EmyK, al secolo Emily Kovac, come tutte le mattine, si svegliò alle sei in punto, rotolò giù dall’enorme letto e preparò il caffè, nero e forte, come piaceva a lei.
Diretta in bagno, distratta da uno sbadiglio da record, inciampò nel tappeto, rischiando di sbattere contro lo stipite della porta, ma arrivò a destinazione senza nessun altro incidente.
“Cominciamo bene!” mormorò e sorrise, perché EmyK aveva un superpotere tutto personale, la goffaggine.
Era stato così fin da ragazzina e ne aveva sofferto molto. Impattava di continuo contro pali, marciapiedi, cancelli, persone, tutto quello contro cui si poteva andare a sbattere se si era costantemente distratti. Crescendo, le cose non erano cambiate, ma EmyK era scesa a patti con quella parte di sé che non poteva gestire.
Dopo aver gustato il caffè, infilò i jeans, indossò la camicetta, gli occhiali da vista ed eccola pronta per recarsi al lavoro.
Da tre anni era una delle cameriere del “Coffee Dreams”, un grazioso locale specializzato in colazioni e brunch. Amava lavorare lì, le piacevano la clientela e l’atmosfera rilassata. Inoltre, era grata alla sua collega, e amica, che le perdonava i piccoli incidenti o i ritardi, anche se, quella mattina, sarebbe arrivata puntuale. Era spinta da un entusiasmo nato di recente.
Da una settimana, alle nove e trenta in punto, un giovane trasandato e malconcio si recava al locale, sedeva allo stesso tavolo e beveva caffè.
Uno così sarebbe stato perfetto all’Irish Pub o al Bar dello Sport, ma non al “Coffee Dreams”, tanto che aveva attirato l’attenzione di Emily. In lui c’era qualcosa di familiare.
“Sei già qui?”
Megan, la collega, riuscì a sorprenderla, facendola sussultare. Emily le lanciò un’occhiataccia. “Davvero, come mai sei in orario? Mi preoccupi” continuò l’amica avvicinandosi di un passo e fissandola con uno sguardo indagatore che la fece arrossire.
“È un caso” borbottò Emily, mentre indossava un grembiule dei colori dell’arcobaleno.
L’amica la squadrò con attenzione.
“È per quel tipo, vero? Non mi piace, ha qualcosa di strano.”
Emily alzò al cielo i suoi occhi da cerbiatta, nascosti da occhiali troppo grandi.
“Non ha niente di strano” mentì, acconciandosi i capelli castani in una coda di cavallo. “Voglio solo scoprire chi è, credo sia Vincent.”
Megan sbuffò platealmente, riconoscendo quel nome. Quando erano diventate colleghe, si erano scambiate confidenze ed Emily le aveva parlato di lui.
Vincent era un ragazzino che abitava nella casa di fronte alla sua quando era piccola. Uno che condivideva con lei sogni di fama e gloria. Emily amava il pianoforte, Vincent il pugilato.
“E se fosse lui, cosa credi che accadrebbe?” la imbeccò Megan, mentre accendeva la macchina del caffè. “Pensi che rievochereste i bei momenti della vostra adolescenza?”
“No! Niente del genere” si difese Emily, sistemando le paste, dolci e salate, nella vetrinetta davanti al bancone. “Non lo vedo da tanto, vorrei sapere come se le passa, cos’ha fatto in questi anni.” Megan scosse il capo, sembrava decisa a tenere lontana la fatina dei boschi dall’orco cattivo, perché quel tipo -li conosceva bene quelli così!- ne aveva tutto l’aspetto.
“Te lo dico io, se la passa male e probabilmente è stato in prigione.”
Emily rimase turbata da quell’affermazione. Megan non poteva saperlo ma, considerata la carriera da piccolo criminale del padre di Vincent, forse era vero.
“Non dire sciocchezze, sei pronta?” tagliò corto, la mano appoggiata alla maniglia della porta d’ingresso; poi girò la chiave senza aspettare la replica.
In attesa della clientela, le due ragazze si occuparono delle piante disseminate nel locale, che creavano la sensazione di fare colazione in un bosco o in un antico giardino d’inverno, soprattutto se ci si accomodava ai tavolini che davano sulla strada.
“Buongiorno!” Al saluto del primo cliente ne seguirono altri, e poi altri e altri ancora.
Un via vai di commessi che si fermavano a fare colazione prima di aprire i negozi.
Impiegati che si concedevano un caffè veloce.
Impresari che offrivano la colazione ai clienti, certi di fare bella figura.
Pensionati che passavano soprattutto per fare due chiacchiere.
A mezzogiorno, del misterioso avventore ancora nessuna traccia.
Le ore passarono e l’umore di Emily finì nella pattumiera insieme ai fondi del caffè. Al momento della chiusura, era delusa e vagamente preoccupata.
“Stasera suoni?” le domandò Megan, sistemandosi i lunghi dreadlock sotto al casco. Sapeva che parlare della consueta esibizione allo Stardust avrebbe risollevato il morale dell’amica.
EmyK aveva un’unica passione ed era quella di suonare il pianoforte, attività che per lungo tempo era stata per lei un vero e proprio lavoro.
“Sì” rispose, riconquistando il consueto sorriso. “Stasera c’è un evento di beneficenza. Sono felice che mi abbiano chiamata.” Perché non era per nulla scontato.
“Divertiti e non romperti niente questa volta” la avvisò Megan saltando in sella alla sua moto.
“Ci proverò!” rispose Emily arrossendo.
Un paio di mesi prima, persa nel suo mondo fatto di sogni ad occhi aperti, era inciampata sul gradino dell’ingresso del locale ed era caduta a terra, rompendosi un polso.
Emily scacciò con un gesto della mano quel brutto ricordo e si avviò verso casa.
Era quasi arrivata quando notò una figura incappucciata che la fissava dal lato opposto della strada.
