Domenica e sto aspettando Umberto.
Dintorni di Parigi; fossero brutti li chiamerebbero periferia.
Veramente a trenta chilometri da Parigi nell’Hotel de charme. È tutto come prevedevo.
Campagna spoglia, ormai è finita la stagione dello splendore autunnale, niente foglie d’oro rosso… E non è cominciato quello invernale, con la neve candida come nelle cartoline e i ciocchi nei camini. È grigiore opaco e silenzio.
L’albergo è perfetto, arredamento di gran classe, ma stucchi e dorature mi hanno sempre fatto pensare alle menzogne di un set pubblicitario o, nei giorni peggiori, alle tombe di Staglieno.
Il personale si confonde con le pareti: compare soltanto se lo cerchi.
Non un cameriere o un’inserviente con cui scambiare una battuta. La tv in camera è mascherata dietro un quadro, copia di un Monet.
Copriletto di raso, come la testata del letto. Negli asciugamani ci si affonda tanto sono morbidi.
Cosa posso chiedere di meglio?
Ho l’impressione di essere l’unica cliente: non si sentono voci o porte che si aprono e si chiudono.
Non so cosa pagherei per sentire un vicino che tira lo sciacquone del water o canta facendosi la barba.
Subito dopo mezzogiorno scendo in sala da pranzo perché in camera impazzisco: ho bisogno di un contatto umano. Voglio una coppia un po’ cafona, ma vitale… Qualche bambino che strilla. Un ragazzino che mastica a bocca aperta. Una madre esasperata che molla uno sganassone. Che non sarà in linea con la moderna pedagogia, ma è un segno di vita.
Umberto sapesse i miei pensieri mi guarderebbe con riprovazione: da cinque anni sta cercando di far emergere la signora che è in me.
Nella sala da pranzo, pochi tavoli, apparecchiati per due, ben distanziati e separati da cortine di piante verdi, anzi sempreverdi, con le tovaglie di lino in colori tenui, c’è soltanto un’altra coppia. Devono essere verso i settanta.
Sono riuscita a notarli soltanto perché ci siamo trovati all’ingresso quasi contemporaneamente. Loro mi precedevano, ma l’uomo ha posato una mano sul braccio della compagna quasi per trattenerla, ha risposto al mio saluto con un cenno garbato e mi ha ceduto il passo.
È difficile vedere bene le persone agli altri tavoli, ma ormai sono riuscita a trovare la traiettoria giusta fra una felce e un addobbo floreale.
I due pranzano in silenzio.
Impeccabili, silenziosi. Lui ogni tanto le prende la mano mentre sono a tavola.
Lei ha un tailleur Chanel sui toni dall’azzurro al blu, capelli biondo cenere ben acconciati, camicetta candida di seta e filo di perle con fermezza d’oro bianco e zaffiro. In parure con gli orecchini. Il trucco ci deva essere ma è così lieve come non ho visto mai.
L’abito scuro del suo compagno è impeccabile.
Sembrano morti, imbalsamati bene.
Ma non ho altre possibilità… Quando capisco che stanno alzandosi per andare via, li imito: se non scambio due parole con qualcuno sarei morta soffocata dal silenzio.
Vedendomi, l’uomo mi rivolge un cenno di saluto. Non aspetto altro. — Bon soir…
L’uomo alza i sopraccigli, forse irritato forse soltanto stupito, ma la donna risponde subito: — Siamo italiani anche noi.
Lui le posa una mano sul braccio, forse per guidarla lontano, ma lei fa resistenza.
— Come avete scoperto che vengo dall’Italia?
Lei abbassa il braccio, di colpo, la mano dell’uomo resta per un attimo a mezz’aria e poi si abbassa. — Siamo clienti abituali, veniamo qui due volte l’anno. A novembre e a febbraio.
Che brutti mesi per un posto così, mi dico, ma non commento. Anzi spero che la sua espressione non faccia notare che la trovo una scelta insensata. Non voglio che si offendano: ho troppa voglia di scambiare quattro chiacchiere!
