Tutto inizia da un incontro casuale, come spesso capita a molti di noi, e poi tutta una serie di intrecci imprevedibili, destini che si incrociano, vite che subiscono svolte inimmaginabili, sullo sfondo dell’ultima guerra e anche oltre, in un arco di tempo abbastanza lungo, e che coinvolge più generazioni, io stessa ne sono testimone. Ho sempre pensato, mentre ascoltavo affascinata i molteplici episodi delle vicende narrate, che la vita, quando decide di essere generosa con noi, ci mostri come le cose possono cambiare dall’oggi al domani e, così come accade nel migliore dei romanzi connotati dal romanticismo, le persone reali sono lontanissime dal supporre di diventare i protagonisti di una grande storia d’amore.

La seconda guerra mondiale apparentemente potrebbe sembrare uno scenario meno accattivante di una cornice regency, ma non è affatto così. Per me non è l’epoca a fare la differenza; non sono le vaporose crinoline o un tenebroso personaggio maschile in redingote a rendere più intrigante la lettura, bensì la storia medesima. Love is love, l’amore è amore, come mi piace definire puntualmente i miei romanzi. Adoro raccontare il seducente gioco delle passioni in cui sfocia l’innamoramento, l’evolvere tumultuoso dei sentimenti, persino quando diventano negativi come possono esserlo l’odio, il bisogno di vendetta, la gelosia ossessiva.

Credo si sia capito che I domani che verranno prendono spunto dalla realtà. Io ho inventato ben poco nel romanzo, a parte alcuni personaggi di contorno che ho inserito per dare un’idea veritiera del contesto storico di quegli anni. Sono nata nel dopoguerra e ricordo perfettamente quello che la gente diceva… ho nella memoria tanto materiale da scriverci un altro libro. Qui nell’Ossola ci fu una Resistenza che viene citata nei libri di Storia, e la sottoscritta ne ha sentite raccontare un’infinità di storie partigiane degne di essere scritte.

Per restare al mio I domani che verranno, già dalla prima lettera inviata al fronte da Francesca al “soldato che oggi non riceve posta”, un corollario impensabile di esistenze si intersecano tra loro, esattamente come le radici di un albero che affondano in un terreno fertile, diramandosi e fortificandosi al punto da toccare più di una generazione, e sfido chiunque a sostenere che il destino non esiste. A volte ce lo abbiano sotto gli occhi ma non riusciamo a capire che stia muovendo le nostre vite, pensiamo semplicemente che si tratta di coincidenze, del caso, appunto, e non vediamo un disegno più ampio perché ci manca la prospettiva. Solo dopo, magari a distanza di anni l’insieme dei fatti di colpo diventa nitido, interpretabile, ed è allora che si collegano tutti quei fili che nell’immediato ci sfuggono. Le madrine di guerra dovevano tenere alto il morale dei combattenti, e scoprire che all’epoca queste ragazze si adoperavano in tal senso, inviando le loro lettere a degli sconosciuti, mi colpì parecchio. Apprendere che in famiglia ne avevamo addirittura una, fu per me una vera sorpresa. Caspita, mi son detta, che bella, fantastica storia, e quante persone ha coinvolto a loro insaputa!

Le vicende, ovviamente romanzate, a mio modesto parere si snodano come un film in bianco e nero che gli stessi protagonisti ignoravano di interpretare, e che io, spettatrice privilegiata, ho potuto guardare attraverso le loro parole. Mi sono emozionata, commossa, arrabbiata, indignata. Ho sorriso, ma ho anche ascoltato incredula dove possono spingersi la scelleratezza umana, l’egoismo, la brutalità, la mancanza di solidarietà, la crudeltà e la perfidia. I domani che verranno nasce dalla curiosità e ha avuto una lunga genesi, partendo dalle esperienze di guerra di alcune donne, grandi donne, che io ho avuto la fortuna di trovare sul percorso dei miei giorni. Donne che in quegli anni erano ragazze che tutto si aspettavano tranne una guerra che funestasse la loro giovinezza e i loro sogni.
Ho scelto, voluto, condividere con chi vorrà leggermi la loro storia anzitutto per rendere il dovuto omaggio a loro, raccogliendo il testimone che mi fu passato. Ho rispettato la promessa e onorato la memoria di chi visse sulla propria pelle l’orrore del conflitto. Mi auguro unicamente di essere stata capace di trasmettere emozioni e sensazioni, di illustrare quanto la vita può rivelarsi straordinaria… molto, ma molto più di qualunque virtuosismo della nostra fantasia.