Un brivido le percorse la schiena, mentre il cuore accelerava di colpo. Strizzò gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco quell’individuo.
“Vince” sussurrò Emily. “Vincent!” gridò poi per trattenerlo, ma l’altro si dileguò nel vicolo dietro di lui.
Senza prestare attenzione, Emily attraversò di corsa la strada.
Uno stridore di gomme che inchiodavano sull’asfalto la bloccò in mezzo alla carreggiata.
Come un cerbiatto accecato dai fari, non sapeva cosa fare per evitare l’auto che le stava andando addosso, quando due forti braccia la sollevarono di peso allontanandola dal pericolo.
In salvo sul marciapiede, Emily boccheggiava in cerca d’aria, cercando di riprendersi dallo spavento, ma tutto passò in secondo piano quando notò che il suo soccorritore si stava allontanando.
“Vincent, sei tu?”
Il giovane chinò il capo e si girò verso di lei.
“Ciao, EmyK, sempre in mezzo ai guai.”
La sua voce si era fatta quella di un uomo, dura e ruvida, il suo sguardo era cupo e triste. Si fissarono negli occhi per un attimo che sembrò eterno, alla ricerca di quei due ragazzini pieni di speranza che erano stati.
Senza dire altro, attraversarono di nuovo la strada, diretti verso una delle panchine del parco.
Rimasero in silenzio per quasi mezz’ora, senza sapere cosa dire o, forse, da dove cominciare.
“Grazie” mormorò Emily, “credo che tu mi abbia salvato la vita.”
“La vita no.” Vince scosse il capo, infilandosi una mano fra i capelli neri, tagliati cortissimi. “Sicuramente ho salvato le tue ginocchia. Devi stare più attenta.”
“Sembri mia madre” borbottò Emily infilando le dita sotto gli occhiali per stropicciarsi gli occhi.
“Tua madre ha ragione” ribatté Vince, forse ricordando la serie interminabile di piccoli incidenti di cui lei era stata vittima da ragazzina.
“È troppo apprensiva” aggiunse Emily con un sorriso, poi il suo viso si fece cupo. “Perché non ti sei fatto riconoscere?”
Vincent la guardò corrucciato, piantandole addosso quegli occhi neri che un tempo erano pieni di vita, e nei quali ora sembrava esserci solo malinconia.
“Al locale intendo. Perché non mi hai detto che eri tu?” Emily dovette schiarirsi la voce.
“Non ero sicuro che fossi tu” rispose Vince spostando lo sguardo sul vialetto. “Come mai fai la cameriere? Eri una pianista di altissimo livello. Perché hai smesso?”
Emily era sempre stata una ragazza goffa e impacciata, ma non quando suonava. Al pianoforte si trasformava, da bruco diventava farfalla.
“Non ho smesso” rispose Emily. “Non mi interessa più suonare per la fama e la gloria, lo faccio solo per me.”
Vincent serrò la mascella di scatto, come se quella spiegazione non gli piacesse. Si alzò e fece per allontanarsi.
Lo sguardo che lanciò a EmyK era chiaro: sei arrivata in vetta e poi hai rinunciato.
“Dove vai?” Emily lo seguì. Avrebbe voluto parlare ancora, ma era chiaro che la confidenza e l’intimità che si era creata quando erano ragazzini non esisteva più. Vince sembrava circondato da uno spesso muro che sembrava insormontabile.
“Vince?”
Nell’udire quel tono supplichevole, il giovane si fermò.
“Perché hai mollato? Come hai potuto?”
Il tono della sua voce era rabbioso.
“Io…” Emily allargò le braccia sorpresa da quell’atteggiamento astioso. Non capiva cosa volesse sapere e, in verità, non sapeva cosa rispondere. Guardò il marciapiede lurido scalciando un sassolino immaginario e fece spallucce. “Una mattina mi sono svegliata e ho realizzato che la mia passione era diventata un business. C’è a chi piace così, a me non diceva più niente. Suono per me, suono in un locale e mi basta, sono felice così.”
Vince scosse il capo, chiaramente deluso.
“Stai attenta EmyK” fu il suo saluto.
Vince nascose il capo sotto il cappuccio, come se volesse passare inosservato agli occhi del mondo intero.
“Idiota.” Emily lo sentì, mentre Vince alzava una mano per fermare un taxi.
L’ex pugile professionista si fece portare alla palestra dove un tempo si allenava.
Appena entrato nel vecchio stabile, l’odore stantio di sudore, polvere e chiuso, gli invase i sensi facendolo sentire come se fosse arrivato al capolinea della sua vita.
Si richiuse la porta di vetro e metallo alle spalle, accese le luci al neon che sfarfallarono a intermittenza, illuminando l’interno spoglio in un gioco di luci e ombre.
Vince si spogliò con rabbia della felpa e della maglia e sgattaiolò nel ripostiglio che era diventato il suo alloggio di fortuna. Finì di spogliarsi, indossò i calzoni corti della tuta e le protezioni per le caviglie, infine si fasciò con cura le mani.
Si posizionò davanti al sacco, sferrando un paio di colpi. Appena le mani subirono il contraccolpo duro e solido della sabbia all’interno di esso, una scarica di adrenalina gli attraversò il corpo, infiammandogli il sangue.
Provò quelle combinazioni di colpi che l’avevano contraddistinto, aumentò la velocità fino a quando i muscoli iniziarono a dolere, sopraggiunse l’affanno e il sudore gli ricoprì tutto il corpo.
“Tieni i gomiti chiusi” lo riprese una voce familiare alle spalle. “Alza il sinistro.”
Vince ubbidì ai consigli del vecchio allenatore, continuando a colpire il sacco, visualizzando un avversario da battere.
Dopo qualche colpo ancora decise di fermarsi, si allenava da più di due ore, era stremato.
Rilassò i muscoli, svuotò il petto con un lungo espiro, e si voltò a guardare Ralph, iniziando a srotolare le lunghe fasce.
