Casa di bambola fu scritta da Ibsen in Italia, dove soggiornava spesso, nel 1879 e segnò una tappa fondamentale non solo per l’autore, ma anche per il teatro europeo dell’epoca.

La trama è nota. Il matrimonio di Torvald Helmer e Nora, a prima vista, è molto felice: fra loro c’è amore e passione e ci sono anche tre figli. Il problema è la condizione della donna secondo i costumi e le abitudini del tempo. Non che ci sia violenza fisica, maltrattamenti o tradimenti. Tutt’altro. Ma alle mogli le leggi dell’epoca non riconoscevano libertà e diritti, anzi per loro c’era una specie di passaggio dalla tutela del padre a quella del marito, i quali entrambi, poi, nella fattispecie trattano Nora come una bambola con cui giocare. Un’oca, noi diremmo, che non ha né deve avere autonomia di decisione e sentimento.

Helmer si rivolge a lei leziosamente, chiamandola allodola, scoiattolo e perfino lucherino, con allusione al fatto che è una spendacciona (lui crede). Quando è in casa, si aspetta che la moglie lo intrattenga e pensi solo a lui, è geloso pure delle sue amicizie femminili (per cui non ne ha), non gli piace neanche che cucia o faccia la maglia o comunque svolga qualche attività utile (invece il ricamo gli pare un’attività esteticamente molto più attraente). E le rimprovera continuamente il suo amore per i dolci (costringendola a mangiarli di nascosto come una bambina e a mentire sull’argomento). Lei obbedisce, un po’ perché è stata abituata così fin da piccola, un po’ per accontentarlo e proteggere la tranquillità del nido familiare. All’inizio sembra considerare tutti questi piccoli soprusi come difetti sopportabili, soprattutto perché ha molto amore e  molta stima per il marito, che ritiene integerrimo e moralmente superiore a suo padre.

La prima incrinatura si verifica quando scopre il motivo per cui ha licenziato dalla banca, di cui è appena diventato direttore, Krogstad, compagno dei tempi di scuola, che, nonostante dei precedenti disdicevoli, faceva un buon lavoro: era insopportabile per lui sentirsi dare del tu, le spiega.

NORA. Torvald, questo non lo dici sul serio.
HELMER. Credi? E perché?
NORA. Perché non si tratta che di meschinità.

Ma ovviamente il marito, offeso, la mette a tacere.

Il fatto è che in passato Nora ha avuto bisogno di procurarsi una grossa somma di denaro per accompagnare in Italia Torvald, afflitto da gravi problemi polmonari, e l’ha presa in prestito proprio da Krogstad, che dopo i suoi problemi con la giustizia fa l’usuraio. Però ovviamente le è stato chiesto in cambio un avallo maschile e, dal momento che Helmer non doveva sapere niente della gravità del suo male e suo padre era molto malato, Nora ha messo una firma falsa e da quel momento sta ancora facendo grandi sacrifici per finire di ripagare il debito. Ora Krogstad, minacciandola di denuncia per falso, pretende di essere riassunto in quell’impiego modesto, ma che gli serve per rifarsi una reputazione, soprattutto per l’avvenire dei suoi figli. Non occorre dire che Torvald non si lascia convincere in alcun modo e la moglie passa giorni terribili, prevedendo che la sua felicità coniugale sarà distrutta dalla rivelazione. E, mentre Torvald legge la lettera di Krogstad che svela tutto, medita il suicidio. Ciò perché si aspetta che il marito si assuma tutte le responsabilità per proteggerla e a questo preferisce il suicidio.

Invece la reazione di Helmer è durissima: manco le chiede perché abbia messo una firma falsa, sembra non capire che lo ha fatto per salvargli la vita o, se l’ha capito, non la giustifica per questo. Impreca contro di lei e contro il sangue di suo padre e progetta un avvenire in cui salveranno le apparenze, ma lui le toglierà il diritto di occuparsi dei bambini.

Invece per fortuna nel frattempo Krogstad, a seguito di una serie di avvenimenti, si è pentito di quello che stava facendo e  restituisce la cambiale.

Allora Torvald esulta e pensa che tutto possa tornare come prima.