Brani tratti dal romanzo

«Francesca, è solo un incubo. Zitta, o sveglierai il bambino.»
Nel buio che precede l’alba, Vittorio capì che l’esortazione, espressa a bassa voce per non destare gli altri, non riusciva a penetrare nel profondo sonno di sua moglie, né a sedare il tremito del corpo. Poi, quasi avvertisse il fastidio del guanciale umido di lacrime, Francesca si girò supina e mosse la testa in un diniego, evidentemente angosciata da un incubo. Lui cercò allora di quietarla il un altro modo, sfiorando la pelle di lei con carezze che sembrarono efficaci a ricacciare nell’oblio gli spettri che le avevano invaso la mente mentre dormiva. Con un sospiro, la baciò.
Francesca si incuneò tra le sue braccia, reagendo al contatto fisico con il corpo del marito. Il letto era stretto e bastava poco per accendere il desiderio di entrambi. Come sempre, null’altro esistette tranne il tumulto dei sensi e le bocche unite in uno stesso, estatico respiro.
Riaffiorata alla realtà, lei fremette al tocco caldo e insistente di quelle mani un po’ ruvide, e alle sensazioni che le scatenavano dentro, sensuali, intime, irresistibili. La passione era un balsamo che compensava i sacrifici e la mancanza di uno spazio tutto loro, adeguato a una coppia di giovani sposi. Anche la felicità, come tutto il resto quando inferiva una guerra, era razionata a pochi, sublimi momenti. Se la facevano bastare, non esisteva alternativa, nell’intenso insostituibile dono di se stessi che condividevano.
Come il lento defluire della marea che arretra adagio allorché, onda dopo onda, ha levigato la sabbia e cancellato ogni orma, subentrò in lei la calma che segue la tempesta. Se la riva battuta dalla risacca appare liscia e intatta, Vittorio, coi suoi baci, aveva dissolto le ombre che avevano turbato il suo sonno: si riaddormentò allacciata a lui, finalmente pacificata.

Infilò il foglio scritto a metà sotto la biancheria nel comò. Quella di fare la madrina di guerra poteva essere una sciocchezza e lei voleva pensarci ancora. Forse non era il caso di spedire una lettera a un anonimo soldato dislocato al fronte. Controllò nello specchio di essere in ordine. Raddrizzata sui fianchi la gonna dal taglio a godet, sistemò il colletto della camicetta bianca che si era confezionata di recente. Se Elena era una fata della gastronomia, lei e Mavi lo erano con forbici, ago e filo. Vestivano meglio di altre signorine grazie alla loro abilità sartoriale e nessuno notava che sfoggiavano giacche e cappotti rivoltati. Ringiovanire il guardaroba già sfruttato senza risparmio era una risorsa adottata dalle persone in bolletta ‒ la maggior parte, in definitiva. Nel vicinato chi non si arrangiava da sé era cliente delle sorelle Guarneri, che arrotondavano le entrate economiche. Guadagni risicati per il fatto che quasi tutti pagavano in natura… mezza gallina, uova, qualche etto di farina, ortaggi, ci si accontentava. Nessuno poteva permettersi il lusso di alzare le pretese. Siamo tutti ridotti all’osso, ammise; si campava di briciole e se non mancavano anche quelle bisognava lottare per procurarsele. Adattarsi ai compromessi era diventato di moda, pur di mangiare a sufficienza. Sua cognata non aveva esitato a scavalcare la povertà con il baratto di se stessa.

