Comprai il primo romanzo di Virginia Dellamore nel 2015 a 0,99, prezzo bassissimo che doveva diventare caratteristica fondamentale dell’autrice. Si presentava come un esordio e il nome appariva con ogni evidenza uno pseudonimo. Prudentemente scaricai l’anteprima e ne ricavai una buona impressione, impressione poi pienamente confermata dalla lettura. Il romanzo era già un bestseller e suscitò clamore e dibattito. La maggior parte delle lettrici pensava non potesse trattarsi di un’esordiente, altre invece evidenziarono delle sviste soprattutto per quanto riguardava lo sfondo storico o l’uso dei titoli inglesi. Personalmente, dopo decenni in cui ho letto romance di ambientazione britannica, faccio ancora molta confusione su cose come la gerarchia dei nobili o il modo corretto in cui ci si rivolge alle loro madri, mogli o figlie. Per cui confesso che non rimasi molto turbata e il romanzo mi sembrò notevole per essere un esordio. Intanto però partì una campagna polemica sul giudizio da dare all’opera e soprattutto sull’identità dell’autrice, al punto di indurla a chiudere la sua pagina Facebook.
In Lady Opaline si riprendeva il genere tradizionale del romanzo d’appendice con i suoi caratteristici equivoci, ma si approfondiva con abilità la psicologia di tutti i personaggi principali. Sulla carta il personaggio di Alexander, almeno per i miei gusti, aveva tutti i difetti del mondo, eppure finì per conquistarmi, probabilmente perché veniva ben tratteggiata la sua travolgente passione.
Ma, lo ammetto, la grande trovata fu la tigre: insomma Opaline si prende cura non di un dolce gattino e neppure di un cagnolino scodinzolante, ma di una tigre, una tigre vecchia, debole e stanca da accarezzare dolcemente… volete mettere?
Meno apprezzabile l’espediente di alternare il punto di vista dei due protagonisti, raccontando sempre due volte gli stessi eventi, cosa che si è poi rivelata la cifra stilistica più ricorrente della Dellamore.
Seguì nel 2016 Una stravagante ragazza perbene con al centro una ragazza simpatica, ma eccentrica e soprattutto niente di che quanto a bellezza, in cui qualunque lettrice si può identificare (quelle belle stiano zitte, ché non hanno da lamentarsi), e il solito fidanzamento per finta che, manco a dirlo, diventerà vero, anzi si trasformerà in un grande amore appassionato. Il pregio maggiore era il fatto che si trattasse di una commedia brillante, spesso davvero molto divertente. Per cui si passava facilmente sopra le inverosimiglianze e anche qualche lungaggine tipiche di questo genere letterario.
Invece sempre nello stesso anno (perché si tratta di una scrittrice molto prolifica) Non posso esistere senza di te si presentava così: Un romanzo sul valore delle prime impressioni, sul senso di colpa, il perdono e il riscatto. La storia di una passione fortissima e di un sentimento assoluto che travalica il tempo e l’apparenza.
Si trattò, ai miei occhi, di un passo falso: una storia molto complessa, che si sviluppa in un lungo arco di tempo e dove l’autrice aspetta molto prima di svelarci la personalità del protagonista. Però di alto livello la conclusione, nonostante che Ophelia e Philip non vi compaiano direttamente.
Mrs. King, la moglie del parroco, varcò la soglia della canonica con un diavolo per capello. Era una donna grassa, con una tendenza al doppio mento. Non era mai stata un tipo incline ai sorrisi caritatevoli, ma quel giorno lo era ancor meno del solito. Entrò e chiuse tumultuosamente la porta alle proprie spalle, raggiunse il marito nel suo studio e depositò sulla scrivania ingombra di pergamene arrotolate e testi sacri, un cestino contenente della frutta. «Quella donnaccia!» esclamò, tanto furiosa da avere le gote paonazze. Mr. King, che doveva essere abituato alle sue esternazioni colorite e ben poco pastorali, sollevò lo sguardo dalla carta sulla quale stava vergando le prime righe del suo prossimo sermone, e le rivolse un’occhiata paziente.
