IL WORLD TRADE CENTER e GROUND ZERO
La meta della prima giornata sul suolo americano è il World Trade Center, conosciuto, dopo gli attentati dell’11 settembre, come Ground Zero. Con una passeggiata di poco più di dieci minuti ci dirigiamo, inconsapevoli, verso quella che sarà una delle giornate più emozionanti ed emotive del nostro viaggio. A chi decidesse di visitare New York, suggerisco di dedicare un’intera giornata a questi luoghi, perché ne vale davvero la pena.
Come ogni bravo architetto che si rispetti ho fatto i compiti a casa, e so già cosa voglio visitare: l’Oculus, il 9/11 Memorial, il 9/11 Museum e la Freedom Tower (quest’ultima la troverete nella terza puntata del Diario di Viaggio. NDR). Simboli, tutti e quattro, della rinascita di Lower Manhattan, esempio di architetture strabilianti e voce dell’America che rialza la testa dopo lo strazio del 2001.
Iniziamo dalle cose semplici ma non meno belle, l’Oculus. Cosa diavolo è, vi starete chiedendo. Una stazione, rispondo pronta. Anzi, un HUB. Che parolone tecnico! Un hub non è nient’altro che un nodo urbano, che, tradotto sulla scala di grandezza newyorkese, significa che sto per visitare una enorme stazione di treni e metropolitana.
La Stazione. Quella con la S maiuscola. Bellissima, imponente, inaugurata nel 2016, è opera dell’architetto-ingegnere-scultore Santiago Calatrava, quello dei ponti metallici bianchi, per intenderci. Dai, non potete non conoscerlo. Non fa altro! Non è vero, scusami, maestro, so che sei uno degli autori più bravi degli ultimi 30 anni, adesso glielo spiego. Calatrava è un visionario, uno che lavora con travi, funi e volumi, fatevi un giro in rete a vedere le sue architetture, sono una più bella dell’altra. Ha impiegato 12 anni a finire la stazione di Manhattan, il cui nome ufficiale è World Trade Center Transportation Hub, ma è valsa la pena aspettare.
Progettata, esternamente, per assomigliare a una colomba che viene liberata dalle mani di un bimbo, dentro ti porta nel ventre della balena, e lascia il visitatore con il fiato sospeso. Bianca, bianchissima, come tutte le sue architetture, fatta di metallo e marmo italiano, ospita negozi, strutture ricettive e grandi marchi di moda. Dopo la distruzione del Mall, avvenuta negli attentati del 2011, questo è diventato il più grande centro commerciale di New York. Trae il nome dalla spettacolare volta in vetro alta 50 metri, che culmina con pannelli trasparenti che permettono di vedere le cime dei grattacieli che la circondano. Calatrava sostiene di essersi ispirato all’oculus del Pantheon di Roma. Oddio, quello è tondo, e qui di tondo non c’è nulla, ma lasciamolo fare, per carità, che poi si offende. Quando entriamo nel “ventre della balena”, la stazione vera e propria, ci accoglie una struttura che riproduce un sistema scheletrico composto da spina dorsale e costole, con un azzardo narrativo spettacolare. Credetemi, è una visita meravigliosa. Il mio architetto interno canta e balla in maniera scomposta.
Non riesco a spiegarvi cosa significhi, e vedo gioia e consapevolezza negli occhi di mia figlia e dei miei nipoti. Essere dentro un edificio di cui si è tanto sentito parlare dona un’esaltazione dei sensi impagabile. Quasi una sindrome di Stendhal.
Carichi come non mai, usciamo dalla stazione e ci dirigiamo a Ground Zero.
E il mondo ci casca addosso.
Devo essere onesta. Un italiano arriva impreparato all’impatto che questi luoghi gli causeranno. Come un maglio potentissimo, i ricordi mi travolgono, mi sconquassano e non mi lasciano andare via. Come tanti ho vissuto in diretta televisiva i fatti accaduti, ma nulla avrebbe potuto prepararmi alle lacrime che ho versato. Lacrime di rabbia, di dolore, ma anche catartiche. Perché gli americani, come nessun altro popolo al mondo, sanno rialzare la testa, e, orgogliosi e testardi, cantano un inno alla vita celebrando l’orrore della morte.
