Lo avete chiesto in tante e non riusciamo a resistere davanti a tutti quegli occhioni da teneri cuccioli. Ecco qui, tutto per voi, il racconto di Sarah Bernardinello “Gli occhi del desiderio”. Ricordiamo che si tratta di una fan-fiction, ispirata al terzo volume della Saga di Endora, il Fantasy di Fernanda Romani.

1
Omira, la capitale

Gyllahesh mosse i fianchi e la donna sotto di lui gemette e si inarcò. Sentiva le unghie graffiargli la schiena, mentre si chinava a lambirle il collo con la punta della lingua. I mugolii di lei gli avevano riempito le orecchie, così come i suoi complimenti, quasi urlati nel silenzio della stanza. Le strinse un fianco e la donna si abbandonò con un sospiro, giacendo immobile sotto di lui, il corpo scosso dal respiro pesante che le muoveva i seni: aveva raggiunto l’estasi, e per lui era arrivato il momento di scostarsi.
Accettando il bacio che lei gli diede, Gyllahesh si ritirò e si spostò su un fianco, la propria eccitazione ancora presente e bisognosa. Naturalmente, non si aspettava che lei rispettasse le sue necessità, così si coprì con un lenzuolo finemente ricamato e sospirò nella penombra.
«È stato meraviglioso,» sussurrò Kania, ancora ansimante. Allungò una mano per tracciare con le unghie dei cerchi sulla sua spalla. «Come ogni volta.»
«Vi ringrazio, mia signora,» rispose lui. L’erezione gli doleva, e voleva porvi rimedio quanto prima. Sperò che decidesse di andarsene in fretta, come tutte le altre volte. Invece Kania sollevò il lenzuolo e si ricoprì, sorridendo.
«Ma tu lo sai benissimo, vero, Gyllahesh?» Lei ridacchiò, scostandosi i capelli dalla fronte. Non si era nemmeno sciolta la treccia, e i nastri che la qualificavano come un’appartenente alle Jaimirie pendevano inerti sul cuscino. «Sei talmente dotato. Le tue mani e le tue labbra sono un dono degli dei.»
Gyllahesh si sforzò di non tradire il fastidio nel sentire quell’apprezzamento. Lo faceva ogni volta, come se dimenticasse le parole che gli rivolgeva e volesse farlo di nuovo. Per un attimo, ripensò alla propria giovinezza nel sud, quando il rapporto con una donna assumeva una parvenza di onestà. Dopo tutti quegli anni avrebbe dovuto essersi abituato alla capitale e alle sue donne dedite agli intrighi. Forse non era così, dopotutto, pensò guardandola.
Omira gli era apparsa diversa fin da quando era arrivato, forse perché l’intero regno si inchinava al cospetto della Regina. La sua città, Shoria, era più piccola e la vita più semplice, benché le regole venissero rispettate e gli uomini si dividessero in due specie: quelli dediti all’arte virile, e quelli più sfortunati che lavoravano nelle botteghe o nei campi. Lui era stato fortunato, immensamente fortunato, sebbene a volte si chiedesse perché avesse lasciato il suo assolato paese per andare a vivere nella capitale. La risposta era stesa nel suo letto, insieme al denaro che aveva accumulato in quegli anni.
Con un accenno di sorriso, Gyllahesh fece per avvicinarsi a Kania, ma lei alzò la mano.
«Tra poco devo tornare ai miei doveri. Dopo quello che è successo, siamo tutte richiamate a stanziare presso la caserma.»
«Quello che è successo?» ripeté lui, improvvisamente allarmato.
«Non hai sentito dell’attentato?» La donna lo scrutò. «Una delle istruttrici in forza all’esercito ha ferito gravemente la figlia della Custode dei Confini, durante l’addestramento.»
Gyllahesh si sollevò. «Davvero? Non lo avevo udito.»
«È successo ieri mattina. Le guardie della città sono state richiamate in massa per scovare la colpevole, ma è riuscita a volatilizzarsi.»
«Spero che la ragazza stia bene,» mormorò lui.
Kania si alzò a sedere. «Oh, starà bene. Ci penserà Rainna a proteggerla. Lei e quell’uomo che chiama marito.» Nella voce le sfrigolava l’astio, Gyllahesh lo poteva sentire bene. Kania era una Jaimiria, e l’ostilità che correva tra queste e la Custode era nota. Si sorprese a riflettere sulla notizia, fornitagli senza che lui chiedesse. Difficilmente le donne che richiedevano i suoi servigi, soprattutto se militari, si abbandonavano a pettegolezzi di quel tipo. Doveva essere una soddisfazione perversa, per Kania e le sue compagne, sapere che la Custode e l’onorabile Yadosh erano stati colpiti così nel profondo.
Gyllahesh represse un sospiro. Maledetti intrighi.
«E sapete anche chi è la pazza che ha sfidato la Custode dei Confini?»
«Certo che sì. Il suo nome è diventato famoso. Si chiama Sitra.» Kania lasciò il letto, ignara del suo stupore.
Sitra…
A Gyllahesh occorse un attimo per riprendersi, grazie anche all’occhiataccia che la ma-dessa gli rivolse.
«Non mi aiuti a vestirmi?»
Lui scese dal letto, completamente nudo. L’eccitazione era scomparsa, colpita da quanto aveva saputo. Cercò di tenere a bada i pensieri mentre aiutava Kania a indossare gli abiti che le aveva tolto qualche tempo prima e piegati in modo ordinato sulla sedia. Quando fu pronta, lei prese un sacchetto di pelle e lo posò sul cassettone di fianco alla porta, lanciandogli un sorriso e scrutandolo da capo a piedi.
«Peccato che debba andarmene. Tu sei sempre una visione, Gyllahesh.»
«Le vostre parole sono balsamo per le mie orecchie,» disse lui, chinando il capo. Quando sentì la porta chiudersi e i passi di piedi calzati da stivali allontanarsi lungo il corridoio, Gyllahesh si gettò una veste sulle spalle e andò ad aprire le tende, sbirciando oltre la finestra. Poco dopo, Tyro, uno degli uomini che viveva con lui, portò il cavallo davanti all’ingresso e Kania montò in sella, senza alzare lo sguardo.
Solo allora, Gyllahesh si spostò al centro della stanza, alzando le mani per sistemarsi i capelli.
Sitra. Lei che lo aveva salvato senza battere ciglio da quei briganti che volevano derubarlo e probabilmente ucciderlo. Lei che lo aveva protetto senza chiedere niente in cambio finché non lo aveva saputo al sicuro sulla strada di Omira, prima di tornare verso il villaggio dove si stava dirigendo.
Sitra non poteva aver attentato alla vita della figlia di Rainna. La conosceva, se non bene, almeno quel tanto da sapere che era di animo generoso al punto da mettere da parte il denaro per aiutare un figlio che abitava nel villaggio dove era diretta quel giorno. Lui ne era venuto a conoscenza poiché, dopo quell’incontro, era riuscito a ritrovarla e le aveva offerto un compenso per proteggerlo quando si fosse recato fuori città. Sitra si era confidata con lui, e lui aveva cercato di ripagare il proprio debito indirizzandole degli altri liberi amanti bisognosi di una guardia del corpo durante gli spostamenti.
Non poteva essere la stessa Sitra.
Gyllahesh si tirò i capelli, frustrato. Doveva fare qualcosa. Sbatté le palpebre. Doveva fare qualcosa, se non per Sitra, almeno per quel figlio nascosto.

2

Villaggio di Charka
A sud est di Omira

La foschia era salita, ora il sole penetrava tra i rami degli alberi quasi spogli riscaldando i cespugli del sottobosco.
Nabir sentiva i raggi toccarlo, a tratti, mentre si dirigeva lento e attento verso casa. Aveva le braccia piene di rami, malgrado non avessero un gran bisogno di legna. Non era ancora giunto il momento di accendere il camino, anche se il freddo era alle porte. Solo l’umidità della sera e del mattino presto creavano dei fastidi, ma la stagione era ancora bella, senza troppe piogge.
Scrutò i dintorni, le ombre più scure a indicargli i tronchi degli alberi. Ormai conosceva quel sentiero così bene da poterlo percorrere a occhi chiusi, e il pensiero lo fece sorridere tra sé. Non sarebbe mancato molto, lo sapeva. Avrebbe dovuto sentirsi perso, disperato, ma lo sorprendeva scoprire che, dopotutto, la condizione non era così diversa da come era. Le sue mani e le sue orecchie erano così forti, sensibili, da compensare ciò che non riusciva a raggiungere con la vista.
Gli alberi si diradarono fino ad allargarsi ai suoi lati, e l’improvvisa luminosità e l’odore di fumo gli fecero capire che era nella radura. Ancora poco e sarebbe arrivato a casa.
Il richiamo della sua sijiagli fece aumentare il passo. Non c’erano ostacoli tra i suoi piedi e la casupola, e il sole ormai gli scaldava le spalle e il collo. Lo stomaco brontolava e aveva fame.
«Sono qui, sijia,» esclamò, l’ombra del casolare che ormai incombeva su di lui. Si abbassò per posare i fasci di rami su un lato della porta e, quando si raddrizzò, la figura di Selia riempì lo spazio davanti a lui.
«Ancora rami, Nabir? Abbiamo legna in abbondanza.»
Non era un rimprovero, e lui sorrise. «Ero andato a controllare le trappole, tornando ho cominciato a raccogliere qualche ramo.»
La risata di Selia lo accarezzò. «Qualche ramo?» ripeté.
«È pino, così la carne alla brace sarà anche profumata.»
Percepì il silenzio, poi Selia sorrise. Poté udirlo nella sua voce, il sorriso.
«A breve arriverà Sitra. Le faremo trovare un buon pranzo.»
La sua sijia era una donna eccezionale. Aveva capito senza che lui si attardasse a spiegare il suo intento. «Sì.»
«Andrò a vedere le trappole tra un po’. Ti sembrava che ci fosse qualcosa?»
«No, sijia. Non ancora,» aggiunse.
Selia ritornò dentro e Nabir la seguì, il fresco dell’ombra che andava a rimpiazzare il calore che fino a poco prima gli aveva scaldato i capelli e il corpo. Presto sarebbe arrivata la stagione fredda, le visite di sua madre si sarebbero diradate fino a scomparire, per poi tornare nell’epoca dei boccioli. Nabir voleva trarre quanto più piacere da quella visita, abbracciare Sitra e sentirla parlare della vita nella capitale, della gente che conosceva, delle ragazze che addestrava. Adorava sua madre, e sapeva che lei gli voleva bene. Selia aveva calcolato il periodo, per questo erano sicuri che sarebbe arrivata. Lui sapeva quanti e quali fossero i suoi impegni: non ci vedeva bene, ma non era stupido. La guerra, benché il villaggio fosse distante da Omira, era arrivata fin lì, con le notizie che a volte le mercanti si facevano strappare dalle persone con cui intrattenevano affari. E le notizie non erano sempre buone.
Nabir si sedette al tavolo in mezzo alla stanza e seguì con lo sguardo l’ombra della sua sijia che si muoveva tra il focolare e il tavolino sotto la finestra. Zuppa di patate, a giudicare dall’odore. A differenza di altre donne, a Selia non sembrava pesare occuparsi del cibo e della casa, consapevole quanto lui della sua sventura. Eppure, Nabir cercava di fare il possibile per non essere d’intralcio, per poter aiutare la sua sijiain tutto ciò che gli era possibile. Era diventato così bravo a mettere trappole, ad acchiappare conigli e selvaggina. Selia un giorno gli aveva detto che era orgogliosa di lui, che aveva ascoltato bene le lezioni di una cacciatrice consumata.
A volte, invece, lui si rammaricava di non poter fare di più. Soprattutto quando era stanco, o quando ascoltava sua madre, durante le sue fugaci visite, raccomandarsi a Selia per il denaro. Le aveva ascoltate, non visto, ed era venuto a sapere di come Sitra cercasse ogni più piccolo ingaggio come guardia del corpo, che non contrastasse con i suoi doveri di istruttrice, per racimolare quanto più possibile per garantirgli un futuro.
Se solo non avesse avuto quell’aspetto… Glielo avevano detto le donne del villaggio: era così bello, e così delicato. Non era un complimento, era ledere la sua virilità. Non poteva nemmeno avere un futuro come libero amante, le donne non cercavano un uomo dai tratti gentili o dal corpo esile: volevano un uomo bello, muscoloso e che garantisse loro il piacere. Oltre alla sua vista precaria, anche quella mancanza serviva a fargli chiedere quale fosse il suo reale posto in quel mondo. Una domanda che sfociava nella disperazione, finché Selia non lo scovava nell’angolo in cui si rintanava e lo scrollava per fargli dimenticare quei pensieri. La sua sijianon sembrava affatto come le altre donne del villaggio o come le mercanti che passavano di lì. Era una donna tutta d’un pezzo, una esploratrice dell’esercito ormai a riposo. Eccezionale e intelligente.
«Dove sei, Nabir?» Selia si sedette al tavolo di fronte a lui.
«Proprio qui, sijia.» Si era di nuovo perso nei pensieri, e lei se ne era accorta.
«Non direi. Stavi guardando il tavolo come se volessi incenerirlo.»
«Come se ne fossi capace,» rise lui.
«Lascia da parte i pensieri. Tra un po’ arriverà mia figlia, dobbiamo fare festa.»
Nabir sorrise. «I due conigli che ho preso ieri serviranno allo scopo.»
Selia gli prese la mano. «Il mio piccolo cacciatore. Certo che serviranno. Sitra sarà orgogliosa nel sapere quanto sei diventato abile.»
Lui annuì, ricambiando la stretta gentile. Sua madre lo sapeva già, ma la sua sijia lo ribadiva ogni volta, così da non farla preoccupare. Non era facile occuparsi di un uomo, oltretutto con le sue difficoltà. Selia avrebbe potuto disfarsi di lui, invece di tenerlo con sé, sfamarlo e vestirlo. Nabir era felice di vivere ai margini della foresta, poco lontano dal villaggio. Era felice di poter aiutare la donna a cui era stato affidato. Il suo cuore si riempì di affetto per Selia e per quella madre che vedeva così poco, ma dalla quale aveva avuto molto. A dispetto di tutte le leggi e del modo in cui molti uomini erano trattati, la sua vita era tranquilla, serena. Quando avesse abbracciato Sitra, lo sarebbe stata ancora di più.

3

Il sole aveva oltrepassato l’apice, e di Sitra non si era vista neanche l’ombra. Seduto appena fuori della soglia di casa, Nabir aveva scrutato il sentiero dal quale sarebbe dovuta arrivare sua madre. Attraverso il velo chiaro che gli ostacolava la vista, però, non aveva visto nulla, non aveva udito nemmeno il nitrire di un cavallo o il rumore di zoccoli. Forse Selia aveva calcolato male il tempo, forse sarebbe giunta l’indomani. Eppure, la sijiaera stata così sicura che fosse quello il giorno. Sitra arrivava sempre due giorni dopo la paga, così da consegnare a Selia del denaro. Era così da sempre, anche se a volte poteva capitare che saltasse un periodo, per giungere quello dopo. Era sempre stato così, e forse era una di quelle volte.
Eppure Nabir si sentì stringere il petto, in un modo così inaspettato che per qualche istante faticò a respirare. Era una sensazione che aveva sperimentato di rado, come un presentimento. Per qualche momento, cercò di respirare a fondo, calmando quel battito forsennato contro lo sterno. Perché ora provava un palpito di paura? In fondo, Sitra doveva arrivare dalla capitale, era un viaggio di poco più di mezza giornata. Forse era in ritardo o, forse, aveva aspettato un altro giorno, prima di mettersi in marcia per raggiungerli.
Scacciando il brivido che gli aveva fatto scuotere le spalle, Nabir si rilassò contro la parete di legno. Tentò di farlo, finché la voce di Selia non lo raggiunse.
«Entra, Nabir. Vieni a mangiare un po’ di zuppa.»
«Non ho fame, sijia,» mormorò. Sbatté le palpebre, cercando di scrutare tra le ombre. La presenza di Selia si palesò al suo fianco.
«È possibile che arrivi domani, a questo punto. Forse le notizie di guerra le hanno impedito di partire.»
Nabir voleva chiedere se fosse davvero sicura che quello fosse il giorno in cui doveva arrivare sua madre. Voleva chiederlo con tutte le sue forze. Aveva imparato a leggere e a far di conto, ma da quando la sua vista era peggiorata, si basava soltanto sullo scorrere dei giorni e delle notti. Doveva solo contare quanti ne fossero passati dall’ultima volta in cui aveva abbracciato sua madre. E la conclusione era la stessa a cui era giunta Selia: il periodo era giusto, il giorno anche. Certo, poteva esserci un ritardo, ma, dacché ricordava, Nabir non si era mai sentito così in apprensione. Come se fosse successo qualcosa, o stesse per… succedere.
«Nabir…»
«Vengo, sijia. Forse hai ragione, la sua presenza è importante in città.»
Non gli sfuggì il sospiro di Selia, così come non gli sfuggì la stretta alla spalla che lei gli diede. Era preoccupata. La cosa non fece che acuire la sensazione che stesse per accadere qualcosa.
Si alzò in piedi e rientrò in casa, ma non chiuse la porta. Voleva che il sole entrasse, e che scaldasse quell’aria diventata improvvisamente gelida. Stava per sedersi a tavola, quando il rumore di zoccoli gli fece alzare la testa.
«È lei?» Voleva essere un’affermazione, invece suonò come una domanda. Nabir si raddrizzò, guardando verso il riquadro della porta, chiaro contro la penombra della stanza.
Selia si mosse verso l’uscio. «No.» Categorico, ma con un carico di sospetto che Nabir assimilò a fatica. Chiunque fosse, aveva messo in allarme la sua sijia.
Il cavallo nitrì, il rumore si attenuò fino a scomparire, lasciando solo quello dei movimenti di qualcuno fuori dalla casupola che smontava da cavallo con un tintinnio di finimenti. Non ricevevano molte visite, chi avrebbe potuto essere? Nabir deglutì, in attesa, consapevole dei passi di Selia e della persona che si avvicinava da fuori. I passi erano pesanti, probabilmente erano piedi calzati da stivali da viaggio, ma non erano di una donna. Il suo udito fine aveva già escluso che lo fosse, ascoltando lo scricchiolio dei sassi e il fruscio dell’erba.
«Buona giornata.»
La voce profonda confermò quanto già aveva appurato. Nabir aggrottò la fronte, sentendo la morbida cadenza. Un uomo. Un uomo che non era del villaggio, proveniente forse dalla capitale, a giudicare dalle parole pulite ed educate.
«Buona giornata.» Selia era sulla soglia, la sua figura snella oscurava la luminosità del sole. «Che cosa posso fare per te?»
Nabir si avvicinò, incuriosito suo malgrado, accostandosi alla sijiaancora ferma nello stesso punto.
«Perdonate il disturbo. Al villaggio mi hanno indirizzato qui. Il mio nome è Gyllahesh, vengo da Omira.»
«E il motivo del tuo viaggio-» Selia lasciò cadere la frase, forse distratta da un nuovo evento.
Nabir li aveva già sentiti: zoccoli in avvicinamento. Non di un solo cavallo. Si allontanò dalla porta quando Selia fece altrettanto, e raggiunse il tavolo, improvvisamente spaventato. Cosa stava succedendo?
«Cosa vogliono?» Nabir colse la nota irritata e tesa nelle parole di Selia. Chi erano? La sua sijia lo raggiunse, e un’altra ombra si avvicinò alla porta. L’uomo non era stato invitato a entrare, ma lo fece lo stesso, occupando gran parte della luce che entrava. Nabir aggrottò la fronte, cercando di cogliere delle sfumature dalla persona che si era presentata a casa loro. Percepì invece un lieve profumo mascolino, che gli fece scorrere un brivido lungo la schiena.
«Credo abbia a che fare con Sitra,» disse l’uomo, Gyllahesh, a bassa voce, nello stesso istante in cui i cavalli venivano arrestati davanti alla casa.
«Sitra? Cosa è successo?» Selia sembrava ancora più tesa, e questo innervosì Nabir.
«Dov’è mia madre?» esclamò, ma non ottenne risposta. Fu consapevole degli sguardi addosso, ma l’entrata rumorosa impedì a chiunque di parlare.
«Ottima domanda, ragazzino.» La voce sconosciuta era fredda e limpida. «Stiamo cercando Sitra la traditrice. Abbiamo avuto indicazioni che potrebbe essersi diretta qui.»
«Sitra non è una traditrice. E comunque non è qui.» Selia non sembrava spaventata. «Avete avuto notizie sbagliate.»
«Non ne sono così sicura, cacciatrice. Sì, ti riconosco. Eri una delle esploratrici, una volta.» La donna si avvicinò, accompagnata da altre ombre.
Nabir sbatté le palpebre, i pensieri che si rincorrevano nella testa. Sua madre non poteva essere una traditrice. Era impossibile.
«E tu? Conosco anche te, di fama. Gyllahesh, se non sbaglio. Una fama ben meritata, se non erro. Cosa fai qui?»
Prima che l’uomo potesse parlare, Selia intervenne. «Si era fermato a chiedere indicazioni, ma-dira. Gli abbiamo offerto un pasto, visto che ci stavamo sedendo a tavola.»
«Ma davvero? Un libero amante come lui che accetta di sedersi in questo tugurio? Mi aspettavo di più da te, Gyllahesh.»
Nabir sussultò per l’insulto, neanche troppo velato, ma l’uomo in questione sembrò non fare una piega.
«Sono stati gentili a offrirmi un piatto di zuppa. Chi sono io per rifiutare?»
«Lo immagino,» fu la risposta beffarda. «Sempre che sia la verità.» La donna si mosse. «Cercate ovunque, se rinvenite anche una piccola traccia, voglio saperlo.»
«Sitra non è qui, ma-dira,» provò nuovamente Selia. «Non la vediamo da parecchio tempo.»
«Forse perché impegnata a congiurare contro la Custode dei Confini,» sbottò la comandante del drappello. «Sta di fatto che è una traditrice della peggior specie.»
«Non è vero!» urlò Nabir, incapace di stare zitto. Poteva vedere l’ombra muoversi, e si avvicinò. «Non è vero. È una brava donna, è leale, è-» Un ceffone mise fine alle sue parole, e la sua testa scattò all’indietro a causa del colpo. Non cadde solo perché un braccio forte lo sostenne, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Dovrei farti imprigionare, piccolo rognoso. Attaccare un’ufficiale dell’esercito. Inaudito.»
«Non vi stava attaccando.» Selia era al suo fianco, e Nabir pregò che non dicesse nulla. «Ma è sua madre, ed è comprensibile che non voglia sentirne parlar male.»
L’altra tacque, impegnata ad ascoltare i rumori causati dalle sue guerriere. Stavano ribaltando tutto, sia fuori che dentro. Dalla stanza da letto provenivano rumori di strappi. Poco dopo, si udirono delle voci. Le parole nientee non è quiriempirono le orecchie di Nabir. Sperò che se ne andassero in fretta, ora che sapevano che Sitra non era mai giunta lì.
«Bene. A quanto pare, quella maledetta non si trova nei paraggi.» La voce della ma-dira era carica di sarcasmo. «Ma state pur sicuri che vi terremo d’occhio. Se solo mette piede al villaggio, lo sapremo. Andiamo, adesso.»
Nabir vide le ombre muoversi, il rumore degli stivali risuonare sul pavimento di legno. Un istante, e il nitrire dei cavalli annunciò la loro partenza. Solo allora si permise di sciogliersi dalla stretta al braccio e si accasciò sulla sedia dietro di lui.