La donna continua e mentre parla si dirige verso un salotto. L’uomo ci segue. — Veniamo qui da tanti anni. A febbraio, a volte, capita qualche altro cliente, ma a novembre… Abbiamo notato subito il suo arrivo!
— Hai notato. Io non interferisco nella vita degli altri e non la controllo – puntualizza lui.
Lei alza le spalle e indica una coppia di poltrone davanti al caminetto acceso. C’è parecchio caldo, ma forse fa romantico… — Potremmo parlare un po’…
— Non essere importuna, Nelly. La signorina avrà di meglio da fare.
Signorina: da quanto tempo non mi sento chiamare così? Anzi, a pensarci bene, nessuno mi ha mai chiamata così. Forse lui ha notato che non porto la vera. Ma ormai il confine fra nubili e coniugate è così sfumato che quel “signorina” è un pezzo d’antiquariato. Però quei due mi incuriosiscono. — Non ho niente da fare. Anch’io scambierei quattro chiacchiere. Se voi conoscete i dintorni, forse potrete consigliarmi qualche meta per una gita.
La donna fa un gesto verso il suo compagno. — Vai, ti raggiungo più tardi. Hai ancora da finire il tuo quotidiano.
Lui rimane impassibile, ma deve essere irritato perché si allontana camminando impalato come un manico di bastone. Anche Umberto ha quel modo di camminare quando qualcosa non va come vuole lui.
La donna si lascia andare su una poltrona e mi indica l’altra. — Non mi chiamo Nelly. È lui che ha la fissazione di chiamarmi così, lo trova più eccentrico, più romantico. — Porge la mano. — Giovanna Salvadori.
— Laura Arnolfini.
— E come mai una ragazza giovane come te… Possiamo darci del tu, vero? — Annuisco in risposta. — Come mai sei finita in questo buco? Perché, diciamolo, è di charme ma è il massimo della noia anche per una come me che ha settant’anni. Per te deve essere terribile. Peggio di un deserto. — Abbozza una risata. — Di certo. Nel deserto almeno passa la Parigi-Dakar. Qui neppure quella.
— Non l’ho scelto io. — Questa Giovanna Salvadori è simpatica, ma come posso dirle di Umberto? Non che si vergogni di avere una relazione con un uomo… No, la verità è che mi sto vergognando di lui. Di come mi tratta.
— Neppure io l’ho scelto. Sarà anche elegante ma mi mette una tristezza… — Si interrompe e continua in tono più allegro: — Se ci prendessimo un tè? O qualcosa di più forte? Dopo pranzo un Porto non mi dispiace o un cognac.
Mentre annuisco il cameriere è già pronto per prendere le ordinazioni.
— Porto? Se preferisci dell’altro…
— Porto anche per me.
— Lui, Rodolfo, dice che l’alcol alla nostra età fa male, ma un bicchierino mi tiene su. — Apre la borsa, piccola e di pitone. — Anche una sigaretta. — La accende con calma e poi con la prima nuvola di fumo mi dice: — Rodolfo non è mio marito. Che sciocca! Stavo per dire che non siamo sposati, ma lui lo è. Vecchi amanti. — Rigira l’anello che porta al dito: uno zaffiro di taglio classico. — Da quarant’anni.
L’arrivo del Porto, con due bicchieri, mi salva dal manifestare stupore: amanti da quarant’anni! Non è possibile.
— Avevo trent’anni, ero una steno-dattilografa. Ora non si sa neppure più cosa sono, ma allora in ogni ufficio ce n’era più d’una. Tutte donne. Indispensabili. Vivevamo accanto ai capi: guadagnavamo come le altre impiegate, ma sapevamo sempre tutto, per prime. Quando ti chiamavano per stenografare in sala riunioni ti sembrava di entrare nelle stanze del potere. — Chiude gli occhi. — E pensare che avevo cominciato solo per mantenermi, ma i miei sogni erano altri. — Riapre gli occhi e mi fissa con un’intensità quasi imbarazzante. — Ma io sto qui ad annoiarti con la storia della mia vita…
— Non mi annoia… — Subito mi correggo: — Non mi annoi affatto, Giovanna. E così non volevi restare una dattilografa.
