LAURA
Lunedì
La prima cosa notevole della giornata è stata l’espressione radiosa di Maura, la seconda una strana telefonata, al mio ritorno a casa.
Ho appena tolto il trapunto arancione (ereditato da Lucy: ormai le tira e la fa sembrare un melone) quando squilla il telefono.
— Laura.
— Scusami, non mi conosci, non vorrei disturbare…
E questo chi è? Uno che vuole vendermi qualcosa: ho la casa piena di cose inutili, anche la mia vita avrebbe bisogno di una ripulita.
— Cosa vuoi?
— Sono un amico di Paola.
— Paola?
— Paola Pulcra.
Un amico di Pupa che però non la chiama Pupa. E il mio numero come l’ha avuto? — Sta male? Ha avuto un incidente? Sei un dottore? È in Ospedale? Al Pronto soccorso di San Martino? È ancora viva? — Mentre terrificanti immagini di Pupa ferita in coma o morente mi si accavallano dentro. Non mi sono riconciliata con lei non le ho detto che le voglio bene che è la mia più cara amica…
— Datti una calmata, Laura. Paola sta bene. Sono io che sto male.
Ora, di casini nella mia vita e circondario ne ho anche troppi, ma un amico di un amico è un amico… Non posso rispondergli che non me ne potrebbe fregare di meno. — Cosa c’è?
— Senti, Laura, è una faccenda lunga, difficile parlarne per telefono. Se potessimo vederci… Quando preferisci.
Per domani ho da rivedere una relazione su un brevetto, qualcosa non mi convince tanto… Poi, buona regola, mai dire sì a tamburo battente. — Domani?
— Domani sera una pizza? Offro io.
— Niente pizza. Da Squarciafico e facciamo alla romana. — È un test. Da Squarcifico si mangia genovese… Chiederà dove è?
— Vada per Squarciafico, ma non alla romana. Considerala una consulenza.
A me un uomo che ti offre cena da Squarciafico fa già buona impressione.
— D’accordo.
— Ci vediamo lì?
— Alle otto?
Conferma che alle otto gli va bene.
— Come ti riconosco?
— Ho i capelli rossi, veramente sull’arancio. E tu?
— Neri. Ma ho un trapunto arancio.
— Allora d’accordo.
Ha riattaccato e non so neppure il suo nome.
Comincio a spogliarmi per farmi una doccia e risquilla il telefono. Non faccio in tempo a dire il solito “Laura” che la voce d’uomo, quella di poco prima dice di corsa: — Non ti ho detto il mio nome. Sono Gerardo, Paola mi chiama Jerry.
E riattacca.
Mi infilo sotto la doccia.
MAURA
Aldo è un vulcano. Continua a sfornare progetti ad un ritmo che mi lascia senza fiato, dice che l’amore gli dà la carica.
Ha cominciato a contattare tutte le società immobiliari proponendo collaborazione. Qualcuno gli ha riso in faccia, ma altri hanno mandato materiale informativo. Li esaminiamo insieme. A letto. Fra una cosa e l’altra. Mangiamo anche a letto, fra una cosa e l’altra: piace a tutti e due.
Quando metteremo su casa faremo un letto grandissimo.
Se tutti e due lasciamo i nostri lavori con i TFR mettiamo su un po’ di soldi, ci possono servire per cominciare.
Un po’ mi dispiace lasciare la TEXA, ma nella vita bisogna andare avanti. Avremo un’agenzia nostra!
LAURA
Martedì
Sono arrivata un quarto d’ora prima, scendendo da Piazza Fontane Marose e facendomi anche un giro a Campetto, e gironzolo in cerca di uno con i capelli arancione. Se Pupa non è cambiata del tutto il suo amico può essere… Da un barbone ad un gran signore, da un seminarista al Che redivivo. Pupa non è mai stata razzista, nessuna preclusione nelle sue amicizie.
Come Lamarinetta? Forse Pupa è una sostituta dell’immagine materna?
Inutile rompersi la testa. Uno con i capelli arancione non si vede. Se mi ha tirato un pacco giuro che lo trovo e lo stendo. Entro da Squarciafico.
Non è la prima volta che prendo un pacco, non ne morirò. Lo sta pensando quando mi trovo davanti uno normale al novantanove per cento. Di un ben vestito ma ben portato. Però i capelli proprio arancione: una testa di ricci. Shirley Temple ma arancio. Su una faccia d’uomo, su un corpo d’uomo. Uno spettacolo.