4

Gyllahesh lasciò andare il ragazzo e lo guardò afflosciarsi sulla sedia. Il viso, di una delicatezza inaspettata, era contratto, come se cercasse di non piangere. E ne aveva ben donde, dopo aver sentito la notizia. Lui aveva sperato di riuscire a parlare prima dell’arrivo del drappello di guerriere, ma così non era stato. Represse un sospiro, e il desiderio di circondare le spalle del giovane per consolarlo.
Fu la donna a farlo, avvicinandosi al ragazzo e sfiorandogli una spalla con la mano.
«Cosa ti ho insegnato, Nabir? Mai far vedere le debolezze.»
«Hanno accusato mia madre di essere una traditrice, sijia. Mia madre! È la persona più buona che conosca. Non può essere vero, è uno sbaglio.»
Gyllahesh scosse la testa. «Non lo è. Mi è stato riferito da fonte sicura. Sitra ha cercato di uccidere la figlia della Custode dei Confini, e poi si è data alla fuga.»
Occhi verdi come smeraldo si alzarono, ma non lo guardavano direttamente. Fissarono un punto oltre la sua spalla destra, ma era indubbio che l’attenzione di Nabir fosse concentrata su di lui. Gyllahesh deglutì, notando solo in quel momento che il giovane uomo non vedeva. Gli occhi erano limpidi, dello stesso colore delle pietre preziose, ma non potevano vedere la luce. O lui.
«Ti è stata riferita una cosa sbagliata,» sbottò il ragazzo. Il suo tono tagliente sembrava non ammettere repliche, e lui cercò sul volto della donna lì accanto un aiuto. Scrutandola in viso, comprese che lei invece gli credeva.
«Nabir, le guardie non avrebbero fatto mezza giornata di viaggio solo per una passeggiata. Deve essere successo qualcosa a Omira. Se Sitra ha fatto quello di cui è accusata-»
«Come puoi pensare queste cose di lei?» esclamò Nabir.
Gyllahesh fece per rispondere, ma la donna sospirò e scosse la testa.
«Il rispetto, Nabir.»
La testa di capelli biondi si abbassò di colpo. «Perdonami, sijia. Non volevo.»
Lei sorrise con tristezza e gli accarezzò i riccioli. «Capisco il tuo tormento, lo condivido e, credimi, sono incredula quanto te. Dobbiamo cercare di capire, prima di giungere ad altre conclusioni.»
Il ragazzo annuì, sollevando appena la testa, ma non aggiunse altro.
«Lascia che parli con il nostro ospite, poi andrò al villaggio per sapere se hanno fatto domande specifiche. Dovrò anche mettere in ordine.»
Gyllahesh la vide gettare un’occhiata alla porta dell’altra stanza: dovevano aver perquisito tutto, e anche danneggiato qualcosa. Il volto della donna si contrasse per un momento, prima che la fermezza tornasse a distenderle i lineamenti. Lei lo guardò e gli fece cenno di uscire. Gyllahesh ubbidì, subito seguito nel tiepido calore del pomeriggio.
Appena fuori dalla porta, si girò a fronteggiarla.
«Sapete che è la verità,» mormorò.
«Certo. L’ho capito non appena sono arrivate. Non si sarebbero sobbarcate il viaggio, altrimenti.» Lei alzò gli occhi scuri a fissarlo. «Dimmi quello che sai, e comincia da come hai conosciuto Sitra.»
Quella era una donna intelligente. Gyllahesh raccontò di come sua figlia gli avesse salvato la vita, della parvenza di amicizia che si era instaurata, del suo aiuto nel fornirle degli incarichi al di fuori dell’esercito per racimolare del denaro.
«Se le è successo qualcosa, diventerà un problema,» commentò Selia. «Viviamo in modo frugale, ma non so se riuscirò a mantenere Nabir con quello che ho.» Raddrizzò le spalle, guardandolo. «Chi lo ha detto a te?»
Per un istante, l’imbarazzo gli impedì di parlare. Stava riflettendo sulle difficoltà che la donna e il nipote avrebbero incontrato da lì in poi. Si stava avvicinando la stagione fredda.
«So cosa sei, Gyllahesh. Non occorre che tu mi dica niente. Voglio solo sapere come ne sei venuto a conoscenza.»
«Non mi vergogno della mia arte,» rimarcò lui.
«E fai bene. Sei decisamente un degno rappresentante.» Lei sorrise. «Fuori della mia portata, purtroppo, e anche di quella di Sitra, suppongo.»
«È così. Tra noi c’era solo questa conoscenza più profonda, ma niente di più.» Gyllahesh scrollò le spalle. «Ieri pomeriggio, una delle ufficiali delle Jaimirie mi ha messo a parte della notizia.»
«Le Jaimirie? Sono colpita.»
Lui ignorò il tono ironico, e proseguì. «Sembrava molto soddisfatta della cosa, credo soprattutto per quanto riguarda la Custode. Ma non so altro, né chi abbia ordito l’attentato, né perché abbiano scelto proprio Sitra.»
Selia distolse il viso, puntando lo sguardo sul bosco poco distante. «Non è difficile capirlo, e immagino che tu ci sia già arrivato, malgrado faccia finta di no. Vivremo anche al di fuori di tutto, ma gli intrighi della capitale arrivano fin qui. Ho sentito parlare delle mercanti, so quanto astio corra tra le fazioni, laggiù a Omira. La Custode e suo marito sono odiati e temuti. Sitra si è trovata nel mezzo. Mi aveva raccontato che addestrava la figlia di Rainna. Chi meglio di lei poteva essere il mezzo per colpirla nel profondo?»
«Non può essere solo questo,» obiettò Gyllahesh. Gettò un’occhiata alla porta. «Chiunque sia stato avrebbe potuto essere a conoscenza della presenza di un figlio.»
«Quelle luride vipere,» ringhiò Selia, sorprendendolo. «Le avranno promesso un lauto compenso se avesse portato a termine il piano.»
«Credo sia andata così,» le concesse.
Lei annuì. «Mia figlia è leale, Nabir ha ragione. A volte però una buona occasione può rivelarsi fatale.»
«Cosa credete le sia successo?» Gyllahesh non avrebbe voluto, ma la domanda li sfiorava da quando era giunto il drappello.
Selia scrollò le spalle. «Nella migliore delle ipotesi? L’avranno già uccisa. Chiunque sia stato, doveva liberarsi di una testimone. Non poteva cadere nelle mani della Custode.» Lei ricambiò il suo sguardo turbato. «Ti sorprende che lo dica?»
«No. A dir la verità no. Altrimenti sarebbe già arrivata.»
La donna annuì. «Rientriamo. Nabir vorrà sapere di cosa abbiamo parlato, anche se temo che lo sappia già. Il suo udito è molto fine.»
Gyllahesh gettò una breve occhiata alla porta. Non voleva apparire morboso, ma desiderava sapere qualcosa di quel bellissimo ragazzo. Appena l’aveva visto, aveva creduto di aver di fronte una fanciulla, benché sapesse già cosa avrebbe trovato. Quello che non si aspettava, era un viso delicato incorniciato da riccioli biondi. Si schiarì la voce. «È nato cieco?»
Selia scosse la testa. «Non è cieco. Non ancora. Vede solo ombre. La sua vista è peggiorata nel corso degli anni. Mi chiedo come farà quando non ci sarò più.»
Gyllahesh sbatté le palpebre. Non si aspettava un’ammissione del genere. Un fumoso progetto prese forma nella sua mente, qualcosa che aveva bisogno di una buona riflessione. Qualcosa che però gli sembrava quanto mai giusto. Ne avrebbe parlato a Selia e a Nabir. Forse il ragazzo non sarebbe stato d’accordo, ma la madre di Sitra sì. Era vantaggioso per entrambi.

5

Omira

Il viaggio non era stato particolarmente lungo. Dal villaggio alla capitale c’era poco più di mezza giornata a cavallo. Viaggiare però con una persona chiusa nel suo mutismo e in collera non era stato piacevole. Gyllahesh aveva tentato in tutti i modi di coinvolgere Nabir in una conversazione, ma i suoi sforzi erano stati vani. Inoltre, doveva stare attento a come cavalcava, dal momento che per il ragazzo era la prima volta. Non voleva ritrovarselo sbalzato di sella per un movimento sbagliato.
Era partito così in fretta dalla città che non aveva nemmeno assoldato una guerriera come guardia del corpo. L’altra sua preoccupazione era stata non essere sorpreso da briganti. Solo dopo avere oltrepassato le porte di Omira, Gyllahesh si era permesso un sospiro di sollievo.
Fu solo quando si ritrovarono di fronte alla villa, e lui annunciò l’arrivo, che Nabir sembrò avere una scintilla di interesse. Ancora a cavallo, alzò la testa e sbatté le palpebre, ma Gyllahesh sapeva che non poteva vedere che una distesa di bianco. Marmo bianco, in realtà. L’ombra fornita dalle chiome degli alberi quasi spogli si era allungata, sporcando il candore di riflessi grigi. Nabir non poteva comunque distinguere le differenze, così come non poteva vedere i piccoli balconi sulla facciata e le finestre a golfo, o i bovindi ai lati.
Gyllahesh smontò da cavallo, raggiunto da uno dei suoi servi, che guardò perplesso il ragazzo ancora a cavallo. Nabir sembrava non voler scendere di sella, e aveva chinato il capo a fissarsi le mani strette intorno alle redini.
«Nabir, siamo arrivati. Puoi smontare adesso.» Gyllahesh gli si avvicinò, guardandolo dal basso. Si accorse del rossore sul volto del giovane. «Che cosa c’è? Non vuoi entrare? La tua collera è ancora così viva?»
Nabir scosse il capo. «Non-» Si interruppe, mordendosi le labbra.
«Che cosa?» Lo scrutò con attenzione, preoccupato. «Stai male?»
Di nuovo, il ragazzo scosse il capo. Aveva legato quei magnifici capelli con un nastro sulla nuca, ma alcuni riccioli erano sfuggiti e danzavano ora intorno al viso sfumato di rosa cupo.
«Non riesco a scendere,» sputò fuori Nabir, e sospirò quasi fosse stata una liberazione.
Quando la comprensione lo invase, Gyllahesh fu tentato di scoppiare a ridere, ma si rese anche conto che facendolo avrebbe peggiorato la situazione. Il ragazzo non aveva bisogno di un’umiliazione, aveva bisogno soltanto che lui lo proteggesse al meglio delle sue possibilità.
Si avvicinò, allungando una mano per accarezzare il manto del baio. Selia aveva chiesto a una conoscente al villaggio, che era stata così gentile da fornirle un vecchio animale docile, ma che era servito allo scopo.
«Sono qui vicino, basta solo che togli i piedi dalle staffe e ti lasci andare.»
«Come? Cosa dovrei fare?» La nota spaventata nella voce di Nabir lo fece sorridere.
«Ti prenderò io, Nabir. Sono abbastanza forte per farlo, sai?»
Gli occhi verdi lo sfiorarono per un istante, e lui si sentì attraversare da un brivido. Lo scetticismo era impresso sul bel volto di Nabir, ma Gyllahesh non si lasciò sconfiggere. Alzò un braccio e strinse la mano su un fianco snello, nello stesso modo in cui aveva appena accarezzato il baio.
«Lascia le redini e togli i piedi dalle staffe. Spostati un po’ verso di me. Al resto penserò io.»
«Ti farò del male,» borbottò Nabir. Curioso che una persona che non aveva spiccicato parola per buona parte della giornata, in collera com’era con lui, ora si preoccupasse della sua incolumità.
«Non succederà. E io non ne farò a te.» Gyllahesh strinse appena la mano sul fianco, percependo la tensione nel ragazzo. «Te lo prometto, Nabir.» Questo andava oltre farlo smontare semplicemente da cavallo. Era la stessa promessa che aveva fatto a Selia, prima di partire, quel mattino all’alba. Non gli avrebbe fatto del male e avrebbe cercato di proteggerlo.
Nabir strinse le labbra e cedette le redini, prontamente afferrate da Tyro, il servo che era rimasto in silenzio al suo fianco.
«Così, bravo,» lo lodò Gyllahesh. «Solleva la gamba sinistra e spostala sullo stesso lato dell’altra, poi scivola giù.» Fu lieto che Nabir seguisse le sue indicazioni senza protestare oltre. Il ragazzo eseguì con un movimento incredibilmente aggraziato e, quando fu in posizione, scivolò lungo la sella. Gyllahesh aveva tenuto la mano sul suo fianco, e allungò anche l’altra per evitare che cadesse. Il corpo esile di Nabir gli si addossò, e lui percepì il respiro affrettato del ragazzo accarezzargli il viso e la gola, prima di arrivare al suolo con i piedi ben piantati per terra. Le sue braccia erano corse a sostenerlo, e Gyllahesh sentì il cuore aumentare i battiti, mentre lo teneva stretto. Una strana emozione lo percorse, e fu solo grazie a Tyro se non si rese ridicolo oltre misura. Perché un improvviso desiderio di accarezzare quei riccioli biondi e quella pelle liscia aveva fatto formicolare le sue dita.
«Avete bisogno che vi porti qualcosa, padrone?» gli chiese l’uomo, in attesa accanto ai cavalli.
Gyllahesh scosse la testa. «No, Tyro. Grazie, vai pure.» Ritirò le braccia, ormai sicuro che Nabir si reggesse in piedi da solo. Gettò un’occhiata al volto, e vide ancora quel rossore dipingere le guance del ragazzo. «Stai bene?»
«Credo… di sì,» sussurrò il giovane. «Ma non voglio più salire a cavallo in vita mia.» Si mosse in modo rigido, allontanandosi da lui, senza nemmeno alzare la testa.
Gyllahesh questa volta rise, dimenticando, o cercando di farlo, quella bizzarra sensazione di piacere nello stringere Nabir. «D’accordo. D’ora in poi andremo a piedi.»
Nabir annuì. La delicata sfumatura sulle sue guance si era attenuata, e questa volta alzò lo sguardo.
«Vorrei poter vedere questa casa. È così chiara che ha riempito i miei occhi di nebbia.»
«La facciata è di marmo candido. E sì, ti piacerebbe.»
Il ragazzo socchiuse gli occhi, il viso alzato e lo sguardo limpido e vuoto. «Sì. Credo anch’io.»

6

Sapeva che avrebbe dovuto essere grato a Gyllahesh per la proposta fatta a Selia. Sapeva che non avrebbe dovuto prendersela con la suasijiaper aver acconsentito, quasi senza neanche protestare. Ritrovarsi in viaggio all’alba con un uomo che non conosceva, quasi ceduto come un pacco scomodo, aveva però riempito il cuore di Nabir di un’ira sorda. A nulla erano valse le considerazioni di Selia, o i discorsi pieni di buon senso: la sera prima, quando Gyllahesh aveva suggerito che andasse a Omira con lui, e Selia si era detta d’accordo, si era reso conto di quale peso fosse per tutti. Quasi cieco, senza nessuna prospettiva per il futuro, nemmeno capace di poter lavorare per mantenersi. Chi avrebbe potuto sobbarcarsi l’onere di prendersi cura di lui?
Eppure, la gentilezza di Gyllahesh a poco a poco aveva fatto breccia nel suo cuore afflitto. Le poche parole che gli aveva detto durante il viaggio, prima di arrendersi davanti al suo infantile mutismo, gli avevano fatto comprendere quanto quell’uomo fosse dotato di un animo generoso, oltre a un corpo forte. Durante il viaggio, gli aveva spesso dato un’occhiata di sfuggita, senza riuscire ad andare oltre a una sagoma imponente ben dritta sulla sella, e a una macchia scura che dovevano essere i suoi capelli. Avrebbe desiderato vederlo, vedere quel viso e quei capelli scuri. Prima di darsi dello stupido per quel desiderio così innaturale, si era detto che avrebbe dovuto accontentarsi della voce profonda e melodiosa che ogni tanto gli rivolgeva parole gentili, andando oltre la sua rabbia.
Nabir oltrepassò il grande portone d’ingresso, seguendo l’ombra di Gyllahesh, e l’improvvisa penombra lo fece quasi incespicare. I suoi occhi deboli si abituarono in fretta, ma non gli permisero di vedere l’atrio della villa, così come non gli avevano permesso di vedere la facciata candida. Il profumo che percepì lo inebriò per un momento, e si guardò attorno, cercando la fonte. Dovevano essere fiori, ma non semplici fiori di campo. Mosse un piede davanti all’altro e raggiunse una macchia di colori vividi. Allungando la mano, toccò quello che doveva essere un vaso di vetro sopra un tavolino, e si abbassò per annusare. Fiori.
«Nabir.»
Lui si rialzò di scatto, quasi avesse compiuto una mancanza, e si allontanò dal tavolino, pregando che non ci fossero ostacoli intorno a lui. Sarebbe stato quanto meno imbarazzante rompere qualcosa appena arrivato.
«Sì?»
«Ti piacciono i fiori?» Gyllahesh era accanto a lui, la sua figura che quasi gli ostruiva la precaria visuale.
«Molto,» ammise. «Ma non ho mai sentito un profumo così intenso.»
«Questi vengono coltivati nel giardino interno della villa. È ben riparato, così da avere fiori freschi anche in questa stagione. Durante il periodo freddo, le aiuole vengono coperte con delle stoffe leggere, per proteggerle.»
Le spiegazioni erano interessanti, e Nabir annuì in risposta. Non voleva sembrare impaziente di vedere il giardino, Gyllahesh ve lo avrebbe condotto quando sarebbe stato il momento. Non era neanche sicuro di quale sarebbe stato il suo ruolo in quella casa. Cosa avrebbe fatto? Quali sarebbero state le sue mansioni? Poiché era chiaro che avrebbe dovuto lavorare per mantenersi. Che cosa se ne faceva quel ricco libero amante di uno come lui?
«Smettila di aggrottare la fronte, Nabir. Dopo che ci saremo rifocillati e avremo riposato, ti accompagnerò a vedere la villa e ti illustrerò quello che farai. Aspetta, ecco Mirryn.»
La voce curiosamente stridula del nuovo arrivato fece sorridere Nabir.
«Ho appena incontrato Tyro, di ritorno dalla stalla. Perché nessuno vi ha annunciato? Vi avremmo fatto trovare del sidro caldo e del cibo.»
«A qualcosa da mangiare non diciamo di no. Mirryn, lui è Nabir. Resterà con noi.»
«Capisco. Volete seguirmi in cucina?»
Nabir sbatté le palpebre, sorpreso dall’accoglienza. L’uomo li precedette, e lui ne approfittò per afferrare la manica della giubba di Gyllahesh, rimasto accanto a lui.
«Che c’è, Nabir?»
«Perché-» Si interruppe, cercando le parole adatte, poi sospirò. «Perché non sembrava sorpreso? Portate spesso degli orfani in casa vostra?»
«In realtà no, questa è la prima volta.» Il respiro caldo sul viso fece capire a Nabir che Gyllahesh si era chinato verso di lui. Un brivido gli corse giù per la schiena, e lui scacciò con forza l’ondata di incomprensibile piacere che lo attraversò quando l’uomo gli sfiorò la mano. «Ma Mirryn è un uomo generoso, di buon animo.»
«Come lo siete voi,» gli sfuggì senza volerlo. Lasciò andare la stoffa che aveva stretto fino a quel momento.
«Cerco di fare del mio meglio.» Nella voce profonda si percepiva l’accenno di un sorriso. «E ti prego, lascia da parte le formalità, Nabir.»
«Siete il mio padrone, ora.»
«Ti sbagli. Io non sono il padrone di nessuno. Questa diventerà la tua casa, se lo permetti.»
Sopraffatto, Nabir abbassò la testa. «Vorrei non aver lasciato la mia sijiain questo modo.»
Una mano grande si strinse intorno alla sua, un palmo liscio contro il suo calloso. Il calore gli si diffuse dentro, facendogli riempire gli occhi di lacrime.
«Andremo a trovarla. Basta solo che tu mi dica che vuoi andare a Charka, e organizzerò il viaggio. Potrai portarle anche dei regali.»
«Grazie, Gyllahesh. Mi dispiace di essere stato così scontroso.»
«È comprensibile, Nabir. Vieni ora, Mirryn ci avrà senz’altro preparato qualcosa di appetitoso.»
Nabir chiuse gli occhi per scacciare le lacrime, poi tentò di sorridere. Sperò con tutto il cuore di poter ripagare la generosità di Gyllahesh. Forse poteva comunque trovargli qualche lavoretto da fare. Le sue mani non erano abituate a restare ferme, e avrebbero sostituito i suoi occhi.