— Eh, no! Il teatro o il cinema. E non per mettere in mostra una bella presenza che allora non mi faceva difetto.
Annuisco. — Si vede ancora.
— Ma per passione, capisci. Mi ero anche iscritta ad un corso di recitazione e dicevano che avevo talento. Lui non ha voluto: un brutto ambiente. Ma forse non voleva dividermi con nessuno. — Un guizzo gli illumina lo sguardo. — Forse aveva paura che lo lasciassi. Forse gli faceva comodo avermi sempre disponibile. — Fa una pausa. — C’è qualcosa di più classico e piuttosto squallido? No, penso di no. Eravamo già amanti quando ha sposato un’altra.
Per poco non mi va il Porto di traverso: è come essere catapultata nel mio possibile futuro.
— Doveva sposarla, capisci, per la carriera. Volevo lasciarlo. Ma mi ha detto che mi amava. Che non poteva stare senza di me.
— Deve essere stato difficile.
Giovanna alza le spalle. — Sai quale è il guaio? Ci si abitua a tutto, si accetta tutto. Le feste con la famiglia, niente uscite insieme. Attimi rubati e solitudine. E poi ti svegli un mattino e scopri che non lo ami più, che ti è indifferente, ma senza di lui la tua vita è vuota. E continui, da vigliacca.
Non dico nulla: dannazione, la capisco troppo bene! Anch’io mi sento così.
Vuota il bicchiere. — Bevo troppo, lo so. Mi tranquillizzo dicendomi che non sono un’alcolista… Spero che sia vero.
Non so cosa dirle. Sono la persona meno adatta per darle conforto.
— Il tuo Rodolfo come si chiama? — E si versa un altro Porto.
— Umberto. — Anche se lui mi raccomanda sempre di non raccontare i fatti loro a NESSUNO. E ora che ho cominciato che senso ha nascondere il resto? È facile parlare con Giovanna…
Quando finisco raccontandole del futuro matrimonio con la figlia di Samperi, Giovanna accende un’altra sigaretta e commenta: — Mi viene da dirti che la tua storia rischia di diventare come la mia, un ergastolo. Ma tu sei ancora in tempo a scappare.
— Mi sento in mezzo a un guado.
— Nessuno può vivere la tua vita al posto tuo, Laura. Anche i consigli hanno poco senso. Forse a te andrà meglio. Forse lui non ti userà come passatempo. — Posa una mano sulla mia. — Lo ami?
— Lo sapessi!
— La lampada di Aladino.
La fisso: questa gentile settantenne deve aver bevuto troppo e straparla… O sono io ad aver bevuto troppo e non capisco più niente. — La lampada di Aladino?
— Sì, la sfreghi ed esce il genio della lampada, pronto ad esaudire un tuo desiderio. Se il genio della lampada fosse qui cosa chiederesti? È un gioco, proviamo a farlo. Un desiderio ed uno soltanto: il tuo Umberto verrà e ti dirà che è stato un equivoco, non sposerà Clelia.
Non dico nulla. Non è il futuro matrimonio che rende difficile la nostra storia, questa è soltanto l’ultima goccia: ormai me ne rendo conto.
— Verrà e ti dirà che ti ama e vuole vivere con te, per sempre.
Tutta la vita con Umberto. Tre giorni prima avrei scelto senza dubbi quella possibilità. Ma in questi tre giorni ho respirato boccate, piccole ma inebrianti, d’aria diversa.
— E allora?
È così chiaro, mi stupisco di non averci pensato prima. Ma nel mio inconscio il progetto c’era già: anche la mestruazione anticipata deve farne parte. Il mio corpo è meno scemo di me. — Fargliela pagare?