Quello che noi conosciamo con il nome di Ground Zero è oggi è l’enorme monumento del 9/11 Memorial. Ospita il progetto degli architetti Michael Arad e Peter Walker, dal titolo Reflecting Absence: sul sito delle fondamenta, dove due enormi crateri sprofondano nel terreno, sono state costruite due fontane. Il bordo metallico reca il nome di ognuna delle 3000 vite spezzate, sia di quelle degli attentati del 2001, che del 1993, sempre al WTC.
L’acqua che si getta in quei pozzi immensi è commovente. Atterra in due specchi d’acqua surreali, due enormi vasche di 4000 mq che occupano esattamente lo spazio dove un tempo si trovavano le Torri, e spiega il nome del progetto: la trasparenza del liquido riflette il cielo, e rammenta, a chi è rimasto, non solo l’assenza tangibile dei grattacieli, ma la perdita di chi non c’è più. È a tutti gli effetti un santuario, e l’esperienza uditiva dell’acqua che si getta nel vuoto e sembra sparire nel sottosuolo è impressionante. È un’acqua che non puoi fermare, come l’orrore, ma che rappresenta anche la vita e la rinascita. I nomi delle vittime sono incisi nel metallo, e i parenti, a ogni ricorrenza importante, portano un fiore e lo infilano nelle lettere che compongono il nome del loro caro. Si crea così un giardino della memoria che si rinnova di giorno in giorno, un monumento mai fisso, ma in continua trasformazione.
I bambini passeggiano tra gli alberi, silenziosi, attenti. Come glielo spieghi a un figlio un orrore del genere? Solo attraverso la testimonianza, tenendolo per mano, rispondendo alle sue poche domande. Il silenzio può dire tante cose.
Con il rispetto di chi sa che è di fronte a qualcosa di grande, siamo entrati nel museo dedicato agli attentati, 9/11 Museum. È uno spazio espositivo di 10000 mq, tutto sotterraneo, che costeggia le fondamenta della torri e permette di toccarle. Reca tre momenti narrativi legati agli attentati: il prima, con la storia delle Twin Towers, il durante, dedicato alla memoria, e il dopo, destinato alla rinascita. Si visita anche una esposizione permanente legata a coloro che hanno perso la vita l’11 settembre, i lavoratori del WTC e i tanti soccorritori di NY City che sono morti durante lo svolgimento del loro dovere.
È un percorso durissimo da fare. Mi sono ritrovata in un immenso spazio multietnico, con visitatori che venivano da tutte le parti del mondo, uniti in una unica certezza: quel giorno, in quel preciso istante, eravamo tutti americani. Eravamo tutti newyorkesi. Abbattute le distanze, travolte le differenze. Non c’è più lingua o colore della pelle che conti. Si cammina assieme, attoniti, versando lacrime salate.
Ti accoglie un immenso muro colorato, in cui ogni piastrella rappresenta una vittima. Ti guida verso gli ammassi di travi accartocciate, che erano proprio quelle contro cui è andato a sbattere l’aereo, alcune appese, come croci che portano 3000 Cristi, altre appoggiate a terra, come alberi che tentano ancora di stare in piedi. È surreale e dolorosissimo. Cammini lungo il bordo delle fondamenta, e parte il racconto di come le torri siano state costruite, in quello spirito, tutto americano, che adora auto incensarsi, e far vedere al mondo i suoi talenti. Poi arrivi nell’area multimediale e la pallottola del ricordo colpisce a fondo nella tua testa. Testimonianze video, audio e fotografiche dedicate al giorno dell’attentato. Le telefonate dei parenti che dagli aerei dicevano addio ai loro cari. I pensieri dei figli dei Vigili del Fuoco che hanno perso la vita nel tentativo di far scendere più gente possibile dalle torri, bambini che non cresceranno con i loro padri, ma che testimonieranno sempre l’eroismo dei genitori. I video di chi si buttava nel vuoto per sfuggire all’orrore di una lenta morte per soffocamento.
Piangiamo tutti, è impossibile non farlo. Ma New York è l’11 settembre. New York è la città che seppellisce i suoi morti e rende loro onore attraverso un monumento unico nel suo genere. Oggi abitiamo tutti qui. Oggi siamo vittime, salvatori, eroi. Indimenticabile.
La terza e ultima puntata del Diario di Viaggio di Chiara Vitali: 5 febbraio 2018.
Grazie a Wikipedia per le informazioni (vedi link).
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