7

Gyllahesh mangiò in fretta del pane e formaggio di capra, prima di lasciare Nabir solo nella cucina a terminare il cibo. Il ragazzo sembrava così solo, ma gli aveva visto sul viso una scintilla di coraggio, un bocciolo di determinazione che glielo fecero ammirare ancora di più. Nabir aveva diritto a essere felice, per quanto un uomo potesse essere felice a Endora. Non meritava di essere emarginato per le sue difficoltà, né rischiare di morire perché non c’era nessuno a occuparsi di lui. Selia gli aveva raccontato di come l’avesse allevato, sforzandolo a rendersi più autonomo possibile a mano a mano che la vista peggiorava. Gyllahesh se ne era accorto, vedendolo mangiare: tastando l’area intorno al piatto, sfiorando con le dita il bicchiere, usando il cucchiaio con perizia. Per qualche inspiegabile ragione, la cosa lo rendeva fiero. Mentre raggiungeva Myrrin al piano superiore, si rese conto che forse una spiegazione c’era, e ruotava intorno alla bizzarra attrazione che provava per quel bellissimo ragazzo biondo dagli occhi di smeraldo. Attrazione che avrebbe dovuto combattere e che, invece, lo riscaldava come non aveva mai fatto nessuna donna.

***

Nabir era fermo in mezzo alla stanza che Myrrin aveva preparato per lui. Gyllahesh osservava il suo viso e si accorse che il ragazzo avrebbe voluto vederla. La camera era adiacente alla propria, con una porta comunicante. Non era molto grande, ma trovavano comunque posto un cassettone e un piccolo armadio, oltre al letto. La finestra a bovindo dava sul giardino, e Gyllahesh provò un moto di rammarico al pensiero che Nabir non potesse vedere che ombre, affacciandosi.
«È tutta per me?» La voce del giovane uomo portava con sé sorpresa e una parvenza di incredulità.
«Naturalmente. Dove credevi avresti dormito?» Gyllahesh voleva che fosse una battuta, ma l’espressione di stupore sul volto di Nabir si incrinò. Fu un solo attimo, poiché il ragazzo rilassò i lineamenti e alzò le spalle.
«Forse da qualche parte, insieme ad altre persone.»
«La villa è grande,» interloquì Myrrin, andando a tirare le tende. «Anch’io ho la mia stanza personale. Comunque,» aggiunse, girandosi, «non siamo in molti a far parte della corte di Gyllahesh. Io, Tyro, Sivar e Rashin. Più tardi te li farò conoscere.»
Nabir annuì, e Myrrin ne approfittò per uscire, lasciandoli soli. Gyllahesh si avvicinò al suo nuovo ospite e sorrise, anche se l’altro non poteva vederlo.
«Non devi temere, Nabir. Qui sei il benvenuto.»
«Lo so, ma…» Nabir scrollò i riccioli biondi, lasciando cadere la frase.
«Ma?» lo incalzò Gyllahesh, studiando il suo viso. Per la grande Madre Alcheria, era di una bellezza sconvolgente. Le ombre si stavano allungando, e accarezzavano quella pelle appena abbronzata donandole un aspetto etereo. Gli occhi verdi si alzarono su di lui.
«Voglio lavorare. Voglio poter fare qualcosa, Gyllahesh. Posso aiutare in cucina, imparare a muovermi per il giardino. Non voglio essere un peso.»
Lui represse il desiderio di abbracciarlo, e deglutì la commozione che gli aveva serrato la gola. Quel giovane uomo dalla vista precaria era colmo di orgoglio e impaziente di rendersi utile, malgrado le difficoltà. Lui aveva voluto prenderlo con sé per il debito di gratitudine che aveva con sua madre, ma si rese conto che non era la sola ragione. Per quanto uomo, e sottomesso al potere femminile, voleva dare una possibilità alla vita difficile che aveva avuto, benché Selia avesse cercato di non fargli mancare niente. Voleva vederlo felice. Voleva vederlo sorridere per illuminare la stanza.
«Non lo sarai. Ho già parlato con Myrrin, domani ti illustrerà le tue mansioni e ti aiuterà a orizzontarti nella casa e nel giardino. So che in questo sei bravo, una volta imparate le distanze, ti muoverai senza particolari problemi.»
Nabir annuì di nuovo, ma non rispose. Si guardò attorno, come se volesse oltrepassare il muro di ombra che gli velava gli occhi per osservare la stanza.
«Vuoi prendere confidenza con i tuoi spazi?» gli chiese Gyllahesh. «Puoi iniziare da qui a muoverti da solo.»
«Sì, grazie. Non voglio iniziare la mia nuova vita a Omira con dei lividi.»
Gyllahesh rise. «Certo che no. Io scendo. Quando vorrai, basta solo che ti affacci alla porta e chiami qualcuno. Le scale sono vicine, ma non voglio che ti avventuri da solo prima di esserti abituato.»
«D’accordo.» Nabir alzò lo sguardo, e lui ebbe la curiosa sensazione che lo vedesse. Il ragazzo sorrise, riempiendogli il cuore di emozione. «Grazie, Gyllahesh.»
Lui annuì, anche se l’altro non poteva accorgersene, così cercò di far uscire la voce. «Di niente, Nabir.»

8

Nabir non possedeva molto, a parte un cambio di abiti. Una volta misurate le distanze, toccato il cassettone e aperto l’armadio, aprì la piccola sacca che aveva portato con sé ed estrasse le brache e la casacca pesante che la sua sijiaaveva ripiegato e infilato nella sacca. Le depositò nel primo cassetto, ripromettendosi di tenersi sempre pulito e in ordine. Una piccola esplorazione sul ripiano del mobile basso rivelò un catino e una brocca, ora vuota. Avrebbe voluto lavarsi e togliersi di dosso la polvere del viaggio, ma avrebbe aspettato di incontrare Myrrin per chiedergli cosa doveva fare.
L’idea di vivere lì lo spaventava ancora: era solo, in una città sconosciuta, con persone che non conosceva. Cercò di trovare il coraggio, ripensando alle parole di Selia, quel mattino presto. Lo aveva abbracciato e gli aveva promesso che si sarebbero rivisti, prima di quanto pensasse. Lui ne dubitava, ma in quel momento era molto in collera, e aveva risposto alla sua sijia con un mugugno scontento, a nascondere la propria disperazione.
Ora, invece, in mezzo alla stanza che gli avevano assegnato, prese un respiro profondo, sforzandosi di scacciare dal petto timore e disagio. Lo avevano accolto amichevolmente, non lo avevano trattato come un essere inutile e ingombrante. Il lieve tocco di Gyllahesh, quando gli aveva sfiorato la mano, lo aveva riempito di calore. Forse quel cambiamento gli avrebbe fatto bene. Lo sperava, perlomeno.
Era ora di scendere, il silenzio stava diventando opprimente, e lui aveva bisogno di sentire la voce dell’uomo che l’aveva condotto a Omira. Con un sussulto di sorpresa, si rese conto che gli mancava. Dandosi dello stupido, si avvicinò alla porta e l’aprì.

***

Gyllahesh salì nella sua camera dopo aver parlato brevemente con Myrrin e gli altri uomini che mandavano avanti la casa. La loro perplessità nell’apprendere che il giovane Nabir avrebbe vissuto con loro era scemata dopo avere appreso di come il ragazzo fosse stato allevato dalla nonna, della sua vista che peggiorava giorno dopo giorno. Aveva letto nei loro occhi la pietà e la comprensione, sperando che non manifestassero apertamente a Nabir quei sentimenti. Sapeva, benché lo conoscesse così poco, che lui non ne sarebbe stato felice.
Si lavò con l’acqua della brocca che si era portato appresso: avrebbe avuto bisogno di un bagno, ma le notizie correvano in fretta a Omira. Poco dopo il loro arrivo, era arrivato un messaggio da parte di una delle ma-dire dell’esercito, dove chiedeva – o meglio, ordinava– di rendersi disponibile per quel tardo pomeriggio. Solitamente, Gyllahesh non lavorava così: le sue giornate erano piuttosto piene, le donne che richiedevano i suoi servigi potevano aspettare anche qualche giorno, ma, essendo partito in fretta dalla capitale, non aveva avuto modo di avvertire nessuno.
Con un sospiro, sciolse i lacci del kitro e rimase nudo, passandosi la pezzuola umida sulla pelle. La ma-dira si sarebbe accontentata.
Il rumore della porta che si apriva lo fece sussultare, e incontrò lo sguardo spento di Nabir. Doveva aver sbagliato, cosa che comprese vedendolo sbattere le palpebre.
«Gyllahesh?»
«Sì.»
Il ragazzo girò la testa, come se cercasse di vedere attraverso la nebbia che gli velava la vista. «Non è la porta del corridoio.»
Lui sorrise. Non fece alcun gesto per coprirsi, l’altro non poteva vederlo. Eppure, il saperlo lì lo riempì di uno strano calore, riversandosi nell’inguine. Non adesso. Ma perché, poi? Nabir era comunque un maschio. Con un gesto seccato, Gyllahesh prese un telo e se lo drappeggiò sui fianchi, allontanandosi dal cassettone.
«No, Nabir. È la porta che comunica con la mia stanza. Vuoi che chiami qualcuno per aiutarti a scendere?» Si rese conto di avere usato le parole sbagliate, ma la stranezza della situazione lo confondeva. Nabir si irrigidì e fece un passo indietro.
«Me la caverò.» Alzò appena il mento, le narici allargate. Stava annusando? Non c’era che il profumo dell’essenza che aveva versato nel catino, insieme all’acqua. «Aspetti… aspetti qualcuno?»
Gyllahesh si rese conto che il ragazzo sapeva. Sapeva che il suo corpo stava reagendo, e non perché stesse aspettandoqualcuno. Non era solo il lieve profumo che aleggiava nell’aria, c’era dell’altro. Scacciò con forza quei pensieri, tanto bizzarri quanto innaturali. Non era come gli uomini Aldair che accompagnavano l’esercito. Lui era un Dikkral, e la natura dei Dikkral non comprendeva desiderare un uomo.
«Una ma-dira dell’esercito. Sarà qui tra poco. Un appuntamento con scarso preavviso, ma tant’è.» Cercò di ridere, ma il volto serio di Nabir lo fece desistere.
«Capisco. Perdona… l’intrusione. Cercherò Myrrin.» Il ragazzo sparì velocemente dietro la porta, chiudendola quasi con delicatezza.
Gyllahesh si passò una mano fra i capelli. Era stanco e non avrebbe voluto passare il resto del pomeriggio a compiacere una donna, ma era la sua arte, e non poteva permettere che lo sguardo deluso di un ragazzino che conosceva da due giorni disturbasse i suoi pensieri. Nemmeno se quel ragazzino accendeva un fuoco dentro di lui ogni volta che vi posava gli occhi.

***

Nabir si chiuse la porta alle spalle e vi si addossò. L’imbarazzo gli scaldava in modo sgradevole lo stomaco, dopo aver intravisto Gyllahesh con i suoi occhi deboli. Non era vestito, altrimenti si sarebbe accorto del colore degli abiti. E quel profumo… non solo dell’essenza che permeava l’aria, ma della sua pelle. Non poteva sbagliarsi, i suoi sensi erano così affinati da permettergli di percepire anche il più piccolo cambiamento. L’odore che gli aveva invaso le narici lo aveva fatto fremere, e scappare, prima di rendersi ridicolo. Gyllahesh doveva incontrare una donna, sottostare ai suoi desideri. E lui non era niente, sebbene per un istante avesse desiderato che quel profumo inebriante che si era levato nell’aria fosse dovuto alla sua presenza. Ma lui non era una donna, e ciò che sentiva era sbagliato. Luiera sbagliato.
Stringendo i pugni, frugò dentro di sé per trovare la forza di combattere qualsiasi cosa stesse nascendo. Ciò che provava doveva essere solo dovuto al fatto che Gyllahesh era l’unica persona che conoscesse in quella città sconosciuta. Doveva essere così, non c’erano altre spiegazioni.
Staccandosi dalla porta, sbattendo le palpebre nell’oscurità che stava scendendo veloce, Nabir trovò la maniglia dell’altra porta, quella che dava sul corridoio. Non avrebbe più sbagliato ad aprire degli usci, avrebbe imparato a muoversi con più disinvoltura, senza andare incontro a spiacevoli e imbarazzanti incontri.
Uscì nel corridoio, si chiuse la porta alle spalle e prese a camminare rasente il muro, finché non toccò il corrimano delle scale. Imparava in fretta, si disse, mentre scendeva un gradino alla volta verso l’atrio. Avrebbe trovato Myrrin e gli avrebbe parlato. E avrebbe cercato di scordare Gyllahesh e l’effetto che il suo profumo – e la sua voce e il suo calore–  aveva su di lui.

9

Nabir non ebbe modo di incontrare Gyllahesh, o stare anche solo qualche istante con lui, per quasi sette giorni. Il libero amante era stato impegnato. Non che lui avesse avuto il tempo di cercarlo per parlargli: Myrrin aveva fatto in modo che le sue giornate fossero piene. Lo trattava con gentilezza e gli aveva mostrato la villa e il giardino, dandogli il tempo di adattarsi agli spazi e imparare come muoversi. Nabir apprendeva in fretta, così come ebbe modo di dimostrare. La disposizione dei mobili, la lunghezza dei corridoi, le scale che portavano al piano superiore, il giardino con le sue aiuole e i sentieri che vi giravano attorno.
Sivar si occupava del giardino e gli aveva insegnato dove prendere gli attrezzi più piccoli per curarlo. Le mani di Nabir avevano sostituito i suoi occhi, nel riconoscere le erbacce e strapparle al posto dei fiori. Le foglie vellutate gli accarezzavano i polpastrelli, facendogli desiderare di vedere quel tripudio di colori: chissà se nella stagione del risveglio sarebbe stato ancora lì. Da un lato lo sperava. Dall’altro…
Sapeva quando arrivava un’ospite, Myrrin correva ad aprire il pesante portone all’ingresso, e lui, dalla cucina, udiva la voce femminile che chiedeva di Gyllahesh. Forse era una fortuna che l’uomo prendesse gli appuntamenti durante il giorno, e non di sera. Nabir non sapeva se avrebbe potuto resistere nell’udire i gemiti e i sospiri provenienti dalla stanza di Gyllahesh. A volte, di notte, lo udiva muoversi, e restava a fissare con gli occhi spalancati il soffitto avvolto nell’oscurità, finché il silenzio non era totale. Anche così, impiegava molto tempo per addormentarsi. Non avrebbe dovuto, ma si sentiva comunque abbandonato dall’uomo che lo aveva portato via da Charka. Un sentimento stupido e ingrato, ma non poteva evitare al suo cuore di stringersi ogni volta che sentiva annunciare una visita o rientrava in casa e Myrrin gli diceva di parlare a bassa voce.
Non erano solo i suoi occhi a essere sbagliati, era tutto il suo essere.

***

Gyllahesh era stanco. La passeggiata nel grande parco della città lo aveva lasciato spossato, dopo aver chiacchierato con altri liberi amanti ed essersi mostrato alle donne che scivolavano leggere tra le aiuole ben curate. Il freddo avanzava, ma questo non impediva a nobili e militari di dare un’occhiata ai maschi che comparivano davanti a loro. Molte avevano fermato Gyllahesh, salutandolo e guardandolo come se fosse una cosa rara e bellissima. Lo aveva letto nei loro occhi, il desiderio di averlo almeno per qualche tempo.
Entrando in casa, si chiese se avrebbe potuto dimenticare quella stessa, strana luce che aveva acceso gli occhi verdi di Nabir, il giorno del loro arrivo, quando era entrato per sbaglio nella sua stanza. Rivedendola nello sguardo delle donne incontrate, si era reso conto che era la stessa, sebbene inconsapevole, per quanto riguardava il ragazzo. Sperò che fosse inconsapevole.
Myrrin comparve da un corridoio laterale e gli venne incontro, prendendo dalle sue mani il pesante mantello che si era appena tolto.
«Avremo ospiti?» gli chiese l’uomo più anziano, ripiegando il mantello con cura.
«Oggi no.» Gyllahesh si sistemò i lunghi capelli, rimasti schiacciati sotto il collo del mantello. «Come va?»
«Come al solito.» Myrrin alzò gli occhi azzurri e acquosi su di lui. «Nabir sarà contento di poterti vedere almeno una volta. E io ho bisogno di parlarti.»
Gyllahesh aggrottò la fronte. «Di lui?» Il cenno di assenso dell’altro lo turbò. «Ci sono stati dei problemi?» Uscire presto e rientrare senza vedere il ragazzo sembrava diventata un’abitudine. Ringraziò gli dei che il ragazzo non avesse dovuto ascoltare il risultato degli incontri che avvenivano nella sua camera da letto, tutti i giorni, mattina o pomeriggio che fosse.
«Nessuno. Il ragazzo sarebbe l’orgoglio di chiunque. Sivar non fa che lodarlo per la sua bravura in giardino, e in cucina si dà da fare. Impara molto velocemente, e compensa i suoi occhi con le mani. Nabir è da ammirare, davvero.»
«Ne sono felice. Allora qual è il problema?»
Myrrin gli fece cenno di spostarsi verso la cucina, e lui lo seguì. Sembrava dovessero davvero parlare in privato, senza altre orecchie ad ascoltarli.
Chiusa la porta, Myrrin lo guardò.
«Nabir ha bisogno di vestiti. Si prende cura di se stesso, si tiene pulito e in ordine, ma ha un cambio soltanto, e con il freddo gli abiti fanno fatica ad asciugare.»
Gyllahesh fece un gesto con la mano. «Quindi vorresti che facessi qualcosa in merito.»
«Basterebbe della stoffa pesante, al resto penserei io. Il ragazzo è piccolo e magro, confezionargli delle brache e delle casacche sarebbe una cosa semplice e veloce. Niente di elaborato, ma almeno starebbe al caldo. Ora indossa i suoi vestiti ancora umidi, pur di mantenere il decoro.»
Il decoro…
Gyllahesh chiuse gli occhi per un istante. Non si era preoccupato di questo. Aveva dato un tetto e un lavoro al ragazzo, scordando che proveniva comunque da una famiglia povera.
«Hai ragione, Myrrin,» mormorò, aprendo gli occhi e incontrando lo sguardo del suo più fedele amico. «Domani c’è il mercato, lo porterò con me. Sono libero fino al pomeriggio.» Era sollievo quello che vedeva sul volto dell’uomo? Doveva esserci dell’altro. «Cosa c’è, Myrrin? Vedo che non è finita.»
L’altro prese un respiro, prima di rispondere. «Nabir ha chiesto se c’è un’altra stanza da occupare.»
«Un’altra stanza? Che cos’ha che non va la sua?»
L’imbarazzo colorì le guance pallide di Myrrin. Perché era imbarazzo, non poteva sbagliarsi.
«Credo che tema degli incontri… serali.» La voce si spense sull’ultima parola, ma lui capì.
«I miei incontri, vuoi dire? Sai benissimo che le notti sono solo mie.» Gyllahesh sentì un fremito di collera scaldargli lo stomaco. Cos’altro doveva presumere il ragazzino?
«Questo lo so, ma non sta a me decidere, Gyllahesh. Da quando è arrivato, te ne sei rimasto distante, e lui conosce soltanto te.»
«E tu? E gli altri?» ribatté lui, piccato.
«Non è la stessa cosa. E comunque, Sivar non fa che lodarlo, e così Rashin, ma sei tu quello a cui fa riferimento, e non ti ha visto né parlato per sette giorni. Cosa credi che possa pensare?»
«Non che l’abbia abbandonato, spero,» sbottò lui, irritato. Non era stato davvero così, gli impegni si erano susseguiti. Era pur vero, però, che la casa si svegliava presto, e che avrebbe avuto tutto il tempo di vederlo e scambiare due parole con Nabir, anche solo per chiedergli come stava, e non lo aveva fatto. Non lo aveva abbandonato. Lo aveva… ignorato. Il che forse era anche peggio, ma ricordava anche troppo bene l’espressione sul suo viso quando lo aveva visto nudo nella sua camera da letto. Intravisto era più corretto, ma non avrebbe potuto dimenticare il rossore sul suo viso e lo sbattere di quelle lunghe ciglia biondo scuro.
Myrrin scosse la testa. «Non credo lo pensi, ma-»
«Hai ragione,» lo interruppe. «Quando rientra gli parlerò, gli chiederò come sta. E domani lo porterò al mercato. È bene che veda dell’altra gente oltre a noi.»
L’altro annuì. «Mi sembra giusto.»
Gyllahesh si chiese se lo fosse davvero. Evitarlo per tutti quei giorni era servito a poco, ma il ragazzo aveva il diritto di sapere che non era meno importante degli altri uomini che vivevano nella villa. Che non era meno importante per lui. Anzi, forse lo era di più, ma questo non lo avrebbe mai saputo, né lui né altri.