— Sono Gerardo. — Lancia un’occhiata al trapunto arancione. — E se non sbaglio, tu devi essere Laura.
Annuisco.
— Ho prenotato un tavolo comodo. Ti va?
Certo che mi va. Quel Gerardo non bada a spese.
Ripieni come antipasto e poi mandilli de saea al pesto. Tutto con un buon bianco, Vermentino del Tigullio. Se è solo per una consulenza la sta pagando a caro prezzo.
Mentre stiamo finendo le lasagne al pesto Gerardo entra in argomento. — So che sei un’amica di Paola, un’amica di vecchia data.
Uso una lasagna, fazzoletto di seta, mandillo de saea, tanto è sottile, per ripulire un angolo del piatto dal pesto che è scivolato fuori della pasta. — Sì, anche se per me è Pupa e non ci si sente da anni.
Lui imita il gesto, ha mani abili, di gesti sicuri e misurati. — So che da tutti si fa chiamare Pupa. So anche che da anni non vi sentite.
Brandisco la forchetta, con infilzato ancora un pezzo di mandillo. — Non credere di comprarmi. Sono fedele alle amiche.
— Calma. Anch’io. Ma ho bisogno di aiuto e Paola ancora più di me. Appena ha ricevuto la tua telefonata Paola è andata in pappa.
Prendo il bicchiere e mi bevo un bel sorso. — Sei un suo amico, soltanto un amico… Cerca di capirmi, non la sento da anni, non conosco la sua situazione attuale.
— Diciamo che ho occupato per un bel po’ la sua camera degli ospiti, per dividere le spese. Siamo amici? Abbastanza. Ogni tanto siamo andati a letto insieme, ma così… — Si versa un bel bicchiere e lo vuota d’un sorso. — No, no che non è vero. Questo è quello che direbbe Paola. Sono stato al suo gioco sperando che facesse l’abitudine a vedermi attorno. Che si innamorasse…
Lanciò un’occhiata al maglione, cachemire garantito e camicia non di grandi magazzini. — Immagino che tu non avessi bisogno di dividere le spese.
— Infatti. Guadagno bene. Ma era l’unico modo per stare con lei. Ma ora non ce la faccio più. Non mi vede.
— Non so cosa potrei farci.
— Quando hai chiamato si è messa a piangere. Non l’avevo mai vista piangere, neppure quando le ho medicato tagli di ogni genere.
Involontariamente scoppio a ridere. Forse ho bevuto e mangiato troppo, forse è la faccia pesta di lui, forse è il ricordo di tutte le volte che anch’io ho medicato Pupa. Che con gli incidenti ha una specie di abbonamento. — Medico, infermiere, farmacista?
— Veterinario. Ma fino ad una medicazione sugli umani ci arrivo.
Allora non si guadagna male a fare il veterinario… — Così dicevi che si è messa a piangere, ma non ha voluto richiamare.
— Cosa vuoi da me?
— L’unica volta che l’ho vista piangere, l’unico appiglio per entrare in quella dannata corazza che si porta addosso.
— Non so se posso…
Lui rompe un pezzetto di pane e con quello fa scarpetta sul pesto rimasto. — Ho cambiato casa. Con lei non riuscivo più ad abitare. Ma sto male uguale.
Tutti stanno male… Vorrei gridare che anch’io sto male…
— Ti prego, Laura, aiutami.
Anche Pupa ha bisogno di aiuto se si lascia sfuggire uno così: bell’aspetto (ai capelli arancione ci si fa l’abitudine), buon carattere, innamorato, portafoglio gonfio e cassetta di pronto soccorso (che è una comodità e un risparmio). Tradire un’amica rivelando il suo segreto? Forse sarebbe un tradimento peggiore non dire nulla. Decido di dire e non dire… — Forse Pupa ha paura di innamorarsi.
— E perché?
— Non è che si stia tanto bene quando l’amore non è ricambiato. O finisce.
— Sai dell’altro e non me lo vuoi dire.
— Pupa è mia amica. Tu sei amico di secondo grado.
— Io mi sono innamorato di lei.
— Prova a dirglielo — ribatto. Ormai avrei convenienza ad aprire un centro di consulenza amorosa…
— È un consiglio?
— Senti, Gerardo, la mia vita sentimentale è uno schifo, sono la persona meno adatta a dare consigli.