“Grazie per l’ospitalità” borbottò Vince diretto nello spogliatoio per una doccia. “Sarà ancora per poco.”
“Puoi stare qui quanto vuoi, lo sai” disse il vecchio, seguendolo a fatica per via delle gambe che non gli obbedivano più. “Quanti incontri ti mancano?”
“Tre, dopo potrò rimettermi in carreggiata.”
Ralph serrò la mascella e strinse i pugni.
“Vince, per l’amor del cielo, lo sai meglio di me che sei bruciato. Salda il tuo debito con quella merda. Trovati una ragazza, vivi per l’amor del cielo.”
“Ralph, ce la posso fare.” Vincent era ancora aggrappato a un’illusione.
“No, non puoi” lo gelò il vecchio. “Tuo nonno non avrebbe voluto questo per te.”
“Mio nonno voleva che diventassi un campione” ringhiò Vincent fissandolo torvo, ma sapeva che nulla era in grado turbare Ralph.
“Tuo nonno non voleva che tu finissi a fare il picchiatore come tuo padre” gridò l’altro, gesticolando nervosamente.
“Non sono un picchiatore” replicò Vince, piccato.
“Ah no?” Il tono di Ralph era sarcastico. “Ti batti con gente disperata quanto te e lo fai su un ring dove non ci sono regole, e lo fai solo per soldi. Io questo lo definisco picchiare.”
“È l’unica cosa che so fare” ammise Vince con rammarico.
Nell’udire quelle parole il vecchio si inalberò: “Questa è una puttanata!” gridò, battendo il bastone a terra. “Hai trentun anni, puoi fare tutto quello che vuoi” continuò, inseguendolo nello spogliatoio.
“Vorrei un po’ di privacy!” cercò di allontanarlo Vince, scomparendo dentro le docce, chiaro segno che non aveva più intenzione di discutere.
Ralph scosse il capo, sconsolato.
“Non farti ammazzare” disse, sconfitto, prima di allontanarsi.
Quella sera per Emily, suonare il piano allo Stardust non fu entusiasmante o divertente, ma fu catartico.
La giovane pianista riversò nell’esibizione la frustrazione e la rabbia provate quel pomeriggio, quando Vince le aveva chiesto come avesse potuto abbandonare la sua carriera, facendola sentire in difetto.
Cosa ne sapeva lui dei sacrifici che aveva fatto?
Degli attacchi di panico che l’avevano tormentata per mesi?
Della nausea che la devastava ogni qualvolta toccava un tasto?
Tuttavia, Emily non portava rancore e, a conti fatti, quello che stava peggio dei due era lui. Quella consapevolezza la rattristava.
Al termine dell’esibizione l’applauso scrosciante che riempì il locale, elegante e sofisticato, la riportò bruscamente alla realtà.
Emy accarezzò istintivamente i tasti d’avorio, si alzò dal seggiolino e infilò le scarpe, perché aveva l’abitudine di suonare scalza. Si voltò verso il pubblico e si inchinò in segno di gratitudine e ringraziamento.
I giorni successivi trascorsero nello stesso modo: lavoro, domande invadenti di Megan, clienti. E sorrisi, che per la prima volta erano di circostanza. Passeggiata fino a casa, occhiata veloce all’angolo di strada dal quale era apparso Vince, serata passata al pianoforte, notte insonne.
Il quarto giorno si domandò se fosse finita in un loop temporale.
Prima della ricomparsa di Vince era tutto così semplice, perché non riusciva più a essere serena? Era come se il suo vecchio amico avesse fatto esplodere la bolla di illusoria perfezione che la circondava. Eppure, anche se i sentimenti che provava erano tutt’altro che positivi, si sentiva viva, viva come le succedeva solo quando era seduta al pianoforte.
A fine turno, Emy uscì dal locale tirandosi dietro la porta, pronta a tornare a casa. Era sola perché quel pomeriggio Megan aveva ottenuto un’ora di permesso e, a causa del maltempo, i clienti erano stati pochi.
Alzò gli occhi al cielo plumbeo e un paio di enormi gocce andarono a infrangersi sulle lenti degli occhiali. Si strinse nelle spalle, pronta a correre quando si sentì chiamare.
“Emily?” Era la voce in un uomo anziano che non riconobbe. “Emily Kovac?”
La ragazza si fermò e cercò chi la stesse chiamando. Non fu difficile individuarlo, per strada c’erano solo loro due.
Un uomo di circa settant’anni, appoggiato a un bastone, la guardava.
Emily si domandò chi fosse e cosa volesse da lei. Avrebbe voluto ignorarlo, ma il suo istinto la obbligò a rispondere.
“Sì?”
L’uomo attraversò la strada con un passo sorprendentemente spedito e, incurante della pioggia battente, le si parò davanti. Fu in quel momento che Emily notò un dettaglio che le ricordò Vincent: quel vecchio aveva il naso rotto e mai raddrizzato, esattamente come il suo amico d’infanzia.
“La manda Vince?”
L’uomo scosse il capo e rispose con un’altra domanda: “Possiamo parlare?”
Emily si limitò ad annuire, riaprendo il locale. Dopo poco, seduta di fronte a lui, con i capelli che gocciolavano sul tavolino di legno e una tazza di cioccolata calda fra le mani, Emily scoprì ciò che era successo a Vince.
Il suo amico era diventato un pugile professionista, ma le mani bucate del padre, che amministrava i suoi soldi, lo avevano costretto a indebitatarsi con un criminale, un uomo che viveva sfruttando gli altri, soprattutto con la prostituzione e gli incontri clandestini. La lega dei professionisti era venuta conoscenza della provenienza poco chiara dei suoi soldi, così era stato allontanato.
Ralph, così si presentò l’anziano, era sicuro che a fare la soffiata alla lega fosse stata la stessa persona che gli aveva prestato i soldi, per poterlo avere in pugno e sfruttarlo.