10

Nabir era intirizzito dal freddo che era arrivato, inaspettato e in anticipo, ma non lo rendeva meno entusiasta del proprio lavoro. Aveva le mani sporche di terra e desiderava una bevanda calda, tuttavia aveva svolto tutti i compiti assegnatigli da Sivar. Le aiuole erano coperte, ora, e lo sarebbero state fino alla stagione del risveglio. Sivar gli aveva spiegato che avrebbero tolto le stoffe leggere prima che iniziasse, per dar modo alla terra di inumidirsi con le piogge tipiche di quel tempo e aiutare le piante a rinforzarsi. Il giardino interno era ben protetto, il gelo tardivo non avrebbe intaccato i cespugli.
Entrò in casa dalla porta di servizio, così da raggiungere la cucina e potersi lavare le mani e bere qualcosa di caldo. Myrrin teneva pronta sul focolare una pentola di acqua bollente che sarebbe servita allo scopo. Gli infusi sembravano essere la sua specialità.
Quando varcò l’uscio della cucina, si sentì avvolto da un calore gradito e da un profumo che non aveva niente a che fare con il cibo, e neanche con Myrrin. Conosceva quel profumo, così bene da sentirlo persino in sogno.
Vide la persona seduta al grande tavolo e si arrestò appena oltrepassata la porta, sorpreso e travolto da un’ondata di piacere, subito scacciata da una di fastidio. Dopo tutti quei giorni, sapere che Gyllahesh era lì lo disorientava.
«Buongiorno, Nabir.»
Lui respirò. Si impose di farlo. Sentire quella voce gli mandava brividi lungo la schiena che non avevano niente a che fare con il freddo.
«Buongiorno, Gyllahesh.» Sbatté le palpebre, ma l’ombra rimase quello che era. Un’ombra, che ora si stava muovendo.
«Hai finito fuori?»
Nabir annuì. «Devo lavarmi le mani e chiedere a Myrrin se ha bisogno di aiuto.» Sembrava una giustificazione alle sue stesse orecchie. Non poteva permettersi di riposare, Gyllahesh l’aveva accolto in casa e lui non aveva molti modi per ripagare quella generosità.
«Myrrin è impegnato da qualche parte. Vuoi mangiare o bere qualcosa? Credo abbia detto che era tutto pronto.»
Lui abbassò la testa. Aveva desiderato tanto vederlo, quanto lo aveva temuto. Era stato tenuto a distanza, malgrado le rassicurazioni di Myrrin sulle costanti assenze del libero amante dovute ai suoi numerosi impegni.
«Sì, io… Volevo bere un infuso, prima di continuare.»
Gyllahesh si mosse e si avvicinò al focolare, senza dire una parola. Solo quando sentì il rumore del metallo sul tavolo, Nabir si rese conto che lo aveva servito. Gyllahesh glielo confermò un istante dopo.
«Lavati le mani e riposati un po’. Mi dispiace aver dato l’impressione di averti abbandonato, ma sono stato molto preso in questo periodo.»
Nabir fece un cenno d’assenso. Su gambe rigide, si avvicinò alla vasca e strinse la mano intorno alla leva che faceva scorrere l’acqua. In silenzio, si lavò le mani, ripensando a quanto gli aveva detto il suo benefattore. Si stava forse giustificando anche lui? Si asciugò veloce e si girò per andare a sedersi al tavolo. Il profumo della rosa canina lo avvolse, facendogli dimenticare per un momento quello di Gyllahesh.
«Grazie, ma avrei potuto-»
«Non mi costa niente, Nabir, e mi fa piacere. Voglio solo che tu stia bene.»
Lui represse uno sbuffo. Non era nelle condizioni di mostrarsi irriconoscente, benché fosse stato proprio Gyllahesh a volerlo accogliere in casa, per onorare quel presunto debito nei confronti di sua madre. Sitra… Per un istante, Nabir si sentì mancare: non aveva pensato molto a lei, in quei giorni, occupato com’era a cercare di adattarsi alla nuova sistemazione. Il suo destino qual era stato? Era in pericolo? Era… morta? Il senso di vuoto che percepiva dentro di sé lo faceva sospettare di sì. Se fosse stata ancora viva, e nascosta, avrebbe cercato in tutti i modi di mettersi in contatto con lui. Oppure no, per non accrescere il pericolo.
«Lo so, e te ne sono grato, per tutto quello che hai fatto per me. Non molti si sarebbero presi in casa una persona di cui non sapevano niente.»
Gyllahesh rise piano. «Oh, ma io ti conoscevo, attraverso le parole di Sitra. Mi aveva raccontato di te, di Selia. Non mi aveva detto molto, soprattutto dei tuoi occhi, ma qualcosa sì. È per questo che sono giunto al villaggio.»
Nabir strinse le mani intorno alla tazza di metallo, il calore che faceva scorrere il sangue più veloce. «Quindi tu sapevi che lei-» Si interruppe. Dirlo avrebbe potuto sembrare offensivo, ma Gyllahesh era un libero amante, qualunque donna che avrebbe potuto permetterselo avrebbe potuto richiedere i suoi servigi. Così come parlare dopo l’amplesso. Lo aveva sentito, quando la sua sijial’aveva interrogato, il giorno che era giunto da loro. Aveva capito che ciò che sapeva l’uomo lo doveva a una delle guerriere che sua madre detestava.
«Che lei?»
«Che lei era morta?» finì, alzando la testa.
Il volto dell’uomo sedutogli di fronte era bianco, velato dalla nebbia che gli ricopriva gli occhi. La macchia scura dei suoi capelli era un piacevole diversivo a quel candore inquietante che lo accompagnava giorno dopo giorno. La sua vista peggiorava sempre di più, se ne rendeva conto, ma non poteva farci niente, se non rassegnarsi all’inevitabile.
«No, benché speri che non sia così. Non so cosa sia successo, a chi si sia rivolta o chi l’abbia assoldata, ma non è niente di buono.»
«Lo so. Quando le guardie sono arrivate…» Nabir strinse le labbra, sentendo la familiare stretta al cuore, accompagnata dal groppo alla gola. Chinò la testa, trasse un respiro profondo e continuò. «Quando le guardie sono arrivate, ho capito che non l’avrei più rivista.» Rise della propria battuta, in maniera aspra e per niente piacevole, ma stava rischiando di scoppiare a piangere, e non voleva umiliarsi di fronte a Gyllahesh. Già la sua virilità era compromessa dall’aspetto che la Madre Alcheria gli aveva donato, se avesse dato un’ulteriore prova di debolezza si sarebbe sentito morire.
«Mi dispiace tanto, Nabir.»
«Di cosa? Non è colpa tua. Posso solo ringraziarti per avermi permesso di vivere qui, senza continuare a essere un peso per la mia sijia.» Bevve l’ultimo sorso della bevanda, ormai tiepida, e si alzò. «Devo cercare Myrrin.»
«Puoi farlo dopo.» Gyllahesh si alzò con lui. «C’era un’altra cosa che volevo dirti: domani verrai al mercato con me. Devo acquistare delle stoffe, e c’è una mercante che proviene da sud, dalla mia regione di origine, che ne ha di splendide. Vorrei poterti far vedere la città, ma temo che potrai solo ascoltare. Almeno sarà un piccolo cambiamento.»
Avrebbe dovuto rifiutare? Nabir se lo chiese. Gyllahesh aveva già deciso per lui, e un fremito di terrore lo attraversò. Temeva la gente, il suo giudizio, soprattutto quando si accorgeva della sua inferiorità. Era un uomo senza averne l’aspetto, ed era quasi cieco. Un essere del tutto inutile.
«È un ordine?» chiese a denti stretti, sforzandosi di non far trasparire il disagio.
«Un ordine? Certo che no. Volevo solo farti uscire di casa per un po’. Myrrin mi ha detto che hai lavorato molto in questi giorni, ti meriti una pausa.»
Come avrebbe voluto vederlo, in quel momento. Scorgere la sincerità nei suoi occhi, che andasse a confermare quella che udiva nella sua voce. Avrebbe voluto vederlo… e non solo per quello. Il calore lo investì, e Nabir benedisse il fatto che i calzoni fossero larghi a sufficienza da nascondere una parte del suo corpo che sarebbe stato imbarazzante mostrare. Era già imbarazzante quando, al mattino presto, si svegliava dopo un sogno sull’uomo che gli stava di fronte, a cui il suo corpo reagiva in maniera del tutto inappropriata.
«Io… va bene, allora. Sono curioso di vedere – ascoltare– la città. E il mercato.»
Il sorriso nella voce di Gyllahesh lo riscaldò ancora di più. «Ne sono felice. Vai a cercare Myrrin, forse oggi potremo pranzare tutti insieme.»
La sorpresa lo rallegrò, più di quanto pensasse. Non era mai successo, negli ultimi tempi, che si ritrovassero insieme. Quel giorno doveva essere un regalo della Madre Alcheria… o il preludio gioioso prima di giorni tristi. Nabir sperò di no.

11

Nabir guardava, e Gyllahesh guardava lui. Vedendo il sorriso spuntare sul suo volto, sembrava quasi che riuscisse a vedere quello che li circondava. Era più probabile che invece ascoltasse il vociare intorno a loro, le donne e gli uomini che affollavano la piazza, passando da una bancarella all’altra. Non avevano ancora raggiunto quella della mercante a cui lui aveva accennato il giorno prima, voleva far fare al ragazzo una passeggiata tra la gente per fargli conoscere la vita al di fuori della villa.
Una vita un po’ diversa, non concentrata solo su stanze e un giardino. Il pomeriggio precedente, libero da impegni, Gyllahesh l’aveva passato tra le aiuole, ad ascoltare un entusiasta e giustamente orgoglioso Nabir raccontare come Sivar gli avesse insegnato a riconoscere le piante e gli arbusti e come fosse riuscito a curare la terra e a ricoprirla con i teli leggeri. Il ragazzo aveva poi smorzato i toni, forse pensando di essere troppo presuntuoso, come poi aveva detto, abbassando la testa mortificato, ma lui l’aveva tranquillizzato, lodandolo per il lavoro svolto. Myrrin aveva ragione: Nabir imparava in fretta, malgrado le difficoltà, più in fretta di tante altre persone. Un ragazzo coraggioso e determinato, e Gyllahesh lo aveva riconosciuto senza bisogno di altre rassicurazioni da parte degli altri occupanti della casa.
Guardandolo ora, il bellissimo viso illuminato dalla meraviglia, sentì un moto di affetto nei suoi confronti, e un caldo piacere al centro del petto. L’averlo portato via dal suo villaggio era stata un’idea giusta, dal suo punto di vista. Che fosse perché volesse tenerlo vicino a sé era invece qualcosa che non voleva analizzare, né considerare importante. Non poteva farlo. Nabir era comunque un uomo, malgrado le strane sensazioni che accendeva in lui.
Il grande banco della mercante del sud gli si parò davanti, e Gyllahesh strinse la mano di Nabir. Aveva avuto la tentazione di prenderla appena usciti dalla villa, dicendosi che era per non perderlo di vista, ma aveva resistito, accontentandosi di tenerlo vicino perché la folla non lo dividesse da lui. Ora invece lo fece fermare, sorridendo anche se il ragazzo non poteva vederlo.
«Ecco Oneta.»
Nabir si fermò, senza sfilare la mano dalla sua stretta. «La mercante?»
«Proprio lei.» Gyllahesh si avvicinò al tavolo ricoperto da una miriade di stoffe di tutti i colori, cercando lo sguardo della donna che si stava affaccendando al di là. «Buona giornata,» la salutò, quando la vide alzare lo sguardo su di lui. Sui cinquant’anni, Oneta affrontava il viaggio verso la capitale almeno due volte all’anno, prima della stagione fredda e dopo la stagione del risveglio, così da portare la sua mercanzia a Omira per poi dedicarsi solo ai villaggi intorno a Shoria.
«Gyllahesh. Felice di vederti.» Oneta gli rivolse un sorriso e poi il suo sguardo fu attirato da altro. Gyllahesh si accorse che osservava la sua mano intorno a quella più piccola di Nabir. Lui lasciò andare il ragazzo, andando a stringergli una spalla.
«Siamo qui per fare spese. E chi meglio di voi può accontentarci?»
Lei fece un cenno d’assenso. «Stai usando la tua arte per indurmi ad abbassare i prezzi, Gyllahesh?» C’era un tono divertito in quelle parole, che mitigava in parte il sospetto che le aveva scurito gli occhi chiari.
«Sapete benissimo che non lo farei mai. Avrei bisogno di stoffe calde per brache e casacche, e anche un mantello. So per certo che voi le avete.»
«E hai ragione.»
Gyllahesh spinse avanti Nabir con gentilezza. «Prova a toccare le stoffe, Nabir. Sentine la morbidezza.»
Il ragazzo ubbidì, allungando una mano e sfiorando il panno scuro che giaceva piegato sul tavolo. Accarezzò la stoffa, il volto concentrato e lo sguardo puntato sulla propria mano. Chissà se riusciva a vedere qualcosa.
Gyllahesh notò l’espressione sorpresa sul volto della mercante e alzò una spalla. Voleva dare una spiegazione, ma forse la donna c’era già arrivata senza bisogno che lui dicesse alcunché. Il viso di Oneta si addolcì, mentre faceva il giro del tavolo e si avvicinava a Nabir, toccandogli la spalla.
«I tuoi occhi non vedono?»
Il ragazzo alzò la testa a fissare un punto oltre la donna e fece una piccola smorfia. «Solo ombre. È un peccato non poter vedere questi bei colori.»
«È un peccato che questi begli occhi non vedano,» replicò Oneta, girandosi a guardare Gyllahesh, il quale fece un cenno, sperando che lei avesse capito che quella piccola mano stretta nella sua non era niente di compromettente, solo un modo per guidare Nabir attraverso la folla del mercato.
«Puoi toccare quanto vuoi, bel ragazzo. E scegliere.» Oneta si staccò da Nabir e si avvicinò a lui, guardandolo fisso. «Un tuo protetto?» chiese a bassa voce. «Lo stai addestrando? Perché dubito che un ragazzo così bello possa soddisfare qualcuno.» Gli diede un’occhiata eloquente.
Gyllahesh scosse la testa. Le donne erano attratte da uomini forti, attraenti e dotati di un fisico prestante, non certo da ragazzi minuti come Nabir.
«È orfano, figlio di un’amica. E come avete visto, i suoi occhi sono deboli. L’ho preso con me, aiuta in casa.»
«Molto generoso da parte tua. Davvero un peccato che non sia prestante quanto te, con quel viso e quegli occhi ci si potrebbe dimenticare che non vede.»
Gyllahesh gettò un’occhiata a Nabir, ancora alle prese con le stoffe. La Madre Alcheria doveva avere degli altri progetti per il ragazzo, senza dubbio. Quali, era ancora da vedere. Forse un’esistenza piatta, breve, come quella di tanti altri sfortunati che dovevano contare sul lavoro delle proprie mani per vivere.
«Forse,» disse alla fine. «Voglio solo che stia bene.» Ignorò lo sguardo sorpreso della donna, e il calore nel proprio petto.

***

Quando Nabir aveva capito che la stoffa acquistata era per lui, aveva tentato di protestare, di rifiutare, e c’era voluta tutta la pazienza di Gyllahesh per fargli capire che non c’era niente di male ad accettare un compenso di quel tipo. Oltretutto, il freddo si stava avvicinando e lui aveva bisogno di abiti caldi. Nabir aveva capitolato, e ora camminava accanto a lui con la stoffa stretta al petto, come se fosse un regalo prezioso.
Gyllahesh ogni tanto lo guardava, per assicurarsi di non perderlo, e sorrideva vedendo il bel viso del ragazzo rilassato in un’espressione quasi felice. Non dubitava che il piccolo sotterfugio lo avesse adirato, per un momento, ma il momento era passato, e ora rimaneva solo il piccolo piacere che era riuscito a donargli.
Voglio solo che stia bene…
Quelle parole continuavano a tornargli in mente. Non aveva mai pensato in quei termini a un’altra persona, mai gli era importato tanto di qualcuno da volere il suo bene. Non in un posto come Endora. Nessuna donna gli era mai stata così vicina da fargli credere di poter creare un Legame, e con nessuna donna aveva mai provato quei sentimenti che ora gli affollavano la mente e il petto. Era curioso, e al contempo terribile, che la vicinanza di un altro uomo lo gettasse nella confusione, lui che aveva sempre vissuto per la sua arte e per il piacere che poteva donare. Per sé non aveva chiesto poi molto, tutto ciò che aveva se lo era guadagnato giacendo con più donne di quante potesse contarne. E ora quel ragazzo, quello scricciolo d’uomo che gli camminava al fianco, bello come un sogno ma inequivocabilmente maschio, gli faceva provare dei sentimenti che non erano soltanto inappropriati, ma anche del tutto disprezzati.
Lo stargli vicino aveva ravvivato quella piccola fiamma che aveva cominciato ad ardergli nel petto nello stesso momento in cui lo aveva visto, solo pochi giorni prima, in piedi in mezzo alla piccola stanza di una casupola nel bosco, e che aveva tentato in tutti i modi di spegnere.
«Grazie, Gyllahesh.» Era l’ennesima volta che Nabir apriva la bocca per ringraziarlo, e la cosa cominciò a dargli fastidio.
«Basta, Nabir. Non devi continuare a ringraziarmi. Se vuoi farlo, allora rivolgiti a Myrrin. È lui che ha suggerito di prendere della stoffa per farne degli abiti più pesanti.»
Il ragazzo alzò la testa, una smorfia sul volto, e Gyllahesh si accorse di aver usato un tono più seccato di quanto intendesse. Ma era infastidito, soprattutto da ciò che provava e che doveva cancellare quanto prima. Nabir tornò a guardare davanti a sé e si allontanò un poco, stringendo al petto gli acquisti come a farne uno scudo. Le sue parole dure dovevano essere giunte più a fondo del previsto, e questo lo indispettì, perché il dispiacere di averlo fatto minacciava di farlo fermare e abbracciare il ragazzo lì, in mezzo alla gente. Voleva comunque farsi perdonare, e stava per toccargli la spalla e riavvicinarlo a sé, quando vide l’uomo che camminava verso di loro.
«Onorabile Yadosh.» Si fermò e chinò la testa, mentre l’altro uomo si fermava a pochi passi da lui. Non poteva evitarlo, e passare oltre senza fermarsi poteva essere considerato uno sgarbo.
«Che sorpresa. È da molto che non ci vediamo, Gyllahesh.» Yadosh si fermò di fronte a loro, e Gyllahesh fu lesto ad afferrare il braccio di Nabir che non si era probabilmente accorto di niente.
«Come state? E come sta la piccola Nhavi?»
«Una ferita profonda, ma non così grave come si pensava all’inizio. Grazie di averlo chiesto. Immagino che le notizie siano corse in fretta in città.» L’uomo lo guardava con un vago sospetto negli occhi.
Gyllahesh annuì. Non voleva fargli sapere come lo aveva scoperto. Inoltre, il figlio della colpevole del ferimento era al suo fianco. Yadosh lasciò il suo volto per posare lo sguardo sul ragazzo. Avrebbe dovuto presentarlo, e lo fece, stringendo la mano sulla spalla di Nabir.
«Questo è Nabir. È il… nipote di una esploratrice dell’esercito a riposo.» Sperò che l’esitazione fosse sfuggita a Yadosh, che fece un cenno col capo.
«Un orfano?» chiese l’altro.
Nabir alzò la testa di scatto, ma ebbe il buonsenso di non emettere un suono.
«Sì,» rispose Gyllahesh.
«E abita con te?»
«Gyllahesh mi ha offerto un tetto e un lavoro,» mormorò Nabir, senza essere interpellato. Era la verità, e Yadosh sorrise.
«Un uomo generoso, senza dubbio.»
«Questi è l’onorabile Yadosh, Siniscalco dell’Ordine della Felce, Nabir,» mormorò Gyllahesh. «Ed è il marito di Rainna, la Custode dei Confini.» L’espressione sul volto di Nabir si fece quasi spaventata, e lui tentò di tranquillizzarlo, stringendogli la spalla, prima di rivolgersi all’unico uomo che poteva vantare un ruolo di prestigio all’interno della loro società. «Nabir vede solo ombre, Venerabile, ma impara in fretta ed è un gran lavoratore.»
«Capisco.» Di nuovo Yadosh guardò da lui a Nabir, il volto inespressivo.
Gyllahesh non lo conosceva così bene, ma sapeva quanto fosse potente. Se avesse sospettato qualcosa, o saputo qualcosa…
«Vi auguro una buona passeggiata.» L’uomo accennò un saluto e proseguì per la sua strada, lasciandoli soli in mezzo alla folla.
«Gyllahesh, è successo qualcosa?»
Lui abbassò lo sguardo e incrociò quello degli occhi verdi. «No, Nabir. Cosa te lo fa credere?»
«Pensavo… Non sembrava un buon incontro.»
«Invece lo era. Solo, non mi aspettavo di vedere quell’uomo al mercato, senza una scorta.» Si guardò attorno, e poi si guardò alle spalle, l’alta figura di Yadosh che si allontanava. Invece una scorta doveva averla: Gyllahesh incontrò due occhi scuri e duri, che lo fissavano oltre un gruppo di persone. Era la comandante del drappello che era giunto al villaggio di Nabir.
Un subitaneo groppo alla gola gli fece capire che lo aveva visto, e che aveva riconosciuto Nabir. Gyllahesh prese un respiro e sospinse il ragazzo.
«Andiamo a casa.»
Gli occhi della donna non li abbandonarono nemmeno per un istante, mentre attraversavano il mercato.