Giovanna scoppia a ridere. Una risata sonora, ancora giovane come chissà da quanto non risuona fra quegli aulici arredi. Ride battendo le mani. — Questa sì che mi piace! Allora c’è ancora speranza per tutte noi! Vendetta. Bene. Organizzati.
— Non so da che parte cominciare.
— Fatti guidare dall’ispirazione del momento. Se ti sei presa laurea in ingegneria e master a Londra piuttosto intelligente lo sarai.
— Quando sono con lui il cervello mi va in pappa.
Giovanna mi stringe un polso. Non sembra forte eppure la sua stretta fa quasi male. — Vuoi diventare come me? Se vuoi non è difficile. Dire di sì è facile. Ora devo andare. — Si alza, sostenendosi ai braccioli della poltrona, barcolla appena. Il livello del Porto nella bottiglia è sceso di un bel po’ mentre le ho raccontato la mia storia con Umberto. — Se tardo mi mette il muso. — Ha di nuovo la voce un po’ petulante da anziana signora… Ma forse era soltanto colpa dell’alcol.

Domenica sera
Mi guardo allo specchio, Umberto dovrebbe arrivare fra poco. Se verrà.
Spero che venga. Non so se lo spero per stare con lui o per iniziare la mia vendetta. È stata lei, la signora in Chanel, ad aiutarmi a focalizzare la situazione.
Mi sentirei doppiamente defraudata se non venisse.
Mi guardo allo specchio. Cerco di prevedere la sua reazione alla nuova pettinatura, colore incluso, al trucco.
Alla mia voglia di rissa.
Sento un fruscio in corridoio, poi due colpetti brevi ed uno più lungo. È Umberto. Tutto quest’apparato gli piace. Lo fa sentire importante. Non penso che sia soltanto prudenza.
La parola prudenza gli piace: già la seconda volta che siamo andati a letto insieme ne ha fatto un grande uso.

LAURA-UMBERTO (ATTO 2°)
Come le era accaduto di avere di nuovo Umberto fra le lenzuola? Ecco, Laura se lo era chiesto subito.
Invitato non l’aveva. Ma neppure lui l’aveva costretta. Ma era successo, di nuovo. Anche se si era ripromessa di non ripetere l’esperienza. Non che lui non fosse un amante accettabile, ma era proprio lui, come persona, che non le andava…
Eppure, Umberto era di nuovo lì, nel suo letto. E parlava…
— Dobbiamo essere prudenti, Laura. Lo dico per te.
— Prendo la pillola, non preoccuparti.
Lui continuò: — Non dico prudenti in quel senso. Non è opportuno che in ufficio si sappia di noi.
— Che cosa c’è da sapere? Stai tranquillo, sono abbastanza riservata. Non metterò un avviso.
— Lo so, ti ho studiata in queste settimane ed ho apprezzato la tua riservatezza. — Prese l’orologio che aveva tolto e posato sul comodino. — Se sapranno della nostra relazione…
— Abbiamo una relazione? — Neppure che gli piaceva le aveva detto.
— Cosa pensi? Ma che tipo d’uomo pensi che io sia, Laura? Se non provassi qualcosa per te non sarei qui!
— Sì, certo. — Cercando di scoprire se lei provava qualcosa per lui. Qualcosa di positivo.
— Mi hai interrotto e ora…
Lei l’aveva già notato in ufficio: se lo si interrompeva, perdeva facilmente il filo del discorso. Automaticamente lo aiutò: — Dicevi che se sapranno della nostra relazione…
Umberto annuì. — Direbbero che ti aiuto, avrebbero dei dubbi sulle tue reali capacità.
— Dovrebbero avermi già conosciuta… Sono alla TEXA da qualche mese.
Lui abbozzò un sorrisetto. — Ma non ti sei accorta che ti ho aiutato?
Dannazione, lei non se ne era proprio accorta…
— Faremo così. In ufficio ci comporteremo come sempre e ogni volta che sarà possibile staremo insieme.