La “merda”, era così che lo chiamava, aveva dato a Vincent pochissimo tempo per ripagare il debito, sapendo perfettamente che non ci sarebbe riuscito. Così gli aveva proposto di combattere negli incontri organizzati da lui, e Vince, non vedendo altra via d’uscita, aveva dovuto accettare.
Mancavano solo tre incontri per saldare il suo debito, ma secondo Ralph la “merda” avrebbe fatto in modo di non lasciar andare la miniera d’oro, usando con ogni mezzo.
Emily rimase a bocca aperta davanti a quel racconto; si schiarì la gola e cercò di dar voce ad almeno una delle domande che le ronzavano in testa come api impazzite.
“Io cosa c’entro in tutto questo? Perché me lo sta raccontando?”
“Credo tu possa dargli una via d’uscita, un nuovo obiettivo, una speranza.”
Emily si sentì investita di una responsabilità che non sapeva come affrontare e che, forse, non era in grado di sostenere.
“Perché io?”
Ralph si tastò il taschino della camicia e le mostrò il biglietto da visita del locale in cui si trovavano.
“Non capisco” ammise la giovane dopo esserselo rigirato fra le dita per un attimo.
“Questo è un periodo molto duro per lui, ma non ha cercato nessuno dei vecchi amici, a parte te. Quando ho visto il biglietto mi sono domandato cosa potesse cercare in un locale grazioso come questo, così ieri sono venuto a vedere.”
Emily si ricordò di averlo visto il giorno precedente.
“Ti ho riconosciuto immediatamente” proseguì Ralph, “non sei cambiata molto da quando venivi alla palestra con tua madre per portare la merenda a Vince.”
Emily sorrise ricordando i panini al burro di arachidi che preparavano insieme per il solitario vicino di casa.
“Perché non mi ha parlato ieri?” domandò Emily restituendo il biglietto.
“Perché ieri credevo che potesse uscirne da solo ma… stamattina l’ho visto” mormorò l’altro, rassegnato, senza riuscire a reggere lo sguardo di Emily.
“Cosa? Cos’ha visto?” chiese la ragazza, angosciata.
“Ha bisogno del tuo aiuto” proseguì Ralph, senza rispondere alla domanda. “Da me non lo accetterebbe mai. Puoi provarci tu?”
Quelle parole suonarono come una supplica che Emily non poteva lasciare inascoltata.
“Dov’è?” domandò alzandosi in piedi.
“Alla vecchia palestra.”
Emily prese un profondo respiro, come se si preparasse ad affrontare una lunga apnea e annuì.
“Vince?” chiamò timidamente infilando la testa dentro la porta che trovò aperta. “Vincent, sei qui?”
Emily fece un paio di passi all’interno di quella che un tempo era una rinomata palestra.
Uno spesso strato di polvere copriva il pavimento, gli attrezzi e gli armadietti. Solo il pavimento vicino al sacco sembrava essere stato pulito di recente, esattamente come l’area davanti allo stanzino delle scope, dalla quale usciva una lama di luce che si rifletteva sulle piastrelle.
“Vai via, EmyK!” La voce irosa di Vince la fece sussultare. Tuttavia, riconoscendo una nota di disperazione, non ubbidì.
“Vince? Posso?”
Una domanda inutile, ormai era entrata.
Emily alzò lo sguardo su di lui e comprese immediatamente i timori del vecchio,
“Stai bene?”
Osservò con sgomento il viso tumefatto, le nocche scorticate e il brutto livido violaceo che aveva sul fianco destro, a mala pena nascosto dal tatuaggio maori che gli decorava il lato sinistro del torace.
“Vai a casa, EmyK!” ripeté Vince, scuotendo il capo.
Emily capì che il vecchio amico non voleva che lei vedesse come era costretto a vivere. Si guardò intorno. Una brandina da campeggio rattoppata con il nastro stopper, la cassetta di legno sulla quale erano sistemati una torcia e il portafogli. I vestiti appesi alle scope appoggiate al muro. Tutto le sembrò terribilmente desolato.
“Ralph mi ha raccontato tutto” sussurrò a mezza bocca. “É preoccupato per te, e adesso anche io.”
Vince rimase turbato da quelle parole. In tutti quegli anni l’unica persona che si era preoccupata per lui era stato Ralph. Prima di incontrare Emik, aveva creduto che fosse sufficiente. Tuttavia, nel preciso instante in cui aveva sentito la sua voce, aveva realizzato quanto fosse profondo l’abisso di solitudine nel quale era caduto. Si era reso conto di quanto gli mancasse quella ragazza impacciata che era capace, adesso come tanto tempo prima, di illuminare l’oscurità in cui annaspava.
Vince andò a sedersi sul pavimento con la schiena appoggiata alla brandina, era allo stremo delle forze.
“Perché sei qui Emily?”
“Sono qui perché mi stai a cuore.”
Quelle parole gli suonarono sincere, così non protestò quando Emik si sedette sulla brandina, vicino a lui.
“Cosa sta succedendo? Dai sono io, puoi dirmi tutto.”
“Sono io!”
Quelle le parole infransero il muro che Vince aveva eretto per proteggersi. Non poteva più tenersi dentro quel malessere, ma come poteva riversare su EmyK le sue miserie?
Cosa avrebbe pensato di lui? Avrebbe provato compassione o schifo?
Già, schifo, esattamente come lui faceva a se stesso.
“Non mi lascerà andare, se non da morto” ammise infine con voce rotta.
“Cosa intendi dire?”
La voce di Emily tremava, quasi temesse la risposta.
“Ho vinto il primo incontro” mormorò, fissandosi le mani ferite, “ma mi ha messo davanti un avversario temibile, cattivo, che giocava sporco. Così mi sono intrufolato nel suo ufficio e ho trovato i nomi dei miei prossimi avversari sul suo taccuino.” Vince fece una pausa, cercando di ingoiare il nodo che gli serrava la gola come un cappio . “Li conosco, sono due assassini. O perdo o muoio.”