12

Gyllahesh cercò di dimenticare l’incontro avvenuto al mattino. Quel pomeriggio era previsto un appuntamento importante con una delle dame della Regina, e la donna aveva aspettato diversi giorni per poterlo avere. Lui era richiesto, e lei era stata fin troppo paziente.
Dopo il pranzo, si era ritirato per prepararsi e quando la dama fu annunciata, Gyllahesh scese ad accoglierla nell’atrio. Myrrin teneva fra le mani la pregiata cappa di pelliccia che lei gli aveva lasciato e chinò il capo quando lo vide. Dalla luce che le brillava negli occhi, Gyllahesh fu sicuro che sarebbe stato un pomeriggio lungo. Mentre le offriva il braccio per accompagnarla al piano superiore, rispondendo a una sciocchezza che la donna aveva appena detto riguardo un argomento che a lui non interessava per niente, si accorse di Nabir, fermo in piedi all’inizio del corridoio che portava verso la parte posteriore della casa. Sul viso del ragazzo era dipinto qualcosa che gli fece fremere lo stomaco e gli causò una punta di irritazione.
C’era infelicità in quegli occhi verdi, e rassegnazione. Degli strani sentimenti, a ben guardare, considerato che, per Nabir, lui non era niente, se non un benefattore.
Fu quello che si disse salendo le scale, sforzandosi di concentrare la propria attenzione sulla dama. Fu quello che cercò di cancellare dalla propria mente mentre le donava piacere.
Nonostante i gemiti e le grida di soddisfazione della donna, però, non riuscì a dimenticare gli occhi tristi di Nabir, per quanto ci provasse.
Come se gli avesse fatto un torto, malgrado fosse certo di essere innocente su questo. Nonostante il suo corpo riuscisse a rilassarsi nel godimento a sua volta, il proprio piacere fu macchiato dal pensiero di aver tradito in qualche modo il suo giovane protetto. Come, non sapeva, ma la sensazione non lo abbandonò.

***

La cucina era abbastanza lontana dalle altre stanze per evitargli di udire i gemiti provenienti dal piano superiore. Nonostante questo, Nabir si sentì pervadere dal nervosismo per buona parte del pomeriggio. Non aveva visto la donna che aveva appuntamento con Gyllahesh, a parte la macchia rossa del suo abito, ma sapere che lei avrebbe avuto tutta l’attenzione del libero amante lo riempiva di furia e amarezza. Non capiva perché dovesse sentirsi così, ma quei sentimenti erano lì, sotto la pelle, pronti ad affiorare, e non voleva assolutamente mostrarsi infantile e ingrato per qualcosa su cui non aveva il minimo controllo.
Gyllahesh era un libero amante, uno dei più richiesti, e la sua arte era la sua vita, malgrado l’idea di dover dar via il proprio corpo per il piacere di un’altra persona ripugnasse Nabir. Riconosceva di essere ingiusto e sciocco, in quella sua valutazione, dettata più dal fastidio di non poter avere vicino l’uomo, come era stato al mattino, ma non poteva farne a meno. Non aveva idea del perché dovesse sentirsi così, ma il suo cuore soffriva.
Myrrin l’aveva distratto per un po’, prendendogli le misure per gli abiti nuovi. Sarebbero stati semplici, come si conveniva a una persona che non possedeva poi molto, ma il calore della stoffa e la loro comodità più che sufficiente. Quello era un dono di Gyllahesh, e Nabir lo avrebbe tenuto caro.

***

Era ormai sera, quando la dama si ritenne abbastanza soddisfatta e decise di andarsene, facendosi promettere un altro appuntamento a breve.
Gyllahesh la accompagnò nell’atrio, dove il suo fidato Myrrin l’attendeva con il mantello. Lui aveva indossato solo una veste da camera, e la guardò uscire dal portone d’ingresso con una punta di sollievo. Soddisfarla era stata un’impresa: quella donna sembrava non averne mai abbastanza di lui.
Si guardò attorno, ma di Nabir non c’era traccia, e fu un altro motivo per sentirsi sollevato. Non si vergognava della propria arte, né aveva motivo per farlo, ma la luce ferita negli occhi del ragazzo lo tormentava, benché sapesse che per lui era solo un’ombra fra le tante che popolavano la sua vista.
Sospirò, stringendosi nella seta della veste. Un bagno caldo sarebbe stato il benvenuto, soprattutto per togliersi di dosso il profumo che la donna usava in abbondanza. Se ne sentiva ricoperto, e quell’odore dolce lo stava nauseando.
«Puoi preparare la vasca, Myrrin? Poi potremo cenare.»
«Porto su l’acqua, Gyllahesh. Abbiamo già cenato, Nabir mi sta aiutando a sistemare la cucina. Gli altri si sono già ritirati.»
Avrebbe dovuto saperlo. Era comunque tardi, ma gli sarebbe piaciuto mangiare e scambiare quattro chiacchiere con gli uomini. Avrebbe dovuto accontentarsi, così sorrise brevemente per far comprendere al suo infaticabile amico che aveva capito. Myrrin gli sorrise in risposta, girandosi poi per dirigersi verso la cucina. L’acqua era sempre pronta sul focolare, e Gyllahesh pregustò il bagno che avrebbe fatto di lì a poco. Salì nella sua stanza e, poco dopo, Myrrin entrò con un grosso pentolone, il cui contenuto andò a versare nella tinozza nell’angolo. Avrebbe dovuto fare più viaggi, ma a lui non sembrava pesare e Gyllahesh andò a versare dei sali profumati e preziosi che custodiva con cura, provenienti dal sud, dalla sua regione di origine. Sali che odoravano dei posti in cui era cresciuto e che lo aiutavano a riconciliarsi con il mondo.
Dopo altri due viaggi, il sua anziano amico sembrava però affaticato, e Gyllahesh gli disse di fermarsi. La vasca era abbastanza piena e il vapore si sollevava dalla superficie in volute sinuose. Quando si immerse in quel calore profumato, il sospiro che gli uscì dalle labbra era di pura soddisfazione.
Si passò le mani sulle braccia e sulle spalle, portando con sé acqua che ormai scorreva in piccoli rivoli sulla sua pelle. Era un sollievo dolce, dopo l’intenso pomeriggio. L’odore dei sali presto avrebbe soppiantato quello della dama. Con un sospiro, Gyllahesh si spostò all’indietro per appoggiare la testa sul bordo e chiuse gli occhi. La donna l’aveva pagato profumatamente, ritenendosi molto compiaciuta dalle sue attenzioni. Era questo che faceva di lui un libero amante così richiesto: la capacità di mettersi al servizio nel modo più totale, facendo delle donne che reclamavano la sua arte il centro del suo mondo, seppur per un periodo breve.
Si sollevò, spostandosi i capelli per non bagnarli eccessivamente. La sua folta chioma scura avrebbe dovuto aspettare l’indomani mattina per essere lavata, con quel freddo non era salutare lasciare i capelli bagnati. Fece per alzarsi in piedi, quando un colpo alla porta preannunciò l’arrivo di qualcuno: con sua sorpresa, era Nabir, che entrò nella stanza reggendo il grosso pentolone.
Gyllahesh si erse all’interno della tinozza, prendendo il telo che aveva posato sulla sedia accanto e avvolgendoselo attorno.
«Nabir, ho finito. Non c’era bisogno di altra acqua.»
Il ragazzo si arrestò di colpo, facendo ondeggiare la pentola e fuoriuscire una piccola ondata di liquido. Gyllahesh sbarrò gli occhi: l’acqua doveva essere bollente, se gli fosse caduta addosso…
«Volevo aiutare Myrrin. Lui mi aveva detto che la tinozza non era del tutto piena.»
Preoccupato che potesse scottarsi, l’uomo uscì, inondando il pavimento, e raggiunse il giovane ancora fermo sulla soglia.
«Aspetta, questo lo prendo io.» Strinse le mani sui manici, sfiorando le piccole mani arrossate del ragazzo e sfilò il pentolone da quella presa ferrea, andandolo a posare sul tappeto di fianco alla tinozza.
«Potevo farcela benissimo,» sbottò Nabir, quando lui si rialzò. «La mia sijiasi è sempre fidata di me.»
«Non ne dubito, ma a casa tua non c’erano scale da fare. E comunque avevo già detto a Myrrin che non serviva altra acqua.»
Il ragazzo abbassò lo sguardo e, per un istante, Gyllahesh si chiese se fosse sfuggito al controllo di Myrrin per poter giungere a lui. Per quale motivo, poi? Scosse la testa per scacciare il sospetto: non poteva essere così diffidente, non nei confronti di quel ragazzo.
«Volevo soltanto aiutare, e Myrrin sembrava stanco.» La voce esile aveva una traccia tremula, che lo intenerì suo malgrado, nonostante cercasse di mantenere un controllo fermo sulle proprie emozioni.
Gyllahesh sospirò. «D’accordo, non ti preoccupare. Non volevo rimproverarti, temevo soltanto che potessi scottarti.»
Nabir alzò appena la testa e fece un cenno d’assenso, senza tuttavia rispondere, e lui sorrise.
«Sei diventato molto bravo a muoverti per la casa. Non è da tutti salire con quel peso e senza vederci bene.» Era un complimento che fece arrossire il ragazzo. Gli vide spuntare sulle guance pallide un’adorabile sfumatura rosea, che lo intrigò più di quanto credesse possibile.
«Grazie,» sussurrò Nabir.
Lui fece un cenno, ricordandosi solo dopo che l’altro non poteva vederlo. «Di niente.»
«Posso fare qualcos’altro? Myrrin è andato a coricarsi.»
Gyllahesh si strinse il telo attorno al corpo. La vicinanza di Nabir gli stava causando dei problemi e, anche se non poteva vederlo, non voleva che il ragazzo capisse qualcosa e se ne risentisse.
«No. Vai pure a dormire. Io mangerò qualcosa e andrò a letto.»
«Posso portarti su la cena. Myrrin l’aveva messa a scaldare.» Gli occhi verdi brillavano quasi, mentre il viso alzato verso di lui esprimeva il suo desiderio di compiacerlo. Non poteva permetterglielo, ne andava della propria mente.
«Ho già detto che sono a posto, Nabir. Non sei il mio servo, posso fare da me.»
Era stato troppo brusco: lo vide riflesso sul viso del giovane, il cui splendore si offuscò fino a scomparire, lasciando solo un’ombra cupa. In un modo o nell’altro, era riuscito a scuoterlo e a mortificarlo. Era già pentito, quando le spalle magre si afflosciarono e Nabir si girò per andarsene, senza proferire una sola parola.
Gyllahesh lottò con se stesso, ma non poté impedirsi di avanzare velocemente verso quella schiena rigida che stava per uscire. Lo afferrò per le spalle e lo girò, forse con troppo impeto. Il ragazzo gli finì contro il petto e il suo ansito sorpreso gli riversò un brivido sulla pelle raggiunta dal  respiro caldo. Brivido che si intensificò quando Nabir alzò la testa di scatto, le mani appoggiate al suo petto per non cadere. Non lo avrebbe fatto cadere, se avesse avuto voce in capitolo, si disse Gyllahesh, affondando lo sguardo negli occhi verdi come pietre preziose.
Il ragazzo socchiuse le labbra piene e rosee, forse per dire qualcosa, ma qualsiasi parola stesse per uscire fu bloccata dalla sua bocca. Gyllahesh non aveva pensato, aveva soltanto lasciato fare al proprio istinto. E ora stava baciando un uomo, riversando in quell’incontro di labbra e calore tutta la passione che molte volte aveva trattenuto nei suoi incontri con le donne. Raramente baciava le amanti, e di sicuro non aveva mai sentito quell’emozione espandersi all’interno del suo torace.
Braccia esili, ma dotate di muscoli tonici, gli circondarono il collo e il torace magro di Nabir, coperto dalla casacca ruvida, aderì al suo petto nudo. Il ragazzo stava rispondendo al suo bacio e, nella follia in cui era caduto, Gyllahesh lasciò che la lussuria prendesse il sopravvento. Passò la punta della lingua sulle labbra calde così generosamente offerte e andò a toccare quella dell’altro, in un bacio che non aveva niente di puro, ma tutto di peccaminoso. Un bacio che nessun uomo di Endora si sarebbe mai sognato di dare a qualcuno del proprio sesso.
Fu proprio quel pensiero sfuggente a farlo tornare in sé: quello e un gemito di puro piacere che uscì dalla gola del ragazzo che stringeva tra le braccia. Gyllahesh si sollevò di scatto, liberando il corpo sottile dalla sua stretta, e balbettando una scusa per quell’azione sconsiderata.
Nabir sbatté le palpebre, le labbra molto più rosse e invitanti di prima.
«Gyllahesh, io… Io…»
«Va’ a dormire, Nabir,» riuscì a dire lui. Ansimava come se avesse corso. Si passò una mano tra i capelli, scoprendo che tremava. Quando il giovane fece per parlare, scosse la testa, incurante del fatto che non potesse vederlo con chiarezza. «Non so cosa mi sia preso. È meglio per tutti e due se dimentichiamo questa… cosa.»
Il ragazzo sussultò come se lo avesse colpito. «Ma io-»
«Va’ a dormire,» ripeté lui, interrompendolo. «E domani sarà come se non fosse mai avvenuto niente.»
Nabir si irrigidì, il volto improvvisamente pallido. Gyllahesh temette che stesse per scoppiare in lacrime, ma l’altro fece un cenno col capo.
«Certo, hai ragione. Domani non sarà avvenuto niente.» Indietreggiò fino a uscire sul corridoio, senza abbassare lo sguardo, dandogli l’impressione che lo vedesse. «Buonanotte.»
Il saluto non sembrava affatto di buon auspicio. Gyllahesh lo vide scomparire nella penombra, il cuore che ancora galoppava in mezzo al petto. Non sarebbe stata una notte serena, non dopo aver provato quella emozione dirompente, e così sbagliata.
Chiuse lentamente la porta, addossandosi a essa. Il suo corpo non aveva smesso di reagire, non era stato bloccato dalla consapevolezza di aver fatto un errore di giudizio. Il suo corpo – e il suo cuore– avevano voluto quell’errore. Lui pregò per non ripeterlo.

13

Nabir era sconvolto, eccitato e disperato. Si chiuse dentro la propria stanza e, senza neanche spogliarsi, si infilò sotto le coperte e si rannicchiò su un fianco, stringendo i pugni per impedirsi di piangere. Temeva che i singhiozzi che minacciavano di erompere fuori del proprio torace sarebbero stati uditi da Gyllahesh, e non voleva che l’uomo lo sentisse.
Non aveva mai baciato nessuno, nessuna donna gli si era mai avvicinata in quel modo. Vivere ai margini della foresta lo aveva tenuto lontano da quel genere di approccio, sebbene la sua sijialo avesse reso edotto su quanto poteva succedere tra un uomo e una donna. Ma nel loro mondo non c’era posto per dei sentimenti: gli uomini che erano stati toccati dalla mano della grande Madre Alcheria potevano usare le loro doti per ottenere un posto nella società. Gli altri, meno fortunati, potevano contare solo sulle loro capacità di lavoratori, contando a volte su delle unioni con le mercanti o le donne del ceto basso. E poi c’erano quelli come lui, che avevano una possibilità solo se alle spalle c’era qualcuno che poteva proteggerli: in caso contrario, il destino non era clemente.
Sbattendo le palpebre nel buio, Nabir lasciò finalmente che lacrime silenziose gli rigassero le guance. Emozioni come quelle che lo avevano travolto durante il bacio erano disprezzate e segnate già in partenza: lui stesso si considerava sbagliato da tutti i punti di vista. Provare qualcosa per un uomo poteva renderlo un emarginato, e nelle sue condizioni avrebbe significato morire. La sua sijiagli aveva parlato delle usanze del Ducato di Odi, degli uomini Aldair, la cui natura ambivalente era la normalità, ma a Endora, dove il potere delle donne travalicava ogni minimo desiderio di cambiamento, era considerato innaturale, e per questo disprezzato.
Non sapeva quando i sentimenti che gli si agitavano nel petto fossero venuti alla luce. Non sapeva perché ciò che provava per Gyllahesh non avesse niente a che fare con la gratitudine, e tutto con il desiderio. Da quando aveva udito la sua voce, non c’era stato spazio per altro, nella sua mente.
Non erano solo i suoi occhi a essere malati. Forse avrebbe dovuto fuggire, andare a Odi e farsi accogliere in quel Ducato. Il solo pensiero era assurdo, ma gli consentì di calmarsi e asciugare le lacrime. Non si sarebbe più avvicinato a Gyllahesh, avrebbe tenuto per sé quello che provava per quell’uomo che tanto stava facendo per lui. Anche se avrebbe sofferto.

14

Il sole non era ancora sorto, quando Nabir uscì da sotto le coperte, ancora con i vestiti addosso. Alla fine si era addormentato, dormendo per fortuna un sonno senza sogni. Sentiva la pelle delle guance tirare, laddove le lacrime si erano asciugate, e usò l’acqua gelida della brocca per lavarsi il viso e cercare di svegliarsi.
L’episodio della sera prima era più vivo che mai, nella sua testa, e sperò di sfuggire alla vista di Gyllahesh per non morire di imbarazzo. E dolore. I sentimenti che provava potevano anche essere sbagliati, ma albergavano nel suo cuore e lo sforzo per cancellarli era davvero immane.
Scese da basso, raggiungendo la cucina e trovandovi Myrrin già alle prese con la colazione.
«Buongiorno,» lo salutò questi, non appena mise piede nel locale.
«Buongiorno.» Nabir sbatté le palpebre. «Posso fare qualcosa?»
«Solo prendere i piatti.» Myrrin appoggiò qualunque cosa avesse in mano – forse una pentola, a giudicare dal rumore – e gli si avvicinò. «Stai bene? Hai una faccia terribile.»
Nabir si schernì. «Sì, tutto bene. Devo aver dormito troppo.»
«Non si direbbe. Sei pallido, ragazzo.» Myrrin si allontanò. «Hai bisogno di mangiare. Siediti, gli altri arriveranno tra poco, ma intanto puoi già iniziare.»
Lui non ribatté e obbedì. Non serviva a niente protestare con l’uomo più anziano. Scostò una sedia e si era appena accomodato, quando il rumore lo fece sussultare. Qualcuno stava bussando al portone d’ingresso, o forse stava cercando di buttarlo giù, a giudicare dalla forza dei colpi.
«È l’alba. Chi mai può essere?» La voce di Myrrin era venata di sorpresa e anche di un lieve timore. Nabir lo percepì chiaramente e si alzò, ma l’altro gli passò accanto, stringendogli la spalla. «Rimani qui, vado a vedere.»
I colpi si susseguirono, seguiti da grida che lui non riusciva a distinguere. Un brivido di paura assolutamente inaspettata e che non avrebbe avuto ragione di provare gli scivolò lungo la schiena: stava per succedere qualcosa, se lo sentiva. Il presentimento che riguardasse lui lo attraversò di colpo, insieme al ricordo del giorno prima, quando avevano incontrato quell’uomo al mercato.
Nabir strinse i pugni, le voci che aumentavano di volume ora che Myrrin aveva aperto il portone. Su gambe diventate improvvisamente rigide, raggiunse la soglia della cucina, udendo lo strepitio e il rumoreggiare di numerosi stivali. Le voci femminili sembravano alterate, e stavano intimando a Myrrin di farsi da parte.
Con la gola secca e chiusa dall’angoscia, Nabir uscì nel corridoio che portava all’atrio, lo schiamazzo che lo accoglieva. Non riuscì a fare un altro passo: le ombre davanti ai suoi occhi aumentarono, ondeggiando.
«Nabir! Ti avevo detto di rimanere in cucina!» Myrrin sembrava agitato, e lo contagiò, facendolo quasi incespicare, quando una voce gelida lo investì e lo immobilizzò.
«Eccolo, è lui. Prendetelo.»
Un turbinio lo avvolse, insieme a mani che lo afferrarono in maniera tutt’altro che gentile. Le donne attorno a lui strinsero le dita sulle sue braccia, strattonandolo e tirandolo verso l’atrio.
«No!» esclamò, nello stesso istante in cui lo gridava Myrrin.
«Zitto, vecchio, o trasciniamo via anche te.»
Malgrado lo stessero stringendo e obbligando a seguirle, Nabir riconobbe la voce: era la donna che era arrivata al villaggio, la comandante del drappello di guardie. La paura che gli aveva fatto accapponare la pelle si intensificò, quando si rese conto che non si sarebbero fermate di fronte a niente, soprattutto se qualcuno si fosse opposto. Non voleva che succedesse qualcosa a Myrrin, e girò la testa verso la direzione da cui aveva udito provenire il “No!” dell’uomo.
«Myrrin, sta’ fermo. Non accadrà niente. Ti prego, resta lì.»
«Ragazzino coraggioso.» La voce dal timbro duro era accanto al suo orecchio. «Vedremo se lo sarai ancora, dopo che la Custode avrà finito con te.»
Per la Grande Madre Alcheria. Nabir sbatté le palpebre: sapevano chi era, di chi era figlio. La sensazione che stavano per essere i suoi ultimi istanti lo invase, insieme a una calma che gli scivolò addosso, attecchendo nel suo animo. Non avevano cercato Gyllahesh, che lo aveva accolto e protetto, non lo avevano neanche nominato. Quella consapevolezza lenì il timore della morte che, era certo, sarebbe sopraggiunta presto. Era figlio di una traditrice, in mancanza della quale avrebbe pagato lui. L’importante era che lasciassero in pace gli abitanti di quella casa, soprattutto l’uomo che probabilmente ancora dormiva al piano superiore.
Si rilassò, le dita imperiose delle guardie a scavargli solchi nella pelle coperta dalla casacca leggera.
«Lasciate stare Myrrin,» sussurrò. Era la sua resa totale, e la comandante dovette capirlo: la sua aspra risata lo ferì a morte, priva com’era di ogni parvenza di pietà.
«Non sei tu a dare ordini, ragazzino. Portatelo via.»
Venne trascinato senza complimenti attraverso l’atrio, fino al portone rimasto aperto. Nabir sentì il freddo lambirgli il collo e le spalle, il rumore dei pesanti stivali a riempirgli le orecchie. Myrrin non era stato preso, lo capì dalle sue ultime parole, prima di essere portato via.
«Sta’ tranquillo, Nabir! Vado a chiamarlo, risolveremo tutto.»
Non avrebbero risolto niente, pensò tra sé. Era figlio di una traditrice, avrebbe pagato per lei. Nabir strinse gli occhi, ricacciando le lacrime. Doveva essere coraggioso. L’unico rimpianto era non aver visto Gyllahesh per l’ultima volta.