Lei lo incuriosiva.
Era riuscita a imbrigliare in una neutrale amicizia il rapporto epistolare, eludendo una confidenza più stretta. Vittorio le aveva chiesto una foto ma, scusandosi di non averne di recenti, aveva glissato anche su quella, il che gli aveva instillato il sospetto che a certe filantropiche iniziative aderissero attempate zitelle oppresse dalla noia. Si era però astenuto dall’esternare tale dubbio a Francesca. La corrispondenza con la sua madrina di guerra era una ventata di italianità che risollevava lo spirito di un cuore nostalgico lontano dalla patria, facendogli molta compagnia nelle vuote serate di caserma che si snodavano tutte uguali. Doveva comunque ammettere di apprezzare i contenuti, mai banali o scontati, delle lettere di lei.
Naturalmente lui aveva fatto altrettanto, rimettendo nel portafogli la foto che le avrebbe mandato, e che lo ritraeva in borghese.
Fulvio ammise di tenere a Lucia, anche se a modo suo. Era brava a letto, disinibita e collaborativa, e accettava che sessualmente lui avesse esigenze che altre più pudiche avrebbero probabilmente rifiutato. E comunque lei era lei e c’era alchimia fisica tra loro. La relazione era priva di sentimentalismi, come tra soci impegnati a far funzionare al meglio un sodalizio conveniente che assicurava a entrambi soddisfacenti vantaggi. Non si era mai permessa di pretendere una lira e lui lo apprezzava, accettando con gratitudine quanto lui le dava spontaneamente. In tempi grami come quelli non si sputava sulla provvidenza, da qualunque parte provenisse. Lucia manteneva la famiglia e contribuire era un dovere per lui. Non intendeva rinunciare ai loro sfrenati pomeriggi a letto, a meno che non fosse di recente subentrato un sostituto, era implicito. Gli amplessi lo ricaricavano di energia, sciogliendo tutte le tensioni accumulate. Con gli amici camerati optava per divertimenti che richiedevano sangue freddo e un solido controllo dei nervi. Somministrare litri di olio di ricino e pestaggi ai sovversivi comunisti che osteggiavano il Duce era un obbligo morale. Certo, gli intermezzi carnali con Lucia non reggevano il paragone, soprattutto per il fatto che lei non era minimamente petulante, tutt’altro. Erano rare come mosche bianche le femmine che non rompevano l’anima a un uomo rivendicando attenzioni e coccole.

«Vittorio?!»
«Sì, io in persona» lui accompagnò la conferma con un cenno del capo e un largo sorriso.
A corto di parole, lo fissò apertamente. Non si capacitava fosse lo stesso uomo con il quale era in corrispondenza da mesi.
Quello era Vittorio?!
«È un piacere immenso conoscerti, Francesca.»
Lei deglutì. La lingua si era inceppata e articolare una frase, persino una banalità, era al di là della voglia di farlo. In compenso si era istintivamente acuita la reattività del corpo agli stimoli visivi… la chioma corvina e l’incarnato olivastro di lui erano enfatizzati dal corredo standard fornito dall’esercito. Vittorio avrebbe potuto darsi al cinema con quel profilo e il fascino latino che madre natura gli aveva elargito. La fissava con pari ammirazione, ne era consapevole. Non era molto più alto di lei, dettaglio insignificante, sebbene Francesca nutrisse un debole per i tipi che svettavano sul metro e ottantacinque. Con un tardivo sussulto di contegno, si costrinse ad abbassare lo sguardo, rimirando impacciata i sandali rimessi in ordine con il bianchetto. Doveva giudicarla un’oca, ammise, accorgendosi di avere un furioso batticuore.

P.S.

Un grazie speciale all’amica Annamaria Babette per aver voluto mettere in vetrina I domani che verranno, e anche a Elena Taroni Dardi per le bellissime card che ha creato per il mio romanzo. Infine ringrazio Raffaella VeloNero per essere al mio fianco quando incontro ostacoli insormontabili nelle fasi tecniche di una stesura, e non solo. La solidarietà e l’amicizia femminile sono preziose risorse che andrebbero sfruttate in qualsiasi contesto, e così non è, purtroppo.

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