Sollevò gli occhi per guardare Emily. Capì che l’amica non sapeva cosa dire di fronte a quella realtà che le spezzava il cuore.
La vide allungare un braccio e accarezzargli una spalla. Quello scricciolo consolava lui, grande e grosso. Sentì il proprio corpo tremare sotto il suo tocco, e con un gesto repentino la trasse a sé. Mai avrebbe immaginato di sentirsi così vulnerabile, così sopraffatto dagli eventi da avvertire la cocente necessità di piangere.
Non aveva mai pianto. Non lo aveva fatto quando sua madre era morta e nemmeno quando era venuto a mancare suo nonno, l’unico uomo che aveva ricoperto il ruolo di padre. Ma ora, fra le braccia della goffa Emily, la disperazione che aveva tenuto stretta a sé come un bene prezioso ruppe gli argini e lo invase.
Emily osservò il capo di Vince appoggiato sul suo grembo, la stringeva così forte che quasi le faceva male, ma non ebbe il coraggio di muoversi e nemmeno di respirare.
Gli accarezzò la nuca, con un gesto dolce e affettuoso; non sapeva cos’altro fare, non sapeva se la sua presenza fosse sufficiente.
Cercò di non scoppiare a piangere come una bambina, ma a poco valsero i suoi sforzi. Quando un solo unico singhiozzo scosse quel corpo possente e temprato da mille combattimenti, si lasciò andare e le lacrime scivolarono copiose sul suo viso.
Rimase così, in silenzio, immobile, tenendo Vince fra le braccia fino a quando l’emozione non si esaurì.
“Scusa” le disse Vince scattando in piedi. “È meglio che tu vada.”
Emily si riprese in fretta da quel cambio repentino di umore.
“Senti, possiamo andare alla polizia, possiamo denunciarlo…”
Vince si lasciò andare a una risata amara che la zittì.
Emily credeva fermamente che bastasse essere onesti per risolvere tutti i problemi, che la giustizia avrebbe fatto il suo corso, ma capì subito che nel mondo di Vince le cose non andavano in quel modo.
“La polizia sa tutto” ringhiò fra i denti l’amico, facendola sussultare. “Sai quanti poliziotti ho visto scommettere agli incontri?”
Emily non aveva alcuna intenzione di desistere.
“Non saranno tutti corrotti.”
“No, non lo sono” ammise Vince esalando un sospiro afflitto. “Ma io non posso farlo, allora sì che mi ammazzerebbe. L’ho già visto accadere.”
Emily rimase in silenzio per qualche minuto, fissando il pavimento senza vederlo realmente.
“Hai una terza possibilità” esclamò alla fine, alzando lo sguardo su di lui.
“E quale sarebbe?”
“Vincere. È questo che sei no? Un vincente, lo dice anche il tuo nome. Poi potrai ricominciare, rinascere.” Emily parlava a raffica. “È questo che significa il tuo tatuaggio, no? Lo scorpione” continuò, sfiorando il disegno con un dito, “simboleggia il rinnovamento e la rinascita.”
“Simboleggia morte e pericolo.”
Vince sembrava aver perso tutta l’attenzione per il dialogo, concentrato com’era su quel dito che lo sfiorava.
“Ma anche rinnovamento e rinascita” insistette Emily arrivandogli più vicino, attratta da lui come da un magnete.
Avvertirono il calore del propri corpi e l’aria attorno a loro che si elettrificava, caricata da un desiderio che sbocciava.
“EmyK” sussurrò Vince abbassandosi su di lei a sfiorarle le labbra con le proprie. “Sono merce avariata” continuò chiudendo gli occhi e buttando la testa all’indietro quando Emily, la versione più audace e temeraria di Emily, sfiorò i suoi fianchi muscolosi. “Non sono uno che vorresti nella tua vita e nemmeno fra le tue braccia.”
“E tu cosa ne sai di quello che voglio io?” ribatté Emily. “Se non lo sai, ho una terribile cotta per te dalla prima volta in cui ti ho visto scendere dal camioncino di tuo nonno.”
Vince sorrise in quel modo malandrino che l’aveva sempre fatta arrossire.
“E tu? Lo sai, vero, che la cosa era reciproca?” chiese, sfilandole quegli orribili occhiali che lei si ostinava ad indossare.
Se Emily voleva davvero inoltrarsi nella sua oscurità, lui non avrebbe più cercato di fermarla.
“Adesso siamo adulti però, non siamo più due ragazzini” disse Emily alzandosi in punta di piedi per sfiorare timidamente le sue labbra.
Vince si irrigidì, sorpreso dalla risposta repentina del proprio corpo.
“No, non lo siamo.”
Si impadronì di quelle labbra morbide lasciandosi travolgere dal desiderio.
E poi, ci furono vestiti gettati sul pavimento, baci infuocati, mani ovunque, sensazioni ed emozioni devastanti.
La mattina successiva, Emily si svegliò stiracchiandosi come un gatto. Sentiva i muscoli rigidi e la schiena a pezzi, ma non le importava perché aveva appena trascorso la notte fra le braccia di Vince.
Si rigirò su se stessa cercando di non svegliarlo e osservò il suo profilo irregolare, a causa di quel naso rotto che lei trovava adorabile.
Guardò le sue labbra imbronciate, ricordando quanto fossero morbide e sensuali. Accarezzò il suo petto che si abbassava e alzava regolare e si soffermò ad osservare l’intricato disegno maori.
Sorrise al ricordo dell’ espressione sorpresa di Vince, era un caso se conosceva il significato dei tatuaggi maori. Si trovava al pronto soccorso per quel polso rotto e, in attesa del gesso, aveva letto un articolo al riguardo; ne era rimasta così affascinata che se lo ricordava ancora.