15

Le urla che provenivano da basso penetrarono la cortina che gli avvolgeva la mente, ancora annebbiata dal sonno. Gyllahesh sobbalzò e si alzò a sedere nel letto, chiedendosi cosa mai stesse succedendo. Buttò da parte le coperte e afferrò la veste, infilandosela in fretta, precipitandosi alla porta e uscendo nel corridoio. Uno sguardo oltre le scale gli fece intravedere il portone aperto e Myrrin accasciato lì accanto.
Soffocando un’imprecazione, Gyllahesh si precipitò giù, incurante del pavimento gelido sotto i piedi nudi, raggiungendo l’anziano amico e afferrandogli le braccia. L’altro alzò il volto e lui vide il livido sulla guancia e il sangue che gli fuoriusciva dal labbro spaccato.
«Cos’è successo, Myrrin?»
«Le guardie. Hanno preso Nabir, non so perché. Prima di andarsene mi hanno colpito.»
Lui chiuse gli occhi: l’aveva vista al mercato, il giorno prima. La ma-dira non aveva perso tempo, doveva aver parlato con la Custode ed essere venuta a prendere il ragazzo. Ma perché lo avevano lasciato stare? Lui, Gyllahesh, aveva preso Nabir in casa sua, lo avevano anche visto quando era andato al villaggio. Corse fuori, ma nel grigiore dell’alba non vide nulla. Erano state veloci ad allontanarsi con il loro prigioniero.
Gyllahesh rientrò, percependo il freddo sfiorargli le piante dei piedi e le gambe nude, e aiutò Myrrin ad alzarsi, nel momento in cui venivano raggiunti dagli altri uomini della casa.
«Cosa sta succedendo?» Sivar si mise di fianco all’uomo colpito, aiutandolo a sorreggerlo.
«Le guardie sono venute a prendere Nabir,» mormorò Gyllahesh. La sorpresa che lesse sui volti di chi lo circondava gli fece capire quanto poco avesse detto del ragazzo. Si spostò i capelli dagli occhi. «Nabir è il figlio della donna che ha attentato alla vita della figlia di Rainna. La stessa donna che ha salvato la mia, di vita, tempo fa. Ieri, quando siamo andati al mercato, l’ufficiale ci ha visto e lo ha riconosciuto. È l’unica spiegazione valida per la loro sortita di questa mattina.»
«Lo ha riconosciuto?» si stupì Myrrin. «Come può-»
«Quando sono andato al villaggio,» lo interruppe lui. «Un drappello di guardie stava cercando Sitra, sono arrivate fino a casa sua. E io ero lì.»
«Ma allora perché-» Myrrin si interruppe da solo questa volta, ma Gyllahesh capì cosa volesse dire.
«Perché non sono salite a prendere anche me? Era questo che volevi dire?» Strinse le labbra. «Non lo so, Myrrin. L’unica cosa di cui sono certo è che devo cercare il ragazzo subito, parlare con Yadosh, o con la Custode.»
«Lei lo farà uccidere,» sussurrò l’amico. «Al posto di sua madre.»
«Allora devo sbrigarmi.» Gyllahesh lasciò l’uomo alle cure dei suoi compagni e salì le scale di corsa per raggiungere la sua camera. Avrebbe fatto di tutto per ritrovare Nabir, e convincere chi di dovere che al giovane non potevano essere imputate colpe che non aveva. Non sapeva se lo avrebbero ascoltato, ma avrebbe fatto del suo meglio. Tenne a bada il terrore che gli serpeggiava dentro, sforzandosi di concentrarsi, ma gli occhi verdi e il viso bellissimo del ragazzo erano una costante impressa nella sua mente, impossibile da scacciare. Voleva solo ritrovarlo e stringerlo tra le braccia, sano e salvo.

16

Non era stato ancora portato al cospetto della Custode dei Confini, ma questo non aveva impedito alla Comandante e alle sue guardie di allungare le mani e i pugni. I capelli gli facevano male, laddove glieli avevano tirati, e la guancia doleva per il pugno arrivato quando era incespicato su un sasso. A quelle donne non importava niente che non vedesse bene: l’avevano trascinato come se fosse una bestia da macello, ed era così che Nabir si sentiva. Un animale pronto per il sacrificio.
Nella piccola cella in cui l’avevano gettato, poiché di quello si trattava, si era rannicchiato in un angolo e si era abbracciato le ginocchia, posandovi la fronte ed estraniandosi dal mondo. Aspettava solo il momento in cui sarebbero andate a prenderlo per portarlo di fronte alla donna a cui sua madre aveva fatto un torto imperdonabile. Si augurava soltanto che la fine sopraggiungesse in fretta, quando lei lo avrebbe giudicato colpevole di qualcosa che non aveva commesso.
Nabir sollevò appena la testa, ma la penombra gli impediva di vedere qualsiasi cosa. Era cieco del tutto, in quel posto, la nebbia che gli oscurava la vista un muro buio. Il suo udito fine gli aveva portato il rumore sommesso di passi in avvicinamento, che andò a sommarsi al battito furioso del proprio cuore. Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando l’avevano spinto dentro la cella, ma in quel momento gli sembrò troppo poco: presto sarebbe stato giudicato e condannato. Non poteva dire di non essere responsabile della situazione in cui era, ma, anche se poco tempo, gli era piaciuto vivere con Gyllahesh, Myrrin e gli altri uomini. Gli era piaciuto lavorare in giardino e aiutare nelle faccende domestiche. Il suo rimpianto più grande era non poter dire addio alla sua sijia: chissà se Gyllahesh le avrebbe fatto sapere cosa gli era accaduto. Selia era stata la sua famiglia, lo aveva allevato e gli aveva voluto bene, nonostante le difficoltà. Non avrebbe più potuto riabbracciarla.
Si raddrizzò e si alzò in piedi quando lo sferragliare della porta annunciò che erano finalmente arrivate. La luce improvvisa che proveniva dal corridoio gli impedì di vedere persino le ombre di chi stava sulla soglia a fissarlo. Nabir si augurò che non lo picchiassero ancora, ma sapeva anche quanto potessero essere violente quelle donne, soprattutto con qualcuno come lui. Cercò di essere coraggioso, di combattere la paura che gli attorcigliava lo stomaco, invece non poté impedire che gli occhi gli si riempissero di lacrime. Strinse i denti, ricacciandole indietro, mentre le donne entravano.

***

Ombre intorno a lui. Rumori e parlottii indistinti nelle orecchie.
Non lo avevano legato, ma quale bisogno c’era, quando era circondato da guardie che lo avrebbero trapassato con le loro spade affilate non appena avesse emesso un suono che avrebbe potuto sembrare una minaccia?
Nabir era in piedi in una stanza luminosa, dove era stato condotto da chi era andato a prelevarlo. Non lo avevano toccato, questa volta, né schiaffi, né capelli tirati. Forse volevano preservarlo per la Custode. Sapeva che c’era, aveva intravisto un’ombra scura davanti a sé quando le guardie l’avevano fatto fermare, dopo aver attraversato innumerevoli corridoi bui e aver salito scale interminabili. Non le ricordava all’andata, ma era pur vero che si trovava in una situazione tale da non poterlo fare, frastornato dal pugno che gli era stato sferrato.
Respirò appena, spaventato dal fatto che lo uccidessero per averlo fatto. Le voci aumentarono di volume e a quella delle donne si aggiunse anche una maschile. Un timbro forte, che aveva già udito: doveva trattarsi dell’onorabile Yadosh, l’uomo incontrato il giorno prima al mercato. Stava discutendo con qualcuno, ma non riusciva a distinguere le parole. Forse stava parlando di lui, o forse no. Si stupì che non gliene importasse poi molto, giunto a quel punto. Non sapeva se c’era qualcosa che avrebbe potuto garantirgli la clemenza della Custode, non con quello che sua madre aveva fatto. Era colpa sua, lo sapeva: se non fosse stato per lui…
«E così tu sei il figlio di quella cagna traditrice.»
L’ombra davanti a lui era alta e sottile, la voce femminile doveva essere piacevole da ascoltare, in un momento diverso. Ora vibrava di rabbia, e Nabir si accorse di comprendere le motivazioni: sua figlia era stata quasi uccisa, e da una persona di cui si fidava, visto che era la sua istruttrice.
Doveva rispondere o sarebbe stato punito per la sua impudenza?
Nabir decise che ormai non valeva più la pena di preoccuparsi.
«Sì.»
Non ci furono colpi, benché si fosse irrigidito in attesa che arrivassero.
«Lo sai perché sei qui, non è vero?»
Nabir fece un cenno col capo, senza aprire bocca, e questa volta il colpo gli arrivò da dietro, tra le scapole, facendolo barcollare e buttar fuori tutta l’aria dai polmoni.
«La Custode ti ha fatto una domanda,» ruggì una voce nel suo orecchio. «Oppure oltre a essere cieco sei anche stupido?»
«Melina, basta.» L’ombra di fronte a lui si avvicinò. «Te lo chiedo di nuovo-»
«Mia madre ha tentato di uccidere vostra figlia,» la interruppe lui. «Ed è scomparsa. Ma io non so dove sia.»
«Penso proprio che l’abbiano eliminata,» sbottò la voce. «Mi hanno anticipato. Ora comunque ho te, e pagherai per quello che ha fatto quella cagna.»
Nabir strinse le labbra: se lo aspettava, ma anche così era difficile trovare una giustificazione alla cosa. Chinò la testa, rassegnato. La sua vita doveva andare così, finire in quel modo. Chiuse le mani a pugno, per non cedere alla disperazione.
Le guardie si mossero, ma non lo toccarono. Era sopraggiunto qualcosa di nuovo, lo capì dall’agitazione che percepiva dietro di sé. Poi udì una voce maschile provenire da qualche parte oltre le sue spalle, e il terrore si impossessò di lui. Gyllahesh. Non avrebbe dovuto essere lì, anche se il suo cuore lo aveva sperato. Lo avrebbero ucciso come sarebbe successo a lui.
«Devo vedere la Custode e l’onorabile Yadosh,» lo sentì urlare, e la donna di fronte a lui si mosse, sostituita da una figura più alta e massiccia.
«Che cosa ci fa qui?»
«È venuto per il ragazzo. È il suo protetto.»
«Allora avrebbero dovuto prendere anche lui, per aver dato rifugio a un traditore.»
«Rainna…»
A Nabir occorse un istante per capire che le due persone davanti a lui stavano discutendo a bassa voce. Nella sala dov’erano ci fu un tramestio, e i passi in avvicinamento si fermarono proprio accanto a lui.
«Nabir. Che cosa ti hanno fatto, in nome di Alcheria?» Il tono di Gyllahesh lenì il dolore che sentiva nel petto, ma peggiorò il suo terrore.
«Sei tu che hai offerto un tetto a questo ragazzo, sapendo benissimo chi era.»
«Sì, lo sapevo, mia Signora. Sua madre mi salvò la vita, volevo sdebitarmi.»
«Sdebitarti con una traditrice della peggior specie?» Il gelo nella voce della Custode sferzò Nabir, che chiuse gli occhi per un attimo, riaprendoli quando Rainna riprese a parlare. «Siete colpevoli entrambi di tradimento, e immagino tu sappia qual è la pena.»
Nabir alzò la testa, individuando la figura snella in mezzo alla nebbia che gli appannava gli occhi.
«No! Lui è colpevole soltanto di aver voluto onorare un debito. Signora, vi prego. Sono io l’unico da condannare. È colpa mia se mia madre ha compiuto quell’azione, e di questo vi chiedo perdono. Lasciate andare Gyllahesh.»
«Smettila, Nabir,» gli intimò l’uomo al suo fianco. «Non me ne andrò da qui senza di te.»
«Non puoi far niente, se non vivere,» mormorò lui, girandosi a guardare la macchia scura. «Devi vivere, Gyllahesh. Non voglio morire con il rimorso di aver causato un’altra morte. Sitra lo ha fatto per me. Non dire un’altra parola e va’ via.»
Una mano si chiuse sulla sua spalla e lui girò la testa. «Ragazzino, non ti permetto di mancarmi di rispetto.» La donna strinse più forte la presa e lui percepì il dolore.
«Perdonatemi. Perdonate Gyllahesh, ve ne prego.» Si lasciò scivolare sulle ginocchia, fissando in alto la macchia indistinta del viso che lo sovrastava. «Mi ha accolto solo per senso dell’onore. È un uomo buono, e voleva sdebitarsi. Mia madre ha sbagliato e probabilmente è già stata punita, ma non lo avrebbe mai fatto se non fosse stato per me. Sono io e solo io che dovete condannare, Signora.» Udì il verso strozzato che proveniva dalla sua destra, ma continuò a fissare la donna. «Voi non fareste qualsiasi cosa per vostra figlia, se ce ne fosse bisogno?»
«Osi chiedermi una cosa del genere?» sbraitò Rainna.
«Oso, perché so che ormai il mio destino è segnato. Lo è da quando sono nato. È stato solo per la bontà di mia madre e della mia sijiase sono arrivato nell’età adulta. Mia madre ha fatto tutto per me, e ha pagato nel peggiore dei modi il suo errore. Potete rivalervi su di me, ne avete tutto il diritto, ma vi chiedo, vi scongiuro, lasciate andare Gyllahesh.» Le lacrime sfuggirono al suo controllo e gli scesero lungo le guance. Non c’era ormai più nessuna dignità da salvaguardare, non c’era mai stata. Nabir sperò soltanto che una delle donne più potenti del regno si abbassasse ad ascoltarlo.
«Madre…»
Di chi era quella voce esile?
«Cosa ci fai qui? Dovresti essere nella tua stanza.»
«Non hai risposto alla domanda che lui ti ha fatto.»
«Non c’è nessuna risposta da dare, Nhavi. Torna nella tua camera.»
«Rispondi, Madre. Faresti qualsiasi cosa per me, se ce ne fosse bisogno?»
«Lo sai che è così.»
«Anche condannare un ragazzo la cui unica colpa è quella di non vedere e non potersi curare di se stesso? La cui unica colpa è quella di avere avuto una madre che lo ha amato a tal punto da condurla alla morte?»
«Lei voleva ucciderti.»
«Ma non lo ha fatto, Madre. Avrebbe potuto, ma si è fermata. Non lo avrebbe mai fatto.» La figuretta snella scurì la nebbia negli occhi di Nabir, mentre la giovane si avvicinava. «Madre, lui non ha colpa, se non quella di essere stato amato da una madre. Come me.»
«Nhavi, non è la stessa cosa.»
«Lo è. Ascoltami, ti prego anch’io di lasciare andare entrambi. Non voglio che venga versato altro sangue.»
Nabir chiuse gli occhi, le lacrime a bagnargli le guance. Sentì una mano sfiorare la sua, una mano grande, e un’altra stringergli la spalla. La ragazza si era fermata accanto a lui.
«Madre, ti prego.»
«E chi mi dice che non cercheranno di attentare nuovamente alla tua vita o a quella di qualcun altro a me vicino?»
«Perché ormai il gioco è stato scoperto.» Yadosh parlò con calma, e Nabir lo sentì vicino. «Chiunque sia stato, non ripeterà due volte l’errore di attaccarci come è stato fatto.»
«Dunque dovrei lasciare andare il libero amante e il ragazzo? Senza alcuna condanna?» Rainna sembrava dubbiosa, ma la rabbia che le aveva avvelenato la voce era scemata.
Nabir si chiese se poteva tornare a respirare. La mano che sfiorava la sua intensificò il contatto, andando ad avvolgergli il polso. Brividi corsero lungo il suo braccio, e nuove lacrime trovarono la strada per uscire. Quella ragazza, la stessa che sua madre aveva ferito, li stava aiutando? Poteva credere che sarebbero stati salvi? Tutto ciò non toglieva nulla al fatto che la colpa fosse sua, che quella giovane donna che aveva parlato in suo favore ci fosse andata di mezzo perché era la figlia di una donna potente. Qualunque cosa avesse deciso la Custode, il rimorso per aver spinto sua madre a eseguire quell’azione scellerata non lo avrebbe lasciato.

17

Lo aveva cercato dappertutto, prima alla caserma, perdendo del tempo prezioso senza ricavare niente. Le guardie lo avevano guardato come se fosse pazzo, finché non gli avevano detto che nessuno era stato portato lì.
Alla fine, Gyllahesh aveva attraversato la città, passando tra i vicoli più squallidi fino a raggiungere il palazzo di Rainna. Dovevano averlo portato là, non sapeva dove altro cercare.
La perseveranza aveva dato i suoi frutti. Aveva bussato come un forsennato al portone, quando gli avevano aperto intimandogli di andarsene aveva puntato i piedi. Vedere la comandante del drappello era stata la conferma che cercava, anche se lei aveva tentato di corromperlo e dissuaderlo non appena le aveva chiesto notizie di Nabir.
«Non tormentarti per lui. Se non vuoi essere accusato di tradimento, lascialo perdere. Potresti essere gentile con me, e il tuo nome non salterà mai fuori…»
Le parole sussurrate sulla soglia gli avevano fatto scorrere un brivido lungo la schiena. Era per quello che non erano salite a prenderlo? La comandante desiderava un tornaconto per la sua gentilezza?
Guadandola con disprezzo, l’aveva aggirata senza toccarla: ci mancava solo che lo accusasse di averla aggredita. Aveva gridato e alla fine l’avevano portato nella sala, dove Nabir, ritto in piedi davanti a Rainna, aspettava solo che quest’ultima pronunciasse la sua condanna.

