Stefano Di Marino apre la serie dei “Belli d’azione” con Alain Delon (se volete morire di invidia, sappiate che l’attore girò “L’eclisse” di Antonioni nell’appartamento di fronte al mio. Mai avuto tante amiche come in quelle settimane!).

Delon per avvenenza fisica, capacità e altre doti che trasformano l’attore in divo ha giocato su diversi tavoli. Nel cinema mainstream basta citare “Il gattopardo”, “Rocco e i suoi fratelli”, ma anche “Mr Klein” e “L’Ultima notte di quiete” per rendersene conto. Quando ero ragazzino, anche nelle trasmissioni tv lo chiamavano “il bello”; con quella faciloneria che da sempre contraddistingue i programmi di spettacolo vario veniva descritto come l’idolo delle donne e la nemesi dell’uomo normale. Non è proprio così, soprattutto per i ruoli nel cinema d’azione, quello meno cerebrale e titolato che hanno visto una larga parte della sua carriera. In verità da “Frank Costello faccia d’angelo” a “Tony Arzenta”, Delon ha sempre avuto anche un pubblico maschile.

Di solito killer, spesso bandito o poliziotto, pubblico o privato. Piaceva alle donne ma questa è una caratteristica del divo d’azione, da sempre e dopo Bond sempre. Ma c’era qualcosa che invece di suscitare invidia favoriva l’identificazione dello spettatore medio che magari proprio avvenente non era. Penso fosse la capacità di mostrarsi sempre in controllo della situazione. Una questione di sguardi, di sceneggiatura ma anche di gestualità. Guardate la sequenza iniziale di “Per la pelle di un poliziotto”, film tratto con molta libertà da un romanzo di Manchette che era suo amico e che aiutò comprandogli molti romanzi che poi al cinema erano tutt’altra cosa. C’è una sequenza in cui il nostro estrae la pistola e spara al bersaglio che dice tutto del personaggio. Un manovale con il suo strumento. Non una sbavatura. Uno che, forse per il passato nella Legione o più probabilmente perché aveva degli stunt coordinator bravi a insegnargli come muoversi, come eroe d’azione era credibile.

E poi non era un arrogante. Anche quando aveva tutte le donne del mondo (che invidia in “Tre uomini da abbattere” quando seduce Dalila di Lazzaro che era donna aggressiva e volitiva, non certo sottomessa), c’era sempre una ferita che emergeva malgrado tutto. Come a dire che, alla fine era un perdente, proprio come tutti. E spesso ci lasciava le penne. Per ingenuità come appunto in “Tony Arzenta” e “Tre uomini da abbattere”. Uno capace di provare slanci d’affetto per il vecchio collega o la madre. E anche Anne Parillaud in “Per la pelle di un poliziotto” lo mette in riga ricordandogli che Belmondo, eterno rivale, ferito, avrebbe mostrato solo un contegnoso sorriso. Un uomo solo, alla fine. Come in “Scorpio” e in “Frank Costello”, ma anche in “I senza nome” o nel “Clan dei Siciliani”. Uno che, grazie ad abilità e fascino, può avere il grisbì, le donne e tutto il resto ma che, all’ultimo passo, inciampa. Una virile vulnerabilità, credo si possa dire.

Tra i film consigliati, naturalmente, anche “La Piscina” che d’azione non è, ma è la sintesi del noir di quegli anni che costeggiava il dramma umano. E fu lì che Romy lo colpì al cuore. Un po’ come accadde a noi. E questa è la ragione per cui, noi maschietti, cicciotti e forse non sempre all’altezza, lo consideriamo un amico e non un rivale. La ragione per cui scrivendo la serie Killer Élite il protagonista l’ho immaginato con il suo viso.

Vi segnaliamo “Duri da uccidere – Il cinema di Steven Seagal”, di Stefano Di Marino (Edizioni Shatter). Prossimamente in libreria.