Da idiota patentata lei aveva pensato che quella segretezza era sì scomoda ma anche piuttosto romantica. Non aveva mai avuto storie romantiche e un po’ ne sentiva la mancanza.
Da quel giorno Umberto le aveva dato lezioni di prudenza.
Però niente pillola.
Quando aveva chiesto perché, l’aveva guardata con riprovazione. “È contro natura.”
Spirale? “Dannosa.”
Allora una ragazza sveglia del duemila cosa pensa? Sotto sotto vuole che resti incinta.
Manco quello. Quando lui le aveva comunicato che sarebbero stati attenti aveva faticato a capire. Lei, Laura Arnolfini!
Stare attenti era stressante e rendeva molto meno divertenti i rapporti. I primi tempi cercava di distrarlo… Poi si era assuefatta. Prudenza anche fra le lenzuola.
Proprio fra le lenzuola perché non una volta era riuscita ad indurlo a fare sesso non in un letto. “Siamo adulti, Laura, non ragazzini.”
Vero. Ma non chiedeva posti strani, soltanto un banale divano…
A tutto si fa l’abitudine.

Lunedì
Orly: aspetto che chiamino il mio aereo per Genova. La mia vacanza è stata breve ma efficace.
Sono rimasta poco più di ventiquattro ore, ma ho dato una bella sterzata alla mia vita. Non so se sentirmi felice o distrutta.
Di certo la seratina non ha reso felice lui. In attesa del suo arrivo avevo analizzato la situazione con cura.
Prima possibilità: affrontarlo di brutto; seconda: far finta di niente, ma per sempre. Ce n’era una terza: potevo far finta di niente e prenderlo in contropiede.
Sarei stata radiosa, amorosa, succosa… tanto da spiazzarlo. Niente parure color champagne.
Mi era provata il completino, un po’ puttano, quello nero con i nastri rossi. Mi stava da schianto! L’unico guaio era che forse gli metteva voglia. Ed io di fare sesso con lui ne avevo? Se dopo potevo ucciderlo come le vedove nere, altrimenti ciccia!
Però non usarlo mi spiaceva.
Allargato sul letto faceva una gran figura, allusiva.
Potevo indossare qualcosa di ugualmente spiazzante e che, ne ero certa, non gli avrebbe messo voglie. Abitudinario. Forse fifone? Di solito chi si tiene strette convinzioni ed abitudini ha paura di buttarsi, di provare…
Per l’ora prevista di domenica pomeriggio avevo tutto pronto: ormai avevo una laurea in prudenza e un master in segretezza. Dovevo spegnere la luce centrale, lasciare accesa solo la lampada accanto al letto. Gli dovevo aprire senza far rumore, poi richiudergli la porta alle spalle: come da istruzioni.

Domenica pomeriggio
Dai passi nel corridoio Laura capì che lui era soddisfatto di sé: dopo quasi cinque anni come amante clandestina di un uomo lo si conosce bene, forse meglio di una moglie.
Alterò il rito. Accese la luce centrale senza preavviso e lo salutò a voce alta: — Ciao, Umberto.
Il modo con cui lui irrigidì le spalle ed il collo, animale sulla difensiva, la ripagò di molto. L’espressione dei suoi occhi e le labbra strette in una fessura portarono la bilancia in pareggio.
Non si aspettava di trovarla così, chiaro. Si aspettava la parure di seta color champagne…
Laura accese la luce centrale godendosi l’espressione di Umberto. Lui posò la valigia, come sempre aveva dato disposizioni che la lasciassero davanti alla porta e non entrassero, per prudenza, con una mano tolse gli occhiali e con l’altra fregò gli occhi. Forse la luce imprevista gli aveva dato noia…
No, non doveva lasciarsi riprendere nella rete, si disse Laura! Era più probabile che lui credesse di essere precipitato in un incubo e volesse svegliarsi. Lanciò un’occhiata ai pizzi sciorinati sul letto e poi alla donna in jeans e maglione.
— Ciao, Umberto! — Lo salutò a voce alta.