***

Gyllahesh aiutò il ragazzo ad alzarsi in piedi. Vederlo così, quasi prostrato ai piedi di Rainna, supplicarla di non fare del male a lui, ma offrendosi come l’unico sacrificabile, gli aveva quasi spezzato il cuore. Nhavi, la figlia della Custode, rimase ferma dall’altra parte, la mano ancora posata sulla spalla di Nabir.
Lo preoccupava lo sguardo spento del giovane, il pallore del volto che faceva risaltare il grosso livido sulla sua guancia. Voleva parlargli, sostenerlo, ma non era il momento, non con chi era in grado di decidere del loro destino solo a pochi passi di distanza. Rainna stava parlando con il marito, e Yadosh si voltò un attimo a guardarlo, facendogli un impercettibile cenno col capo.
Un senso di sollievo lo invase, benché ancora non sapesse per certo cosa avesse deciso la donna più potente del regno, dopo la Regina.
«Nabir…» sussurrò, e il ragazzo alzò appena la testa.
Rainna gli impedì di rispondere, avvicinandosi a loro, il volto impassibile. Era bellissima, malgrado non più giovane, e la sua bellezza l’aveva trasmessa alla figlia accanto a loro.
«Nhavi, accompagna il ragazzo nell’atrio, poi va’ nella tua camera.»
«Madre-»
«Hai già disubbidito lasciando il letto,» la interruppe l’altra seccamente. «Non succederà niente.»
La ragazza annuì e prese Nabir per mano. «Vieni con me.»
«Che cosa sta succedendo?» chiese questi, improvvisamente agitato. «Cosa volete farmi?»
«Ubbidisci, Nabir,» si intromise Gyllahesh, prima che la Custode lo rimbrottasse. A lui non era stato ordinato di uscire, il che poteva significare due cose: Rainna voleva parlargli, oppure impedirgli di difendere il ragazzo mentre veniva portato via. Entrambe le cose rientravano nelle ipotesi, ma non poté impedirsi di rabbrividire.
Le porte si chiusero, lasciandolo solo con Rainna e Yadosh. Le guardie erano uscite insieme ai due ragazzi.
«Bene, Gyllahesh. Adesso voglio sapere perché uno dei liberi amanti più richiesti di questa città si è preso a cuore qualcuno che non può far nulla per ripagarlo.»
«Non l’ho fatto per essere ripagato,» mormorò lui, guardandola per un attimo negli occhi e abbassando poi lo sguardo. «Nabir lo ha già detto: ero in debito, e prenderlo con me mi sembrava la cosa giusta da fare, soprattutto dopo la scomparsa di sua madre.»
«Quella donna si è cercata la propria rovina,» ribatté Rainna.
«È vero, ma era sempre stata una donna leale. La conoscevo poco, ma parlava con entusiasmo del suo ruolo di istruttrice, e anche di vostra figlia. Le voleva bene.»
«Le voleva così bene che ha tentato di ucciderla.»
L’astio nella voce era tagliente quanto la lama di un rasoio, ma Gyllahesh non se la sentiva di contraddirla. Ciò che aveva fatto Sitra non era giustificabile in alcun modo, e le attenuanti… beh, ce n’era una sola, ed era nella stanza accanto.
«Avete ragione a odiarla, ma vi prego di non infierire sul ragazzo. Lo avete sentito, si considera responsabile per ciò che è accaduto. Sua madre ha commesso l’unico peccato di credere nelle persone sbagliate e di voler guadagnare un compenso che poi avrebbe messo da parte per suo figlio.»
Lei lo guardava con un’attenzione che Gyllahesh trovò inquietante. Sembrava che lo stesse valutando pezzo per pezzo.
«Quindi, secondo te dovrei lasciarlo andare, lasciarvi andare entrambi, e dimenticare che mia figlia è stata quasi uccisa per del vile denaro. È questo che dovrei fare, secondo te?»
L’enfasi non nascondeva la minaccia insita: la loro vita era nelle mani della donna, non c’era nulla che loro potessero portare a discolpa per farle davvero cambiare idea. Era stato un affronto troppo grande, causato da un odio tale da arrivare a colpirla negli affetti. Gyllahesh aveva buone orecchie e  dei contatti anche troppo buoni, visto che nel suo letto erano passate rappresentanti dell’una e dell’altra parte. Non c’era niente come la soddisfazione dopo un amplesso che facesse sciogliere la lingua di quelle donne dedite a tessere intrighi. Lui non ne aveva mai fatto parola con nessuno e non avrebbe iniziato ora, quello che voleva era solo sapere se la vita di Nabir fosse fuori pericolo.
«La decisione è vostra, mia Signora. Non vi chiedo nulla che già non sia stato detto.» Chinò la testa. «L’unica colpa di quel ragazzo è di avere avuto una madre che lo amava.»
Il silenzio accolse le sue parole, ma non alzò lo sguardo. Rainna era spietata, di quello era certo, e il suo accorato appello sarebbe potuto rimanere inascoltato. In fin dei conti, lui non era nessuno, così come Nabir.
«D’accordo, uomo. Prendi il ragazzo e torna a casa. Non voglio più sentire parlare di questa storia.»
Gyllahesh alzò la testa di scatto, guardando da lei a Yadosh e viceversa.
«Ne siete certa-» Si interruppe, mordendosi la lingua. «Perdonate, volevo dire grazie, mia Signora. Grazie dal più profondo del cuore.»
Rainna lo fissò per un lungo attimo, prima di fare un cenno col capo. «Quel giovane è fortunato ad avere te. Non che le sue parole siano state meno coraggiose, sarebbe disposto a sacrificarsi per te, se occorresse.» Un gesto della mano sembrò sancire il congedo. «Andate, adesso, prima che mi penta.»
Dubitava che lo avrebbe fatto, ma tenne per sé quel pensiero. Il sollievo era talmente grande da impedirgli quasi di respirare.
Gyllahesh fece un passo indietro, e poi un altro, fino a raggiungere la porta. Aprì uno dei battenti, e fu nell’atrio. Subito, i suoi occhi corsero a cercare Nabir, che se ne stava seduto su una panca accanto alle scale, con la piccola Nhavi vicino. La ragazza aveva di fatto disubbidito alla madre, ma il sorriso dolce con cui si rivolgeva a Nabir era bellissimo da vedere.
Prima che potesse raggiungere il ragazzo, la ma-dira lo fermò, mettendogli una mano sul petto.
«Fermo.»
«La Custode ci ha lasciati liberi,» sbottò lui, cercando di sfuggirle.
«Ma davvero?» Il sibilo raggiunse il suo orecchio e gli fece montare una rabbia sorda, ma respirò forte per scacciarla.
«Davvero.»
«Però devi avere ancora a che fare con me.»
Gyllahesh incrociò il suo sguardo, leggendovi lussuria e un che di implacabile.
«Non mi avrete, ma-dira,» rispose lui, anche se la mano che gli strinse il polso sembrava dire il contrario.
«Che cosa succede, Melina?»
La voce imperiosa di Rainna li fece sussultare entrambi, e la donna lo lasciò andare.
«Quest’uomo stava dicendo che lui e il ragazzo sono liberi, mia Signora.»
«È così. Possono andarsene.»
Guardando oltre la spalla, Gyllahesh vide Yadosh e il suo sguardo inquisitore: sospettava che la ma-dira non lo avrebbe lasciato in pace, ma se poteva dire una parola al marito di Rainna, forse lo avrebbe capito. Non era sua abitudine chiedere aiuto, ma temeva più per Nabir che per se stesso.
Raggiunse il ragazzo, che si era alzato in piedi, sul volto un’espressione di stupore.
«Andiamo a casa, Nabir,» mormorò, stringendogli il polso. Scambiò un’occhiata con Nhavi, e lei gli sorrise.
«È vero? Siamo liberi?» La voce di Nabir tremava, e lo commosse.
«Sì.» Voleva uscire di lì, e scambiare anche una parola con Yadosh, ma aveva troppi occhi addosso. Strinse più forte il polso del ragazzo e lo tirò verso il portone, e quasi sussultò quando sentì la presenza dell’altro uomo di fianco a sé, come se gli avesse letto dentro.
«Gyllahesh.»
«Grazie, onorabile Yadosh. So che anche voi avete parlato in nostro favore.»
«Sì, sì, non era quello che volevo sentire.» L’uomo si guardò attorno, ma le guardie si erano allontanate, anche se l’ufficiale se ne stava sulla soglia della grande sala da cui erano usciti, fissandolo con quello che sembrava odio puro. «Quella donna ti ha detto qualcosa?»
Come faceva a saperlo?
Gyllahesh chinò la testa, osservando le lunghe ciglia biondo scuro di Nabir, che stava ascoltando a sua volta. Non aveva intenzione di parlare, non se questo significava ottenere una nemica spietata.
«Un ricatto, forse?»
Lui incontrò lo sguardo consapevole di Yadosh e deglutì.
«Non vi chiederò come lo sappiate…» Sembrava fosse quello di cui aveva bisogno l’altro, perché si limitò ad annuire.
«Non vi darà fastidio. Tornate a casa.»
Gyllahesh annuì. «Grazie.» Un istante dopo erano già sui gradini del palazzo, diretti verso la sua villa, Nabir di fianco a lui sano e salvo.

18

Il ritorno fu quanto mai silenzioso. Nabir camminava di fianco a lui, chiuso in un mutismo che non era riuscito a penetrare, benché ci avesse provato. Lo sguardo perso del giovane lo preoccupava, così come la mancanza di qualsiasi entusiasmo. Erano usciti vivi dall’incontro con la Custode, malgrado i presupposti, e Nabir sembrava meno che felice. Sembrava… spento.
Si stava facendo buio quando finalmente raggiunsero il portone della villa. Le finestre dell’atrio erano illuminate, e l’uscio si aprì non appena misero piede sugli scalini.
«Siete tornati!» Tyro era sulla soglia, il volto in ombra, ma la voce aveva un timbro felice.
Gyllahesh spinse gentilmente avanti il ragazzo silenzioso, che entrò nell’atrio e si fermò, mentre Tyro chiudeva la porta e venivano raggiunti dagli altri uomini della casa.
«Nabir! Sia ringraziata Alcheria, temevo di non rivederti.» Myrrin prese il giovane fra le braccia, ma Nabir rimase rigido, sbattendo le palpebre. Alla fine, l’uomo lo lasciò andare, guardandolo. «Nabir…»
«Le guardie ti hanno fatto del male?» chiese questi, gli occhi verdi puntati su Myrrin come se lo vedesse.
«No.»
«Sì.» Rashin aveva risposto nello stesso tempo, guadagnandosi un’occhiata risentita da parte sua e di Myrrin, che scosse la testa per tranquillizzare Nabir.
«Niente di grave, lo sai come sono fatte, non bisogna contraddire le guardie. Vedo che anche con te non sono state gentili.» Myrrin sfiorò il livido, e le palpebre di Nabir fremettero.
«Posso salire nella mia stanza?» chiese, la voce tremante.
Gyllahesh gli si fece vicino, posandogli una mano sulla spalla. «Hai bisogno anche di nutrirti. Puoi riposarti un po’, poi verrò a chiamarti per la cena.»
Nabir fece un cenno con la testa, spostandosi e liberandosi della sua mano. «Va bene.»
Si allontanò verso le scale, i movimenti rigidi. Gyllahesh lo seguì con lo sguardo, preoccupato da quell’apatia. Non sembrava felice di essere libero, di essere tornato a casa. Quella non era davvero la sua casa, anche se lui avrebbe desiderato che lo credesse. Sembrava così solo, in quel momento, che avrebbe voluto stringerlo a sé finché la tristezza non l’avesse abbandonato.
Con un sospiro, seguì Myrrin e gli altri in cucina, dove il calore lo avvolse e lenì la tensione della giornata.
«Se siete tornati, significa che si è risolto tutto?» gli chiese Sivar, allungandogli un bicchiere di sidro caldo.
Lui scosse la testa. «Forse. Siamo stati al cospetto della Custode dei Confini, se non siamo stati condannati entrambi è solo perché sono intervenuti sua figlia e suo marito.»
«Probabilmente la Madre Alcheria ha interceduto per voi,» suggerì Myrrin, e Gyllahesh fece una smorfia.
«Lo credi davvero? Io penso invece che ci siano delle persone a cui il buonsenso fa fare delle scelte azzeccate e più giuste, a cominciare da quella ragazzina. Rainna era pronta a gettarci nella segreta più profonda, se fosse stato solo per lei non saremmo qui. Ma non sarò io a lamentarmene, sono solo felice che Nabir sia salvo, e se questo vuol dire che devo ringraziare una dea che non ho mai nemmeno pregato, lo farò.» Gyllahesh strinse la mano intorno al bicchiere tiepido. «Quando sono arrivato al palazzo di Rainna, credevo davvero che non sarei riuscito a portarlo fuori di là.»
«Invece siete tornati entrambi,» sussurrò Myrrin. «Nabir sembrava sconvolto.»
«Lo è. Non è stata una buona giornata per lui, anche se tutto si è risolto nel modo migliore.» Gyllahesh si alzò. «Mi ha preoccupato, non lo nego. È meglio che vada a vedere come sta.»

***

Nabir strinse la sacca con forza e la mise sul letto. Non aveva molto da metterci dentro, a parte i suoi abiti vecchi. Andarsene sembrava la soluzione migliore, nonostante tutto. La sua presenza aveva fatto sì che arrivassero a Gyllahesh, che facessero del male a Myrrin, e tutto perché lo avevano accolto in casa. La Custode alla fine si era mostrata magnanima, lasciandoli andare, ma questo non leniva il suo senso di colpa. Né nei confronti di sua madre, né verso Gyllahesh, che aveva davvero rischiato la vita andando a cercarlo.
La sua stessa esistenza metteva in pericolo chi gli stava vicino. E la sua sijia, che lo aveva allevato e si era presa cura di lui per quasi tutta la vita, si era sacrificata per dargli tutto ciò di cui avesse bisogno.
Le lacrime presero a scorrere, annebbiandogli ancora di più la vista. Il terrore vissuto quel giorno non se ne era ancora andato, così come non se n’era andata la consapevolezza che vivere lì era stato bello, finché non era arrivato alla conclusione che era meglio per tutti se scompariva. Non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, ma almeno nessuno avrebbe più sofferto per causa sua.
«Nabir?»
Nella disperazione in cui era caduto, aveva chiuso i sensi a qualunque cosa, così non aveva sentito la porta aprirsi.
Sussultò, sentendo la voce di Gyllahesh. La stanza era buia, e lo udì imprecare quando il rumore sordo si unì al gemito di dolore. La luce che proveniva dal corridoio era fievole, ma divenne più forte quando l’uomo dovette munirsi di un candelabro. Nabir vedeva le piccole luci danzare in un alone dorato.
«Che cosa stai facendo?»
Doveva aver visto la sacca sul letto.
«Non posso restare qui. Oggi ho messo in pericolo tutti.»
Le luci danzarono e si fermarono, poi due mani forti si strinsero sulle sue spalle.
«E avevi intenzione di andartene? Sei salvo adesso, Rainna ti ha lasciato andare. Non ti farà tornare a prendere.»
Lui scosse la testa. «Non capisci? Hai rischiato di essere condannato per tradimento, per avermi aiutato. È colpa mia. Avrei dovuto morire tanto tempo fa, nessuno avrebbe sofferto, a cominciare da mia madre.» Aveva alzato la voce, e Gyllahesh lo scosse.
«Smettila. Tua madre ha fatto una scelta, e per sua disgrazia è stata quella sbagliata. Non è colpa tua, lo capisci? Sì, forse il denaro le sarebbe servito per te, ma aveva altri modi, senza ricorrere all’omicidio o ai sotterfugi. L’avevo già aiutata in passato, non mi sarei tirato indietro neanche questa volta.»
«Ma se non fosse stato per me…»
«Nabir, tua madre ti voleva bene, ma le scelte e gli errori sono solo di chi li opera. Non le hai chiesto tu di uccidere quella ragazzina e di accettare un compenso per quello. Tu sei innocente.»
Le lacrime non si stavano fermando, anzi. Dopo tutto il dolore che lo aveva travolto quel giorno, sembrava quasi che stesse finalmente vedendo una speranza.
«Non piangere,» sussurrò Gyllahesh. Le mani lasciarono le sue spalle per raggiungergli il viso. «Non piangere. Andrà tutto bene.»
«Temevo che ti avrebbe ucciso, non avrei potuto sopportarlo,» riuscì a dire tra i singhiozzi.
«Non lo ha fatto, ci ha lasciati andare. Ha capito anche lei.»
Nabir chinò la testa, posando la fronte contro il petto dell’uomo. «Volevo andarmene, ma non so nemmeno dove, o come.» Una risata aspra si fece strada nella sua gola, e si sentì stringere le spalle e la vita. Il cuore gli balzò in gola, e sollevò la testa, non vedendo altro che una macchia scura in mezzo alla nebbia che gli velava gli occhi.
«Non devi andartene, Nabir. Sei a casa.»
Labbra morbide e il pizzicare della barba furono tutto quello che sentì, e si abbandonò contro Gyllahesh, rispondendo a un bacio che non avrebbe mai dovuto esserci, ma che era così bello, così caldo, così… giusto. Lasciò che entrasse nella sua bocca, che lo accarezzasse con la lingua, e gli strinse le braccia intorno al collo, aderendo al suo petto forte.
A casa… Sì, tra le braccia di quell’uomo si sentiva a casa.
Un gemito gli sfuggì dalla bocca, catturato da quella di Gyllahesh, che lo strinse più forte e lo sollevò, spingendolo verso il letto. Nabir non si chiese se quello che stava succedendo fosse o meno giusto: quello che desiderava in quel momento era toccare quel corpo forte, quella pelle calda che indovinava sotto le mani e lo strato di vestiti. Non gli importava più che quanto stessero facendo non rientrasse nei costumi della loro gente. Non gli importava più di niente, se non che Gyllahesh e lui stesso fossero vivi. Il suo cuore si riempì di emozione e lo stomaco sfarfallò, quando la bocca dell’uomo lasciò la sua per avventurarsi sulla mascella e giù, lungo il collo. Il suo corpo stava reagendo in maniera sbalorditiva, e tutto ciò che desiderava era giacere in quel letto con colui che aveva fatto nascere quello strano sentimento nel suo petto e nella sua testa.
Il peso di Gyllahesh lo schiacciò, togliendogli il respiro, mani gentili si intrufolarono sotto la sua casacca per toccargli la pancia, il petto, e strofinare con delicatezza i suoi capezzoli eretti. Questa volta il suo gemito risuonò nella stanza, e lui si inarcò sopra le coperte quando il camiciotto gli venne sollevato e un umido calore gli inondò la pelle del torace. Brividi di piacere lo attraversarono da capo a piedi, sentendo le labbra dell’uomo accarezzare i bottoncini turgidi e poi succhiarli.
Sbatté le palpebre in quella nebbia dorata, le labbra semiaperte a cercare aria. L’altro gliela donò sollevandosi e baciandolo nuovamente, con ancora più passione, muovendosi su di lui e abbassando  i fianchi fra le sue gambe, che aveva istintivamente aperto. Quando le loro erezioni si strofinarono, coperte dal tessuto delle brache, fu Gyllahesh a gemere, alzando la testa e tracciandogli il volto con il suo respiro.
«Nabir…»
Lui sorrise, sfidando la nebbia che gli velava gli occhi. Avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere il volto dell’uomo per cui nutriva quei sentimenti imprevisti e così singolari.
Sentì una mano toccargli il ventre e sciogliere il nastro che reggeva le brache, che gli vennero abbassate subito dopo. Il suo membro eretto sussultò quando venne liberato e la stessa mano che lo aveva spogliato si strinse su di esso, causandogli nuovi brividi. Faticava a respirare, l’eccitazione rendeva il suo corpo un ammasso di desideri mai provati. Allungò la mano, raggiunse gli indumenti di Gyllahesh e si introdusse al di sotto, per toccarlo a sua volta. Chiuse le dita sul calore duro e setoso del membro dell’altro, udendo un basso ringhio che lo fece sorridere di più e lo rese più audace. Con l’altra mano sollevò la camicia e tracciò lievi carezze sulla schiena muscolosa.
«Mi stai facendo impazzire,» sussurrò Gyllahesh nel suo orecchio, e il sospiro gli lambì la guancia e il collo. La mano stretta intorno alla sua erezione e la bocca di nuovo su un capezzolo stavano facendo altrettanto.
«Non ho mai provato nulla del genere,» riuscì a dire. In quel momento desiderò poter sentire la pelle dell’uomo contro la sua e, come se sapesse cosa stava pensando, l’altro lo lasciò e lo liberò degli abiti. Quando si distese nuovamente su di lui, era nudo.
Nabir lo accolse fra le gambe, questa volta senza la barriera degli abiti. Erano pelle contro pelle, e si strofinarono uno sull’altro finché lui non si sentì attraversare da un tremito così forte che dovette nascondere il viso contro il petto di Gyllahesh perché l’urlo non lasciasse le sue labbra. Anche così, ne uscì un mugolio che presto venne raggiunto da quello dell’altro. Sul suo petto, le loro essenze si mescolarono, scaldandogli la pelle e lasciandolo con il fiato corto e le membra deboli. Nella sua vita, non aveva mai raggiunto un’estasi anche solamente paragonabile a quella che aveva travolto la sua mente e il suo corpo.
Gyllahesh si sollevò, permettendogli di respirare, il fiato che sfiorava la sua pelle sudata. Sentiva il suo cuore battere in maniera affrettata quanto il proprio, e Nabir sbatté le palpebre combattendo contro la nebbia che gli offuscava la vista. Un istante dopo, occhi scuri e capelli ancora più scuri comparvero davanti a lui, e gli occhi gli si riempirono della vista dell’uomo per il quale il suo cuore batteva più veloce. Era bello, bellissimo, e il volto virile e perfetto era pervaso da un’emozione che doveva essere identica alla sua.
«Ti vedo,» sussurrò, con le lacrime che iniziavano a scivolarli lungo le guance. «Ti vedo.» Un istante dopo, la nebbia ricoprì tutto, e lui singhiozzò, subito stretto e cullato dalle braccia di Gyllahesh.
«Cuore mio,» bisbigliò l’uomo nel suo orecchio. «Sono qui, ti tengo.»
«Desideravo tanto vederti,» pianse Nabir. La disperazione aveva sostituito quell’attimo meraviglioso, ma Gyllahesh si spostò sul fianco e lo strinse più forte.
«Lo hai fatto. Ho visto come mi hai guardato, nessuno lo aveva mai fatto prima.» Lievi baci furono posati sulle sue guance, sulle palpebre, fino a raggiungere le labbra, dove si fermarono a donargli calore. Attraverso quel tocco, Nabir si calmò, amando quella vicinanza a cui non sapeva se sarebbe stato capace di rinunciare.
«Non so cosa sia questa… cosa che provo per te, Gyllahesh,» riuscì a mormorare dopo un po’. «Non ho mai sentito per nessuno quello che sto sentendo ora.»
«Nemmeno io.» L’uomo si staccò da lui, per poi cambiare posizione al suo fianco. «Se non fosse così strano, direi quasi che… che…» L’esitazione gli fece balzare il cuore in gola, e lui tentò di scavare la foschia che gli aveva ricoperto le iridi.
«Che cosa?»
«Nabir, è come se tra noi fosse sorto il Legame, e questo mi confonde.»
«Perché sono un maschio?»
«Sì.»
«E allora cosa si fa adesso?» L’istinto di scappare e nascondersi lo invase, ma le braccia intorno a lui non glielo permisero.
«Io non voglio rinunciare a te, a meno che tu non-»
«Nemmeno io,» lo interruppe Nabir «perché anch’io sento lo stesso per te.»
«Troveremo una soluzione,» disse piano Gyllahesh, baciandolo con dolcezza sull’angolo della bocca. «La troveremo, te lo prometto.»