Fissò lo sguardo sugli addominali scolpiti e il sorriso si spense quando vide la sua mano appoggiata al ventre e notò le nocche ferite. Si morse un labbro domandandosi cosa avrebbe provato se avesse perso di nuovo Vince, ora che lo aveva ritrovato.
“Cosa c’è?”
Vince era sveglio.
Emily non rispose, non ne aveva il cuore, così si accoccolò sul suo petto e chiuse gli occhi cullata dal battito regolare dei loro cuori, decisa a godere fino in fondo di quel momento di intimità rubato alla vita reale, quella che li aspettava fuori dallo stanzino delle scope, divenuto, per una notte, il loro nido d’amore.
Esattamente due giorni dopo, all’una di notte, Emily camminava nervosamente, avanti e indietro, sul pavimento della vecchia palestra, sollevando nuvole di polvere a ogni passo. Si mordicchiava le dita, le unghie, le labbra nell’attesa che Vincent tornasse dal secondo incontro.
“Tesoro, ti devi calmare, non ha nemmeno iniziato!” la informò Ralph picchiettando l’indice sull’orologio da polso.
Emily si strinse nelle spalle e sospirò vistosamente, ma non smise né di camminare né di mordicchiare qualsiasi cosa trovasse a propria disposizione, conscia che non poter assistere all’incontro la stava facendo impazzire.
Dopo quasi due ore di snervante attesa i due, nascosti nella penombra della palestra, intravidero la luce dei fari di un taxi riflettersi sulla vetrata. La macchina si fermò lì davanti.
Emily si precipitò ad aprire la porta pronta a subissare Vince di domande, ma le parole le morirono in gola appena lo vide. Tuttavia, la sua espressione sgomenta parlava per lei.
“Sto bene” la anticipò Vince, mentendo spudoratamente. “Che diavolo ci fate qui?”
Ralph ed Emily si scambiarono uno sguardo allarmato, non servivano parole per comprendere che condividevano lo stesso tormento.
“Hai bisogno di un dottore” disse il vecchio, dolorosamente consapevole della gravità della situazione.
“Ho bisogno di antidolorifici e di un paio di giorni a letto” replicò Vince soffocando un gemito, mentre zoppicava verso lo stanzino.
Ralph gli lanciò una scatola.
“Grazie!” disse Vince afferrandola la volo. Poi, si rannicchiò su se stesso, incapace di muovere un altro passo, e sedette di sghembo sulla brandina.
Ralph fece un cenno di saluto a entrambi e se ne andò.
“Tu?” domandò Vince afferrando una bottiglia di Bourbon. Desiderava solo una cosa: stordirsi, nel tentativo di far cessare il dolore e i pensieri funesti.
Emily si massaggiò la fronte e si sedette accanto a lui.
“Andiamo a casa mia” gli propose accarezzandogli delicatamente il volto ferito. “Starai più comodo, dormirai in un letto e potrai assaggiare il caffè più buono del mondo.” Sorrise speranzosa che lui accettasse l’invito.
Vince aveva un estremo bisogno di tutto quello che Emily aveva elencato, ma si rendeva conto che lei aveva dimenticato un cosa.
La guardò negli occhi per un interminabile minuto, combattuto fra il desiderio di starle accanto e la necessità di tenerla lontano dal suo mondo.
“Suonerai per me?”
Quella domanda, sussurrata come una supplica, rischiò di disintegrare Emily in mille pezzi. Vince era un uomo forte, ma terribilmente solo. La ragazza si schiarì la voce nel tentativo di sciogliere il nodo di angoscia che le serrava la gola e annuì.
“Certo, suonerò per te” promise, aiutandolo ad alzarsi.
Vincent avrebbe definito la casa di Emily il suo nido: era un appartamento piccolo, ma accogliente e funzionale. L’abitazione di una donna moderna, amante dell’arte, dei libri e della musica.
Il giro turistico fu breve, l’ingresso dava su un piccolo soggiorno, la cucina si trovava sulla destra, sulla sinistra c’erano la camera da letto e il bagno e, di fronte, una stanza tutta vetri nella quale era sistemato il pianoforte a coda su una piccola pedana rialzata.
“Io mi metto al pianoforte, tu sistemati.”
Emily scalciò via le scarpe poi si sedette sulla piccola panca mentre Vince, ingoiate tre o quattro pasticche, si accomodava sulla poltrona sistemata in un angolo di fronte a lei.
Le note di “Ai margini dell’aria” di Ludovico Einaudi, liberarono l’energia che Vince ricordava. Era intenzionato a non perdersi lo spettacolo, ma la stanchezza e il dolore ebbero la meglio. Gli occhi si chiusero senza che lui lo volesse e, cullato dal suono soave che permeava tutta la casa, sprofondò nel sonno.
I tre giorni successivi trascorsero veloci, fra confidenze e abbracci, e quando sopraggiunse la sera del terzo incontro, Emily e Vince avrebbero voluto riavvolgere il tempo.
“Dove credi di andare?”
“Vengo con te” dichiarò Emily, afferrando il soprabito. “Non me ne starò qui ad aspettare, non posso.”
La volta precedente l’ansia l’aveva fatta a brandelli.
“Non se ne parla.”
“Non posso aspettare qui.”
“Invece lo farai. Ma guardati, si capisce lontano un miglio che non appartieni a quell’ambiente. Non mi seguire.”
Vince si chiuse la porta alle spalle.
Emily fissò il proprio riflesso nello specchio: jeans stirati e camicetta rosa a fiorellini blu. Forse Vince aveva ragione. Rigirò l’esclusivo invito fra le dita, procuratole da Ralph.
La porta si riaprì.
Vince le arrivò vicino, le passò una mano dietro la schiena, e la trasse a sé, baciandola fino a toglierle il respiro.