HELMER Ah, povera piccola Nora, capisco bene, sembra che tu non possa credere che io ti ho perdonato. Ma è così Nora, te lo giuro: ti ho perdonato tutto. Lo so bene che quello che hai fatto lo hai fatto per amor mio.
NORA. Questo è vero.
HELMER. Tu mi hai amato come la sposa deve amare suo marito. Solo non sei stata capace di valutare con il discernimento necessario la scelta dei mezzi. Ma credi di essermi meno cara perché non sei capace di regolarti da sola? No, no, basta che ti appoggi a me. Ti consiglierò io, ti guiderò io. Non sarei un uomo se la tua debolezza femminile non ti rendesse doppiamente attraente ai miei occhi.

Una bella sfacciataggine! Ma ormai è troppo tardi: Nora ha aperto gli occhi e ha deciso che non può più rimanere con il marito.

HELMER. Tutto questo è rivoltante! Così sei pronta a tradire i tuoi doveri più sacri?
NORA. Che intendi per sacri doveri?
HELMER. Ho bisogno di dirtelo? Quelli che hai verso tuo marito e i tuoi figli.
NORA. Ne ho altri non meno sacri.
HELMER. Non è vero. Di quali doveri parli?
NORA. Dei doveri verso me stessa.
HELMER. Prima di ogni altra cosa, tu sei sposa e madre.
NORA. Non credo più a questi miti. Credo di essere anzitutto un essere umano, come lo sei tu… o che almeno devo sforzarmi di diventarlo. So che la maggioranza degli uomini ti darà ragione, e che anche nei libri dev’esserci scritto che hai ragione. Ma io non posso più ascoltare gli uomini, né badare a quello ch’è stampato nei libri. Ho bisogno di idee mie e di provare a rendermi conto di tutto.

Novella Antigone, Nora contesta tutto il mondo in cui vive.

NORA. Non posso risponderti. Non riesco a ritrovarmi nel tuo mondo. So soltanto una cosa: che le mie idee differiscono totalmente dalle tue. Anche le leggi non sono quelle che credevo. Che siano leggi giuste, ecco una cosa che non mi entra in testa. Risparmiare un’angoscia al padre morente; salvare la vita al marito, non sarebbe dunque un diritto per qualsiasi donna? Non può essere così!
HELMER. Parli come un bambino; non capisci nulla della società della quale fai parte.
NORA. Hai ragione, non la capisco. Per questo voglio veder chiaro. Per accertarmi chi di noi due ha ragione; la società oppure io.

Torvald non vuole perderla.

HELMER. Nora… non potrò mai diventare qualcosa di più di un estraneo per te?
NORA (prendendo la sua borsa). Ah Torvald, allora dovrebbe accadere la cosa più meravigliosa di tutte.
HELMER. Dimmela questa cosa più meravigliosa di tutte!
NORA. Sia tu che io dovremmo cambiare in modo tale che… Ah Torvald, non credo più alle cose meravigliose.
HELMER. Ma voglio crederci io. Dimmela. Cambiare in modo tale da…?
NORA. Da far sì che la nostra convivenza potesse diventare un matrimonio. Addio. (Esce).
HELMER (si getta su di una poltrona vicino alla porta e si copre il viso con le mani). Nora! Nora! (Si guarda intorno e si alza in piedi). Qui è vuoto! Non c’è più. (Si fa strada in lui una speranza). La cosa più meravigliosa…!?
(Da basso si sente sbattere il portone).

Con la porta che sbatte Ibsen ci fa capire che Nora non tornerà indietro.

Il dramma suscitò all’epoca un vero putiferio, destinato a durare praticamente fino al giorno d’oggi: in modo particolare si accusava Nora di essere una madre snaturata. Un secolo dopo, quando io mi preparavo al matrimonio, nei libri cattolici sull’argomento ancora si criticava severamente il finale del dramma e lo si accusava di becero femminismo. In realtà non era questo l’intento di Ibsen: nel suo teatro Casa di bambola è una pietra miliare nella lotta che egli condusse per tutta la vita per esaltare la dignità e la libertà dell’individuo, uomo o donna che fosse.

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Henrik Ibsen (Skien, 20 marzo 1828 – Oslo, 23 maggio 1906) è stato uno scrittore, drammaturgo, poeta e regista teatrale norvegese. È considerato il padre della drammaturgia moderna, per aver portato nel teatro la dimensione più intima della borghesia ottocentesca, mettendone a nudo le contraddizioni e il profondo maschilismo. Da Wikipedia.

La Rubrica “Il Taccuino di Matesi