Lui rimase lì, a bocca aperta, come un pesce all’amo. Poi, a fatica, articolò qualche parola.
— Come hai detto? Non ho capito. — Chiese Laura, allontanandosi dalla porta.
— Ti chiedevo cosa c’è.
— Niente. Cosa vuoi che ci sia? Ho pensato che vista l’ora potevamo andare a cena.
— Pensavo di farcela portare in camera… Dopo… — Stava cercando di riprendere il controllo della situazione. — Lanciò un’occhiata a quelle belle cosine sul letto.
Dannazione se ho fatto bene a non mettermele, si disse Laura e serafica replicò: — Sono stata chiusa in camera tutto il giorno, ho voglia di un po’ d’aria.
— Abbiamo il terrazzino.
— Ci ho passato ore. — Prese la borsa. — Su, andiamo.
— Esci così?
Laura si guardò allo specchio. — Ho qualcosa che non va?
— Sai che non mi piacciono le donne in pantaloni. In viaggio, in montagna, ancora sul lavoro… Ma qui, in queste circostanze…
Temeva che decidesse di essere lei a portare i pantaloni? Probabile.
— Ma dai. Ceniamo e torniamo su. Non ho voglia di perder tempo a cambiarmi. In fondo, che cosa ho che non va? — commentò Laura, fingendo che jeans neri e maglione rosso fossero una tenuta adatta per una cenetta romantica in un hotel de charme.
— Andiamo. Ne parleremo dopo — replicò Umberto, risentito.
Scesero in sala. Umberto cercò di pilotarla verso un tavolo ancora più appartato dagli altri, ma lei fece finta di non capire e si piazzò da dove poteva vedere ed essere vista. Anche se non c’erano altri clienti…
Umberto aveva appena ordinato, senza chiederle, perché lui si era documentato sulle specialità della maison, quando Laura sentì dei passi dietro di sé.
— Ingegner Follini! — era la voce di Giovanna. — Ma che sorpresa trovarlo qui, in questo angolo di mondo!
La faccia di Umberto virò dal pallido al rosso fuoco e di nuovo al pallido con sfumature verdi, mentre lui alzava gli occhi, cercando di capire cosa stesse accadendo.
E anche Laura si bloccò, incerta.
Ormai Giovanna era accanto al loro tavolo e si era fermata, nonostante il suo Rodolfo cercasse, senza dare nell’occhio, di trascinarla via. Inutile: si era piantata lì e non sembrava intenzionata a muoversi. Laura cominciava a godersi la scena…
Umberto cercò di ritornare normale e con voce un po’ strozzata chiese, freddo: — Ci conosciamo, signora?
— Ma come, non si ricorda? Siamo stati presentati, ingegner Follini. Ma forse dovrei chiamarla Umberto, diventeremo parenti, un po’ alla lontana, ma parenti. Sono una zia della nostra Clelia. — Si guardò attorno con gesto un po’ eccessivo e chiese: — Sta scendendo, vero? — Non aspettò risposta. — Ma se l’avessi saputo che venivate anche voi, saremmo venuti tutti insieme. — Chinò lo sguardo su Laura. — La signorina è un’amica di Clelia?
Laura per poco non si strozzò cercando di non ridere vedendo la faccia di Umberto: sembrava prossimo al collasso, visto che fuggire non poteva.
— No, è una mia collaboratrice. Siamo qui per lavoro.
— Oh, che noia il lavoro! State valutando qualche brevetto?
Avrà anche avuto settant’anni, la Giovanna, si disse Laura, ma aveva un’ottima memoria: ricordava tutti i dettagli. E recitava veramente bene. Davvero, avrebbe dovuto fare l’attrice!
— Però un po’ di tempo per tener compagnia a due anziani signori lo troverete di certo. — Decisa, fece segno al cameriere di accostare altre due sedie e prese posto davanti a Laura.
Il suo Rodolfo cercò ancora una volta di opporsi, ma lei fece finta di non capire.