“Se non ci vedessimo più” le sussurrò prima di andarsene.
Udire quelle parole fu come ricevere un pugno allo stomaco.
Emily si preparò in fretta, trasformandosi in una donna che sarebbe passata inosservata.
Mise le lenti a contatto, si truccò, pettinò i lunghi capelli castani, indossò il tubino nero che usava quando suonava allo Stardust, infilò le scarpe rosse col tacco alto, afferrò le chiavi e il soprabito nero poi scese in strada per chiamare un taxi.
L’auto si fermò davanti a una vecchia fabbrica dismessa. Un luogo abbandonato, se non fosse stato per il via vai di taxi e auto davanti all’ingresso.
Emily pagò il tassista senza staccare lo sguardo dalla fila di persone. Nell’attesa che arrivasse il proprio turno, osservò come si comportavano le persone davanti a lei: nessuno dava le generalità, semplicemente mostravano l’invito. Le bastò imitarli per avere libero accesso.
Oltrepassato il cordone di velluto, Emily si trovò ad osservare quella che sembrava il foyer di un teatro. Moquette rossa a coprire il pavimento, stucchi sul soffitto e specchi alle pareti che le restituirono il riflesso di una donna elegante e fiera che non riconobbe come il proprio.
Oltrepassate le tende di velluto rosso, notò che l’interno era strutturato come un’arena.
Il ring era posizionato in basso, illuminato da fari che pendevano dal soffitto e, tutto attorno, si estendevano gradinate occupate da poltroncine simili a quelle dei cinema, che rimanevano volutamente nella penombra.
Emily scese fino a raggiungere i posti più vicini al ring, per una volta senza inciampare nei tacchi, ma capì che le prime file erano riservate agli ospiti speciali, agli scommettitori pesanti e agli organizzatori. Tornò sui propri passi, adocchiò una poltroncina ai bordi di una fila e vi si sedette, oppressa dall’ansia.
Al primo incontro, faticò a resistere allo spettacolo di quei due combattenti. Eppure, l’eccitazione e l’energia che permeavano il pubblico divennero ben presto contagiose, tanto che guardò il secondo incontro con maggiore coinvolgimento e attenzione.
Finalmente, vide comparire Vince sul ring.
Il suo stomaco si contrasse e dovette obbligarsi a respirare quando vide comparire il suo avversario.
Era un uomo enorme, muscoloso, e aveva lo sguardo più feroce che Emily avesse mai visto. Cercò gli occhi di Vince e quando li incontrò, per un attimo non li riconobbe, perché in essi vide la stessa ferocia che brillava nello sguardo dell’altro.
Al primo rintocco del gong sussultò e serrò i pugni sulla stoffa del cappotto posato sulle ginocchia. Quando l’avversario colpì Vince al volto, distolse lo sguardo, ma non riuscì a trattenersi a lungo, doveva vedere. Uno era più forte e determinato a fare male, molto male, ma Vince era veloce e potente. Lo scontro stava infuocando il pubblico.
Emily guardò tutto l’incontro sussultando, imprecando, trattenendo le lacrime, pregando dentro di sé che Vince si rialzasse dal tappeto e, tutte le volte, lui lo faceva.
Dopo l’ultimo colpo, Vince, riverso sul ring, decise di prendere un po’ di fiato e fare la conta dei danni. Sapeva di essere arrivato alla fine.
La mascella gli doleva da impazzire, sentiva in bocca il sapore del proprio sangue; aveva sicuramente una spalla lussata e un ginocchio fuori uso. Se anche fosse uscito vivo da quell’incontro, non avrebbe più potuto calcare un ring, né legale né illegale.
O vinceva o moriva, non c’erano alternative.
Per la prima volta in tutti quegli anni passati a combattere per un’illusione, seppe di avere una ragione dai capelli castani e dallo sguardo sognante che lo aspettava lontano da quel mondo.
La consapevolezza gli diede la forza per risollevarsi da quella sudicia pedana che puzzava di plastica.
Vince si rimise in piedi, interrompendo il conteggio dell’arbitro e suscitando nel pubblico un sussurro sommesso carico di stupore e ammirazione.
Barcollò all’indietro, a causa del ginocchio ormai inutilizzabile, tenendosi la spalla destra, e nella sala scese un silenzio innaturale più assordante di qualsiasi grido di incitamento.
Nessuno, vedendolo ridotto a quel modo, avrebbe scommesso sulla sua vittoria.
Nessuno si aspettava che il giovane tatuato spiccasse un balzo leonino facendo forza sull’unica gamba che ancora lo reggeva.
Nessuno sperava che potesse caricare un pugno potente come un maglio e abbatterlo sul mento dell’avversario con la mira di un cecchino.
L’avversario cadde all’indietro, abbattuto come un albero secco.
Il boato che seguì arrivò alle orecchie di Vince come un fastidioso brusio, coperto dal fischio incessante che gli ronzava nelle orecchie e gli impediva di comprendere ciò che era appena successo. Aveva vinto.
Vincent sentì la mano dell’arbitro afferrargli il polso e alzare il suo pugno verso il cielo. Nonostante il labbro spaccato e la mascella dolorante, sorrise nel vedere la “merda”, come Ralph chiamava Nathan Durante, alzarsi da una poltrona in prima fila, rabbioso.
L’occhiata carica di odio che l’altro gli riservò ebbe, come riflesso, un moto di orgoglio e rivincita che per un attimo attenuò il dolore terribile che lo annichiliva.
Durante era una merda, Ralph aveva ragione, tramava, tirava o tagliava fili a proprio piacimento, ma era un uomo di parola e non poteva più tirarsi indietro, doveva lasciarlo libero.
Emily osservò Vincent con attenzione fino a quando non lo vide scomparire oltre la porta che portava in un corridoio buio e, invisibile come era arrivata, tornò a casa.
Era convinta che Vince l’avrebbe raggiunta subito, ma, due ore dopo cominciò ad agitarsi.
