Come promesso, riparte il Diario di Viaggio a New York, di Chiara Vitali. QUI potete leggere le puntate precedenti.
«Non come il gigante di bronzo di greca fama, che a cavalcioni da sponda a sponda stende i suoi arti conquistatori; qui, dove si infrangono le onde del nostro mare si ergerà una donna potente con la torcia in mano, la cui fiamma è un fulmine imprigionato, e avrà come nome Madre degli Esuli. Il faro nella sua mano darà il benvenuto al mondo, i suoi occhi miti scruteranno quel mare che giace fra due città.
“Antiche terre, a voi il grande sfarzo!” Ella dirà con labbra mute.
“Date a me le vostre stanche, povere, rannicchiate masse, desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata!”» (Emma Lazarus, The New Colossus, 1883)
La frase con cui ho deciso di aprire la descrizione della gita di oggi è incisa all’interno del basamento in marmo della signora più famosa del mondo, la Statua della Libertà. Anzi, chiamiamola con il suo nome ufficiale, La libertà che illumina il mondo (Liberty Enlightening the World). Bellissime parole, quelle scolpite ai piedi della gigantessa, a opera della poetessa Emma Lazarus, a imperitura memoria dell’accoglienza americana verso i più deboli e i migranti. Ho l’impressione che un certo presidente si sia dimenticato di leggerle, e ora mi spiego meglio le centinaia di vignette che, a seguito delle elezioni, la videro a volte triste e sconsolata, ma sempre nelle vesti di indomito e coraggioso baluardo dei poveri e degli afflitti.
La passeggiata che dal nostro albergo ci porta a Battery Park è veloce e soleggiata. Arriviamo fino all’imbarco del vaporetto, a Castle Clinton, un piccolo forte circolare di scarsa importanza storica. Compriamo i biglietti e si parte, direzione Liberty Island, una piccola isoletta rocciosa in mezzo alla baia di Manhattan, sulla foce del fiume Hudson.
Piccolo inciso. Il biglietto acquistabile è di tre tipi: a quello base, che permette di accedere solo all’isola, è possibile aggiungere la visita al basamento, che contiene vari reperti relativi alla costruzione e la fiaccola originale, sostituita nel 1986 da quella attuale. Se invece voleste salire fino alla corona, suggerisco di acquistare il biglietto on line con mesi di anticipo, perché c’è moltissima attesa. Io non l’ho fatto perché il nostro viaggio era in pieno agosto, e l’idea di entrare nel ventre della balena metallica e salire 354 gradini con 30 gradi all’ombra non mi sembrava ottima!
Il traghetto parte, e pian piano ci avviciniamo alla signora. Quando finalmente la barca si è girata e ho potuto vederla in tutta la sua maestà sono stata colta da un sentimento potentissimo. La sua immagine è così famosa e così universalmente riconoscibile, da farmi sentire al cospetto di una divinità. Non sto scherzando: il simbolismo implicito nella sua maestà è sconvolgente, e le dimensioni e il posizionamento al centro della baia la fanno penetrare fin dentro l’anima di chi si trova ai suoi piedi. È bellissima, enorme e fiera. Madre accogliente, faro dei migranti, simbolo di arrivo nella terra promessa. I bambini si profondono in cori di “ohhhh” e “ahhhh” che non finiscono più, e quasi di corsa facciamo la strada che dalla banchina di approdo ci porta fino a lei.
Due cenni storici, che non credo facciano male. Dono del governo francese, venne costruita dallo scultore Bartholdi e dall’ingegnere Eiffel (quello della torre parigina). È arrivata via nave, smontata, ovviamente, nel 1885, e grazie a una sottoscrizione pubblica la città di New York raccolse i fondi per costruire il basamento. È costituita da una struttura metallica cava rivestita da sottilissime lastre di rame, dello spessore di 2 millimetri, rivettate l’una all’altra. Siamo abituati a vederla verde, perché il materiale ha subito il naturale processo di ossidazione, ma ve la immaginate, a fine ottocento, tutta rivestita di rame lucido? Doveva essere favolosa! Peccato non ci siano foto a colori a testimoniarlo, solo delle stampe che non rendono onore alla sua prima immagine.
La visita è molto bella, si gira tutto attorno al colosso, e ci si può fermare tutto il tempo che si desidera a fare foto e a guardare la baia. In zona ci sono delle deliziose bancarelle che vendono la vera limonata americana, con le fette di agrume dentro: deliziosa, dissetante, assolutamente yankee e da non perdere!
Un poco alla volta, e a malincuore, riprendiamo il traghetto per dirigerci a Ellis Island, seconda meta della giornata, raggiungibile con lo stesso biglietto acquistato in precedenza. Sopra l’isola si trova il Museo dell’Immigrazione, carico di memoria e molto commovente. L’edificio che lo contiene entrò in funzione nel 1892, quando i flussi migratori dall’Europa e dall’Asia verso la città di New York divennero importanti.
Nei locali originali è ospitato un museo della memoria, che parla delle origini di tanta parte della popolazione americana: su quel terreno, in quelle stanze, si sono incrociati i destini di milioni di persone, che qui approdavano e venivano controllate e selezionate. Tutti in cerca di un futuro migliore, tutti verso la terra promessa, con le valigie di cartone e le scarpe rotte. Venivano sottoposti a visite mediche e controlli burocratici, ma dovevano sostenere anche umilianti esami di logica e intellettuali, e solo dopo essere stati schedati potevano approdare sul suolo americano forti del permesso di soggiorno.
Davanti al Main Building sorge il Wall of Honor, un muro metallico in cui sono incisi i nomi di oltre 700.000 immigrati giunti a Ellis Island. Dall’isola, inoltre, si gode una vista di Manhattan assolutamente spettacolare, con lo skyline di grattacieli più famoso del mondo.
Durante questa visita, ci si sente trasportati indietro nel tempo, e si possono osservare, nei tre piani del museo, tanti oggetti e testimonianze di quei giorni pionieristici. Il Museo rende omaggio a tutti i migranti che sono passati attraverso i suoi cancelli, e che hanno contribuito a rendere l’America il paese che è oggi.
Una visita bellissima, istruttiva e commovente, che parla diritto al cuore, e risveglia i ricordi di tante famiglie di italiani che sono partite, sapendo ciò che lasciavano ma non ciò che avrebbero trovato.
Sono quelli che scrivono a Babette Brown: “Senti, avrei una cosetta da mandarti. Posso?”
E Babette, fregandosi le mani, incamera e pubblica.
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