E Laura si adeguò. In fondo era divertente. Non aveva mai visto due uomini così a disagio.
Una cena memorabile. Lei e Giovanna mangiarono, e bevvero, allegramente, mentre i due uomini continuarono a rimandare indietro piatti quasi pieni. Quando era disturbato nel mangiare, come diceva lui, Umberto diventava intrattabile, forse perché era debole di stomaco. E lo provò appena ritornarono in camera.
Si chiuse la porta alle spalle e si girò verso Laura. — Lo sapevi?
— Cosa?
— Che veniva una parente di Clelia?
— E chi è Clelia? — Si sfilò il maglione, restando in reggiseno. — Non ti spogli?
— Quella pazza l’ha nominata tutta la sera.
— Una tua parente? Non ho mai conosciuto i tuoi parenti? — Abbassò la cerniera dei jeans, restando in slip. Neri, come il reggiseno, e molto ridotti.
— Non è una mia parente. E non ho mai conosciuto quella vecchia pazza.
Laura gli voltò le spalle e ancheggiando si diresse verso il letto. — Senti, se sei stanco e non ne hai voglia dillo subito. — Gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. — Ho notato che hai anche mangiato poco. Sei sicuro di sentirti?
— Non ho mai conosciuto quella vecchia pazza. — Sedette sulla poltroncina dorata e cominciò a slacciarsi le scarpe, lui odiava i mocassini. E quindi c’era sempre il rito di allacciare e slacciare.
— Mi sembra che tu non ti senta di farlo.
— Mi sento, dannazione! — esclamò Umberto.
— Per favore non imprecare — lo corresse Laura con il tono di voce che aveva sempre usato lui. — Si infilò in bagno, dicendo: — Mi do una rinfrescatina. — Aprì l’acqua e poi gridò per farsi sentire: — A proposito chi è Clelia, Berto?
— Una. — Ma la risposta impiegò parecchio.
— Non ho sentito — gridò di nuovo.
— Una parente!
— Di chi? — altra gridata, non era fine, non era educato, ma le scaricava i nervi.
— Mia.
Laura si spruzzò di profumo, lui era allergico ai profumi… Li aveva sempre evitati anche se le piacevano. E questo era una bomba. Dior, versione essenza.
Uscì dal bagno. — Chissà perché continuava a parlare di quella Clelia… — Alzò le spalle. — Pensi che dica a tua madre di averti visto con me? Certo che sarebbe un problema: siamo sempre stati così prudenti. Ha una tal paura di perderti! Per fortuna sei un figlio affettuoso e comprensivo e non la lascerai mai.
Umberto annuì.
— Non ti sposerai mai, lo so, per non lasciare MAMMA. — Gli si avvicinò con passo da odalisca. Vicino a lei, quando stava in San Donato, c’era un’egiziana che si esibiva nella danza del ventre e le aveva dato qualche lezione. Come succede: Laura le aveva insegnato ad usare il computer e così, per ricambiare… Le era sempre dispiaciuto di non aver avuto l’occasione di mettere a frutto quelle lezioni così divertenti. Per un po’ si sentì Cleopatra. Ma Umberto non era Richard Burton.
Infatti, Umberto arretrò, mentre Burton avrebbe colto l’occasione al volo. Forse per quella frase “Non ti sposerai mai” forse per sfuggire alla nuvola di profumo, ma Laura lo tallonò stretto spingendolo verso il letto.
Le luci erano accese e lui non si era ancora spogliato: era buffo. Giacca, pantaloni e calzini.
— Sei strana… — Balbettò.
— Ti ho tanto aspettato, Berto. — Allungò una mano nel gesto di slacciargli i pantaloni.
— Io… Io… — Il profumo stava facendo effetto, ne aveva spruzzato anche un bel po’ nella stanza. Uno scherzetto costoso, ma valeva la spesa.
Umberto era diventato così verde che per un attimo Laura provò pena. Ma no. Quante volte lei era stata male? Si scostò per lasciargli libero la strada verso il bagno.