«A quale donnaccia in particolare ti riferisci, mia cara? Talvolta temo di vivere a Babilonia, stando all’elevato numero di signore che, a tuo parere, meritano tale appellativo disonorante.» «Alla più donnaccia di tutte, s’intende! La figlia di quella… di quella meretrice irlandese!»
Mrs. King è molto arrabbiata perché si è recata in visita al castello, ma ha trovato tutto in subbuglio e non è stata ricevuta. Il motivo glielo spiega il marito: Ophelia pensava di essere sterile e di non poter quindi dare un erede a Philip. Invece…
“Lady Alnwick attende un bambino. Lo hanno scoperto proprio oggi. Quindi, come vedi, la stranezza dei comportamenti in cui ti sei imbattuta era più che giustificata. Nessuno è morto, ma qualcuno nascerà.”
La sua sconvolta consorte non lo degnò di una risposta. Uscì dalla stanza con un’aria un po’ rabbiosa e un po’ sconfitta, e il parroco pensò di dedicarle, prossimamente, un sermone sulla carità. Intanto continuò a scrivere quello sull’amore, commuovendosi, come sempre accadeva, nel leggere le parole di San Paolo: «Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine».
Da un punto di vista letterario, però, risulta molto più interessante Un lord da conquistare, in cui la Dellamore fin dall’esergo dichiara che il suo punto di riferimento è Georgette Heyer e per questo introduce come personaggio Beau Brummell, richiamandosi a Il Dandy della reggenza dove il personaggio ricopre un ruolo importante, ma del tutto ininfluente sulla vicenda. Immagino che la Heyer lo erigesse a simbolo di una società in cui l’apparenza era tutto.
La Dellamore, invece, la pensa in modo del tutto diverso e mette in bocca a William questo giudizio:“Brummell si diverte a sembrare superficiale, ma non lo è affatto. Dietro quella sua apparenza frivola c’è un uomo che si burla della stessa società che lo ha glorificato. Diciamo che si diverte a non sembrare intelligente.”
E il romanzo si chiude con una lettera di Brummell in persona, ormai lontano dall’Inghilterra:
“Ebbene, nessuno metterà in gabbia Brummell, né mai lo abbatterà, in nessun senso. Io vivrò per sempre, perché di me si parlerà anche fra tre secoli, e ancora dopo. Ne sono certo come sono certo che i pantaloni lunghi soppianteranno del tutto le brache al ginocchio.
Ricordatelo ai vostri figli: la vera eternità risiede nella dissonanza. Solo chi è diverso risalta e rimane. Solo chi si dà da fare per imporre delle idee controcorrente, in qualsiasi campo. Gli altri, le pecore belanti, si confonderanno con l’uniforme gregge.”
Insomma un capovolgimento interpretativo in cui il dandy per eccellenza diventa il simbolo dello spirito critico.
I romanzi della Dellamore, compreso l’ultimo, forse il più bello, Un mascalzone senza pari, sono sempre romanzi d’appendice. Quindi sono lunghi e sfruttano tutto l’armamentario del genere (soprattutto equivoci e fraintendimenti), hanno sempre come eroe un bad boy (diventato tale a causa di un padre o di una madre detestabile, se non addirittura criminale, e quindi destinato sempre a convertirsi) e come eroina una ragazza diversa dalle altre, spesso non particolarmente bella o raffinata, ma sempre fuori dal comune in senso positivo.
Ormai da molto tempo il Corriere della sera ha svelato a chi lo ignorava come me il mistero sulla Dellamore, identificandola con Amabile Giusti, autrice soprattutto di contemporanei di grande successo. Ancora poco chiaro ai non addetti ai lavori, invece, il motivo per cui continua a mantenere l’anonimato e insieme il prezzo bassissimo di 0,99 euro, nonostante che tutti i suoi titoli si siano rivelati dei bestseller.
Gli articoli de Il Taccuino di Matesi
Commenti recenti