***

Non scesero a cena con gli altri, ma più tardi, quando la casa divenne silenziosa, Gyllahesh si alzò e si rivestì dopo essersi pulito e aver aiutato Nabir a fare lo stesso. Voleva nutrirlo e stringerlo e fondersi in lui, e il ragazzo sembrava volesse altrettanto. Il suo viso, benché recasse le tracce della giornata appena trascorsa e fosse palesemente stanco, risplendeva di una luce nuova che lui non aveva mai visto. Poteva prendersene il merito, oppure no, ma il suo cuore cantò quando Nabir si strinse a lui mentre scendevano in silenzio e si dirigevano in cucina.
Dopo aver mangiato quello che Myrrin aveva lasciato da parte per loro, e ringraziandolo in silenzio per non averli cercati, Gyllahesh ricondusse Nabir nella sua stanza e si stese accanto a lui, avvolgendolo tra le braccia e ascoltando il suo respiro farsi più leggero mentre si addormentava. Non lo avrebbe portato nel proprio letto, dove si erano susseguite così tante donne da perdere il conto. Voleva che quanto era nato fra loro rimanesse unico e prezioso, esattamente come lo era quel ragazzo bellissimo steso accanto a lui.
Gyllahesh fece una promessa a se stesso: lo avrebbe protetto e lo avrebbe amato come meritava, anche se avrebbe dovuto nascondere il loro Legame a chiunque. Aveva detto a Nabir che avrebbe trovato una soluzione, e lui era un uomo che manteneva sempre le promesse.

19

«Nabir sta bene?» chiese Myrrin, non appena Gyllahesh mise piede in cucina, al mattino presto. Lo aveva lasciato ancora addormentato, al caldo sotto le coperte, e si era allontanato in silenzio.
«Credo stia ancora dormendo,» rispose, andando a sedersi. Doveva comunque una spiegazione per la loro sparizione della sera prima, e ammiccò. «Ieri sera l’ho trovato mentre stava preparando il suo bagaglio, voleva andarsene. Sono riuscito a convincerlo che la colpa di quanto è successo non è sua, e alla fine si è addormentato. E anch’io.»
Myrrin lo fissava, gli occhi chiari che sembravano frugargli dentro. Per un istante, Gyllahesh si chiese se l’uomo più anziano sospettasse qualcosa, poi si diede dello sciocco: non si erano certo comportati come amanti, in nessuna occasione. L’unico momento in cui si era avvicinato a Nabir come tale era stata la sera prima, ed erano soli.
«Sono felice che tu l’abbia dissuaso,» commentò l’altro, posandogli davanti una scodella. «Quel ragazzo merita di essere felice.» Di nuovo quello sguardo consapevole.
Gyllahesh deglutì: possibile che i sentimenti trasparissero sul suo volto, e che Myrrin riuscisse a capire cosa provava solo guardandolo? I rapporti tra uomini erano fonte di disprezzo, a Endora: se qualcuno li avesse scoperti, avrebbero rischiato l’emarginazione.
«Sì,» si decise a dire. «Lo credo anch’io.»
«E io sono convinto che qui sarà felice.»
Lui spalancò gli occhi. «Myrrin…»
L’altro fece un gesto con la mano, quasi a voler liquidare la questione. «Mangia, Gyllahesh. Se non erro, hai un appuntamento in tarda mattinata.»
Lo aveva dimenticato. Improvvisamente, incontrare una donna non era più fonte di entusiasmo o aspettativa, non come prima. Gli era bastato sfiorare una pelle diversa, morbida, certo, ma dalla consistenza più forte, perché anni di arte sapientemente elargita venissero quasi accantonati. Doveva concentrarsi e lasciare da parte, almeno per il momento, il pensiero del viso di Nabir trasfigurato dall’estasi.
«Hai ragione, Myrrin.»
Tutto si sarebbe risolto, si disse, mentre mangiava la zuppa dolce. Qualunque cosa il suo vecchio amico pensasse, o pensasse di sapere, sembrava essere dalla loro parte. Gli bastava quello perché la giornata tornasse a sorridergli, doveri o non doveri. Avrebbe reso felice Nabir, anche se di nascosto.

***

Non aveva visto Gyllahesh per tutto il giorno. Nabir sapeva che la sua arte era preziosa, che serviva a mantenere lui e tutti gli uomini della famiglia, ma non per questo smise di avere pensieri egoisti a invadergli l’anima. L’uomo che lo aveva stretto e baciato aveva elargito le sue carezze e il suo calore a delle donne che non erano alla sua altezza, e che avevano potuto ottenere qualcosa solo in virtù del denaro che erano in grado di sborsare.
Era un pensiero maligno e che lo rattristava, ma la morsa che sentiva nello stomaco lo rendeva acido.
Myrrin aveva terminato di confezionargli un paio di pantaloni e una casacca semplice con la stoffa che avevano acquistato al mercato due giorni prima, e il rammarico di non potersi vedere nello specchio si aggiunse all’amarezza che lo rodeva dentro. Di nuovo, sapere che la sua presenza era un intralcio lo corrose, malgrado il buonsenso gli suggerisse che era meglio così. L’uomo per il quale il suo cuore si scaldava non era suo, non nel modo che avrebbe voluto. Si sarebbe dovuto accontentare di quello che Gyllahesh avrebbe potuto dargli, e che era comunque più di quanto si sarebbe mai aspettato. La sua sijianon sarebbe stata d’accordo, se lo avesse saputo, e probabilmente non lo avrebbe più degnato di uno sguardo, ma era lontana e lui non aveva intenzione di addolorarla mettendola al corrente che la sua stranezza non si limitava agli occhi, ma che raggiungeva profondità insospettate. Amare una persona del proprio sesso li poteva condurre solo verso un abisso di dolore, se fossero stati scoperti, ed era sua intenzione evitarlo per quanto possibile. Il terrore che lo aveva invaso il giorno prima, quando avrebbero potuto far del male a Gyllahesh, o addirittura ucciderlo solo perché era andato a cercarlo, era ancora vivo dentro di lui.
Non lo avrebbe spinto a manifestare il Legame, così come non lo avrebbe fatto lui. Non avrebbe mai messo a repentaglio la vita di Gyllahesh soltanto perché il proprio cuore sanguinava nell’immaginarlo con una donna. La notte prima, l’uomo lo aveva fatto sentire al centro del suo mondo. Niente egoismi o false speranze: lui viveva lì e poteva averlo tutte le notti. Doveva farselo bastare.

***

L’acqua calda e profumata in cui era immerso stava lenendo la tensione dei muscoli. Gyllahesh sospirò, adagiandosi all’indietro. Voleva rimuovere dalla pelle un profumo che non era il suo, prima di accostarsi a Nabir e stringerlo fra le braccia. Sbatté le palpebre e si perse per un attimo nei pensieri: da lì in avanti non sarebbe stato facile, ma ci sarebbe riuscito. Bastava tenere separata l’arte dal cuore, come aveva fatto fino ad allora. Il suo cuore sarebbe stato solo del ragazzo che gli era entrato dentro dal primo momento che lo aveva visto.
«Posso aiutarti?»
La voce timida ed esitante lo fece trasalire, e si voltò a guardare colui che dominava i suoi pensieri fermo sulla soglia della camera. Non aveva sentito la porta aprirsi. La bocca gli si aprì in un sorriso, mentre sollevava una mano.
«Ho quasi finito,» lo informò, guardandolo avvicinarsi.
«Posso lavarti la schiena,» suggerì Nabir, inginocchiandosi vicino alla vasca.
«Mmmh… Sono tentato di accettare.» Gyllahesh strinse la mano sul collo esile del ragazzo e lo attirò a sé, baciando quelle labbra dolci e sentendolo sospirare. Quando si allontanò, gli accarezzò il viso liscio. «Come stai?»
«Bene,» sussurrò il ragazzo. Prese la pezzuola che gli stava allungando e la passò con delicatezza sulla schiena. «È stata una giornata strana.»
«In che senso?»
«Sono stati tutti gentili con me, ma Myrrin si è superato. Credo di non essere mai stato coccolato così, in vita mia, nemmeno dalla mia sijia. Non ha voluto che alzassi un dito per tutto il giorno. È stato un po’ noioso, in verità.» Accompagnò la passata della pezzuola lungo la sua spina dorsale con piccoli baci delicati, che lo fecero rabbrividire ed eccitare. «Ah, e mi ha anche finito gli abiti, un paio almeno. Sono così morbidi, devono essere bellissimi.»
Gyllahesh trattenne il respiro, mentre dita e labbra si contendevano il diritto di toccarlo.
«Ne sono… felice.» Afferrò i bordi della vasca. «Ho finito, adesso.»
«Ho fatto qualcosa-»
Lui si girò di scatto, vedendo impresso sul bel volto la sorpresa e un accenno di sconforto, che aveva teso i lineamenti delicati in una smorfia. Senza dargli il tempo di muoversi, si sporse e lo baciò di nuovo.
«No,» disse sulle sue labbra. «Ma voglio stendermi con te in un letto, e se continui a baciarmi e a toccarmi come hai fatto fino a poco fa, mi renderai troppo stanco anche solo per parlare.»
«Tu, troppo stanco?» rise Nabir, alzandosi in piedi. «Non lo crederò mai.»
Gyllahesh rise con lui, sollevandosi dalla vasca e uscendone, avvolgendosi in un telo e torreggiando sul giovane uomo il cui viso ora risplendeva.
«Non sono più un giovincello, Nabir,» ribatté, prendendogli la mano e dirigendosi verso la porta che comunicava con la sua camera.
La porta si chiuse dietro di loro e lui lasciò cadere il telo. Desiderava vederlo nudo, lasciare scorrere le mani su quella pelle chiara. Fondersi in lui.
Gli abiti di Nabir finirono sul pavimento, ora nulla nascondeva il corpo snello e flessuoso e l’eccitazione del giovane. Era una vista magnifica, che fece rabbrividire Gyllahesh. Prese il ragazzo fra le braccia, beandosi del contatto di pelle contro pelle. Il viso di Nabir era splendido nella penombra, il candelabro poggiato sul cassettone donava alla sua pelle riflessi dorati che non celavano i suoi sentimenti.
Le loro bocche si incontrarono e si donarono baci languidi e lenti. Avevano tutto il tempo del mondo, la notte era soltanto loro.
Alla fine, Gyllahesh lo lasciò andare e il ragazzo fece due passi prima di raggiungere il letto e stendersi sulla schiena. Lo raggiunse, coprendolo con il proprio corpo e muovendosi su di lui fino a farlo gemere. La notte prima si erano dati piacere solo accarezzandosi e strusciandosi uno sull’altro, ora voleva di più. Ora voleva che Nabir gridasse il suo nome e lui fare altrettanto. Il corpo di un uomo era diverso, ma si augurava di non fare errori e, soprattutto, di non fargli del male. Era una promessa che non voleva disattendere, mai.
Lo sfiorò, lo fece sospirare. La mano si strinse intorno al suo membro e lo accarezzò.
«Gyllahesh…» ansimò Nabir, inarcandosi. Gli occhi verdi si aprirono su di lui, ed ebbe di nuovo l’impressione che lo vedesse. «Credi sia possibile-» Si interruppe, allungando le braccia e passandogli le dita sulla schiena.
«Che cosa?»
«Averti dentro di me, come fai con le donne.»
Quella domanda, quella richiesta, rischiarono di frantumare i suoi tentativi di prolungare il piacere. Avrebbe potuto farlo? Sapeva che c’era la possibilità, ma tra quello e agire esisteva un abisso.
«Credo… credo di sì.» Aveva il fiato corto. Cosa poteva fare? Improvvisamente, si ricordò dell’ampolla di olio profumato che usava per il bagno. Preso da una nuova urgenza, si sollevò di scatto, liberando Nabir del suo peso.
«Gyllahesh.» Il ragazzo sembrava allarmato, ma lui gli accarezzò il viso.
«Arrivo subito.» Nudo com’era, entrò nella propria camera e vide ciò che gli serviva sullo sgabello accanto alla tinozza. Afferrò il vetro freddo e tornò dal suo amante, stendendosi accanto a lui.
«Non l’ho mai fatto prima,» gli mormorò sulle labbra. «Ho paura di farti del male.»
«Non succederà.» Udire la rassicurazione uscire dalla bocca di Nabir lo fece sorridere. «Il mio corpo ti vuole. Io ti voglio.»
Madre Alcheria, aiutami.
Di quel passo sarebbe morto.
Stappò la bottiglietta, versandosi l’olio sulle dita e lasciando che il profumo inondasse la camera. Sperò che l’istinto lo aiutasse più di quanto stesse facendo il proprio raziocinio. Allungò la mano e la portò giù, tra le gambe aperte del ragazzo, toccandogli lievemente lo scroto fino a raggiungere quell’apertura calda e pulsante. Nelle donne, toccarla non produceva grandi entusiasmi, ma Nabir… Nabir gridò quando fece passare l’indice attraverso lo stretto anello di muscoli. E non era un grido di dolore. Era teso, questo sì, ma vederlo protendersi verso di lui, i fianchi sollevati, l’erezione che svettava sul suo ventre in attesa di…
Gyllahesh si chinò e passò le labbra e la punta della lingua sulla pelle inaspettatamente setosa del sesso duro, procurandosi un gemito in risposta. Arrivò fino in cima, percependo il sapore aspro e salato dell’eccitazione. Nel frattempo, aggiunse un altro dito a quello che già stava esplorando Nabir. Il cuore gli batteva forte, scoprendo quanto potesse usufruire della propria arte anche nel dare piacere all’uomo che amava. Continuò a leccarlo e a muovere le dita per allargarlo, finché le labbra non si chiusero sulla sommità turgida del membro di Nabir e lo accolse nella sua bocca.
«Gyllahesh! Mi stai uccidendo!»
Quella non era una morte da disdegnare, pensò fra sé, muovendo la testa su e giù. Si sentì afferrare le spalle e lo lasciò andare, sorpreso dall’impeto con cui il ragazzo si sollevò. D’un tratto, i ruoli si invertirono, e si ritrovò stretto nel calore della bocca dell’altro, deciso a donargli lo stesso trattamento. Fu bellissimo. Emozionante. Estremamente seducente. Nabir non vedeva che ombre, ma le sue mani e le sue labbra compensavano la mancanza della vista. Il piacere era così intenso che Gyllahesh tremò, ancora di più quando Nabir si sollevò da lui e scivolò sullo stomaco, voltandosi a guardarlo. Stava aspettando. Lui deglutì e si alzò sulle ginocchia, spostandosi tra le gambe piegate e aperte e sfiorandogli le natiche. Avrebbe dovuto prolungare i suoi tocchi?
«Gyllahesh?»
La nota interrogativa e densa di attesa lo fece decidere. Usò l’olio per bagnarsi e si accostò al corpo così sensualmente offerto. Nessuna donna lo aveva mai fatto, nessuna gli si era mai donata in quel modo generoso e aperto. Era lui che compiva l’atto, lui che offriva piacere. Il petto gli si riempì di calore e strinse una mano sul fianco di Nabir, avvicinandosi sempre più. Il suo sesso fremette, mentre scavalcava le barriere e veniva avvolto dal corpo del ragazzo che gemeva sotto di lui. Un improvviso terrore di avergli causato dolore lo bloccò, ma la testa di riccioli biondi si voltò e gli occhi verdi lo guardarono, velati da qualcosa che assomigliava molto alla passione.
«Sì…»
Gyllahesh spinse i fianchi in avanti e fu dentro di lui. Il gemito che udì sembrava un misto tra piacere e sofferenza, e una mano strinse la sua, chiusa su un fianco snello.
«Non avrei creduto… È così bello,» ansimò Nabir, e lui cercò di sorridere.
Cominciò a muoversi, pervaso da brividi e formicolii: il suo corpo non si era mai sentito così in contatto con quello di un’altra persona. Spinse, ascoltando i mugolii di Nabir, la voce rotta che lo incitava a continuare. Si sentiva rivestito di lui, completamente seppellito nel suo corpo. Non aveva mai provato un’emozione simile, andava al di là di ogni sua comprensione. Gemette quando lo stritolò in una morsa, conducendolo verso il piacere. Allungò la mano e strinse il membro rigido e bagnato di Nabir, la mosse per qualche istante e quando udì il piccolo grido contenente il suo nome uscire dalle labbra del ragazzo, si lasciò andare a sua volta. Mosse i fianchi, gridò, e riversò la propria essenza nell’altro. Gyllahesh gettò la testa all’indietro, il sudore a coprirgli il viso, respirando affannato. Poi si raddrizzò e si abbassò per posare lievi baci sulle schiena esile fino a raggiungere la nuca scoperta, seppellendo il viso tra i riccioli, mentre piano si ritirava da lui e lo accompagnava nello stendersi. Ansimavano entrambi, e Nabir si girò a guardarlo. Sorrideva, quando si avvicinò per baciarlo.
«È stato davvero bello,» sussurrò Gyllahesh sulle sue labbra.
Nabir annuì, accoccolandosi fra le sue braccia. «È sbagliato, secondo te?»
«Sbagliato?» ripeté. «Lo credi davvero?»
Il ragazzo scosse la testa, accarezzandogli il petto. «No, ma…»
Lui sorrise nella penombra. «Non so se sia mai successo, ma amare qualcuno non è mai un errore. Non mi interessa se sia qualcosa che non è mai accaduto a Endora, o se altri nascondano ciò che provano perché così vanno le cose.» Guardò il volto dolce alzato verso di lui. «Quando ero più giovane ho conosciuto degli Aldair. A loro non importava far sapere che i loro desideri non si limitavano alle donne. Non so neanche perché il mio cuore abbia cominciato davvero a battere quando ti ho conosciuto, ma non ho nessuna intenzione di rinunciare a te.»
Nabir sospirò piano, inondandogli la pelle di calore. «Quando mi sono reso conto di quello che sentivo per te, volevo fuggire, persino arrivare in quel ducato. La mia sijiami ha raccontato di quando era nell’esercito, di quegli uomini. Forse la mia diversità sarebbe stata accettata meglio, laggiù.»
«Tu non sei diverso, Nabir, perché allora lo sono anch’io. Se mai trovassimo delle difficoltà a vivere qui, potremmo prenderlo in considerazione, anche se dubito che essi accolgano qualcuno di un altro regno,» replicò Gyllahesh. «Lo dovremo tenere nascosto, ma voglio che tu sappia che nel mio cuore ci sei soltanto tu.»
Il ragazzo alzò su di lui gli occhi verdi, sul viso un’emozione che lo commosse. «E tu nel mio. E non ti intralcerò, te lo prometto.»
«Non potresti mai intralciarmi.» Gli accarezzò il viso. «E quando vorrai, potremmo andare a trovare Selia. Sono sicuro che le manchi, e vederti le farebbe piacere.»
«Sì. Mi manca anche lei.» Nabir si rilassò fra le sue braccia e gli posò la testa sul petto.
Gli posò un bacio sulla fronte e lo tenne stretto. Ascoltando il respiro farsi sempre più tenue mentre si addormentava, Gyllahesh guardò la stanza avvolta dalla luce tiepida senza davvero vederla. Il suo sguardo era rivolto al futuro. Le difficoltà sarebbero state molte, ma si augurava che non fossero così terribili come erano state in quei giorni. Nabir era lì, al sicuro, e lui lo avrebbe amato. Avrebbe dovuto continuare a mantenere la facciata intatta, quella di un libero amante esperto e premuroso, ma il suo cuore era di una sola persona, come sapeva essere suo quello di Nabir. Non avevano bisogno di altre parole. I baci e le carezze avevano già detto tutto. Non era un Legame usuale, e non avrebbero potuto mostrarlo, ma lo avrebbero reso loro nel silenzio di quella camera.
Con un sospiro, Gyllahesh si addormentò.

FINE