il conflitto sta assumendo proporzioni spaventose. Questo non rientrava nei nostri piani ma ormai la miccia ha preso fuoco e la bomba esploderà inevitabilmente. Tra poco dovrò uscire anch’io. Porto Luka dalla signora Boldescu e corro alla sartoria. Oggi è sabato e ci sarà molto da fare.»
«Jelena?»
«Sì, amor mio?»
«Io…talvolta mi sento in colpa per tutto ciò che hai dovuto affrontare e forse, se…»
«Sstt» lo zittì lei con un bacio a fior di labbra. «Io ti amo, Draja Nemanja, e qui ho tutto ciò che desideravo dalla vita: l’amore e la mia libertà. Spero un giorno di poter raccontare la storia di un gruppo di sognatori che credevano nei propri ideali, ai nostri nipoti.»
L’uomo ricambiò il baciò con trasporto, stringendola al suo corpo e indugiando per un attimo sul suo collo serico.
«Sei una donna meravigliosa, Jelena Nemanja, lo sai?» le sussurrò, ma lei non gli rispose, appoggiandosi al suo torace e sorridendo dolcemente. Sentiva battere il suo cuore al ritmo del proprio. Era felice. I primi fiocchi di neve iniziavano a scendere silenziosi sulla città.
Simona Liubicich divide equamente il suo tempo tra la famiglia e la scrittura. Pubblica per case editrici, ma si diletta anche con l’autopubblicazione. Collabora con quotidiani e riviste. È socia dell’European Writing Women Association.
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