Si fecero le tre di notte, ormai era sicura che fosse successo qualcosa di grave.
Il trillo del campanello la fece sussultare.
Emy si scapicollò verso la porta, l’emozione la fece inciampare nel tappeto, ma nessun incidente le avrebbe impedito di arrivare all’ingresso. Si rialzò, si avvicinò alla porta e la aprì senza nemmeno controllare chi ci fosse dall’altra parte.
“È così che apri la porta?” la sgridò Vincent. “Senza nemmeno chiedere chi è?”
“Vince!”
Emily gli saltò al collo per abbracciarlo ma, appena sentì il suo gemito di dolore, balzò all’indietro.
“Attenta EmyK, così rischi di rompermi del tutto” gemette Vince concentrato a rimanere in piedi.
“Scusa” mormorò lei osservandolo con attenzione, era un disastro. “Dove sei stato? Cosa è successo? È tutto ok? Come ti senti? Hai qualcosa di rotto?”
“Posso entrate?” domandò lui intenerito da quelle attenzioni alle quali non era abituato.
“Sì, certo. Scusa.”
Vince andò a sedersi sul divano, abbandonandosi sui cuscini.
Ripensò alle domande che Emily gli aveva rivolto e si accorse che ne mancava una.
“Non mi hai chiesto se ho vinto.”
Emily deglutì a fatica e non rispose.
“Eri lì, non è vero?”
La ragazza serrò le labbra e annuì andando a sedersi al suo fianco.
“L’invito?”
Vince si sdraiò a fatica fino ad appoggiare il capo sulle sue ginocchia.
“Ralph!” rispose Emy accarezzando il suo viso, attenta a non fargli male.
“Avete agito alle mie spalle, anche tu” mormorò Vince, chiudendo gli occhi e lasciandosi accarezzare. “Grazie” aggiunse, scivolando dolcemente nel sonno.
“Dove sei stato dopo l’incontro?” domandò Emily, togliendo dal fuoco i pancake pronti.
“Sono stato da Ralph” le spiegò Vince bevendo a piccoli sorsi il caffè. Il labbro spaccato gli faceva un male cane. “Ho avuto un’idea.” Emy pendeva dalle sue labbra. “Ralph ha ragione, non posso riprendere la mia attività di pugile, per una serie infinita di motivi. Uno su tutti: lo scontro di ieri sera mi ha devastato.”
Emily annuì con veemenza in accordo con lui, bastava guardarlo.
“Sì, un salto a pronto soccorso lo farei” gli disse.
“Dopo, forse.” Vince odiava gli ospedali. “Voglio rimettere a nuovo la palestra. Voglio che torni agli antichi splendori e farne un rifugio per i ragazzi disadattati come me, per levarli dalla strada.” Rimase in attesa della replica di Emily.
“È una cosa meravigliosa! Una nuova vita, insomma. Ralph cosa dice?”
“È d’accordo, entusiasta direi. Ha scommesso una bella somma su di me e quindi dice che i soldi non mancheranno. Mi darà una mano, ne avrò bisogno, non ho idea di come fare, io so solo tirare pugni.”
“Sono sicura che te la caverai benissimo. Poi, non lo so…” Emily sospirò, languida. “Se hai bisogno di qualcuno che sappia fare un ottimo caffè” continuò accarezzandogli i capelli umidi, “oppure che curi la contabilità…”
Vince chiuse gli occhi godendo della sua vicinanza e sospirò eccitato: “Be’, vorrei qualcuno con cui condividere questa nuova avventura e, magari…” Adocchiò la camera da letto. “Magari, qualche momento intimo, fra le lenzuola.”
“Non adesso però” rispose Emily sfiorandogli le labbra con un bacio. “Ora dobbiamo andare in ospedale.”
“Sto bene, ho solo bisogno di riposo.”
Emily sventolò la mano impaziente che la afferrasse.
“Io c’ero, ho visto, ti ha fatto a pezzi. Per favore.”
“Va bene, ma appena mi sarò rimesso in piedi…”
“Appena succederà farò tutto quello che vuoi” gli disse, incespicando sul tappeto.
“Attenta!” Vince la salvò da una rovinosa caduta. “Perché non togli quel tappeto da lì, ci inciampi sempre.”
“Mi piace” ammise lei chiudendosi la porta dell’appartamento alle spalle. “Sono abituata a inciampare, lo sai. Tappeti, sassi, buche, primi amori… Inciampo sempre e non sempre è un male.”
Sorrise felice guardando Vince, che afferrò la sua mano tesa, deciso a non lasciarla mai più.
Sono nata a Castel San Pietro Terme, un paesino incastonato fra Imola e Bologna. In un tempo molto remoto, era l’ultimo avamposto che proteggeva Bologna Guelfa, Stato Pontificio, da Imola, allora Ghibellina. Il retaggio che si porta dietro il mio paesello mi ha sempre affascinata così, nell’approfondire, mi sono appassionata alla storia, alla mitologia e al folclore, di cui le mie storie sono intrise. La mia immaginazione e la mia fantasia mi hanno sempre accompagnata fin da quando, da bambina, inventavo storie in cortile. Oppure, prima di addormentarmi, mi perdevo in mondi immaginari popolati da creature fantastiche. Il desiderio di concretizzare su carta le avventure dei miei personaggi è diventata una necessità che è cresciuta con me e, da quando ho imparato a scrivere, ho iniziato a metterle nero su bianco. Ho sempre scritto per me ma, un’estate di qualche anno fa, ho conosciuto una persona speciale che mi ha spinta a “mandare la mia creatura nel mondo” e così ho fatto. Pubblicare mi ha regalato tantissime emozioni per le quali devo ringraziare coloro che mi hanno letto e si sono appassionati. Continuerò a scrivere e pubblicare, con la speranza di poter emozionare ed emozionarmi.
Commenti recenti