— Però potresti provare a richiamarla…
— Pupa ha ragione a non volermi parlare, l’ho trattata… Pensa il peggio e peggiora.
Gerardo si versa altro vino. — Se non altro abbiamo mangiato bene.
PUPA
Jerry se ne è andato. La casa è vuota da schifo. Non era che insieme si stesse tanto, ma lui c’era. E poi, con la mia tendenza a tagli, contusioni, bruciature, avere in zona uno come lui era una gran comodità e un risparmio.
Non posso negarlo, mi manca. Non che sia innamorata di lui! Ma proprio mi manca averlo attorno. Ma soprattutto sono curiosa, troppo curiosa di sapere dove si è arenato.
Non ho mai avuto il cervello di Laura, ma anch’io non ero tanto malaccio. So dove lavora Jerry, mi basterà seguirlo per scoprire quello che non ha voluto dirmi. Apro l’armadio e occhieggio, avrò ben qualcosa di diverso dal solito! I miei soliti straccetti lui li conosce a menadito come io conosco i suoi. Non tanto straccetti, perché lui compra bene.
Occhiali neri, berrettone e via! Già il pensiero di agire mi fa sentire meglio.
Di solito smette di lavorare verso le sei e mezza, anche le sette, a volte.
Alle sei e un quarto sono in appostamento. Via Ceccardi è una buona posizione: ci sono i portici e c’è tanto movimento. Di solito non va al lavoro con l’auto. Posso soltanto sperare che non abbia cambiato abitudini, perché io sono in bus.
Esce alle sette passate: ho aspettato per quasi un’ora, rodendomi il fegato.
E si incammina a piedi, non è difficile seguire, anche nella folla, il suo cespuglio arancione. Cammina spedito, io arranco.
Piazza Deferrari e devo fare attenzione a non scivolare perché con il vento le fontanelle hanno spruzzato il pavé e ora è viscido. È già sera e forse i miei occhialoni neri sono fuori luogo, ma sono parte del travestimento, come il cappello.
A tesa larga: il meno adatto a Genova. Con il vento rischia ad ogni istante di prendere il volo, così devo tenerlo con una mano.
Per poco non lo perdo, Jerry, non il cappello. Si è infilato in gran fretta verso Matteotti. E questo pavé è sempre più scivoloso. Giù verso San Lorenzo. Ancora rischio di perderlo quando mi trovo davanti una schiera di africani alti belli grandi e neri: un muro. Difficile superarli senza chiedere permesso (riconoscerebbe la mia voce).
Vedo il suo lampo arancione imboccare Scurreria: che non si infili da Pescetto! Che non abbia deciso di comprarsi qualche altra bella cosuccia da mettersi addosso. Che con quello che spende da mettersi addosso non capisco perché ha bisogno di un subaffitto per dividere le spese!
Gli uomini!
Niente Pescetto, sparisce prima.
L’ho perso!
No, è nel vicolo che porta a Piazza Invrea. Squarciafico è uno dei suoi posti preferiti. Caro. Ma si mangia bene. Mi ci ha portato per il mio compleanno, rassicurandomi che non c’era nessuna implicazione sentimentale.
Se ha un appuntamento da Squarciafico con una ci sta almeno un’ora, un’ora e mezza. E io qui come un palo. Una sigaretta! Anche se a sfumacchiare ad un angolo di un caruggio sembrerò una battona.
Se risalgo su verso Matteotti un tabacchino lo trovo. Vado e torno al mio punto di appostamento, prendendomela calma, perché quando Jerry si siede a tavola si prende il suo tempo.
Un’ora passa così.
Poi lo vedo uscire. Non è solo, perché è girato all’indietro a parlare con qualcuno…
LAURA
Se c’è una cosa che non fa sensazione nei caruggi è sentir gridare: neppure nelle zone chic come Scurreria, tre passi dal duomo. Davanti a Pescetto.
Ma è un grido così deciso che smetto di parlare con Gerardo e guardo verso l’origine del casino.
Una donna con una palandrana nera… A terra, in ginocchio. Un cappello nero a falde larghe è accanto a lei.
— Pupa!
— Paola!
Uno di qua, l’altra di là ci precipitiamo da Paola-Pulcra. Ha tutte e due le ginocchia ammaccate. Ma tanto, da far scorrere il sangue. Gerardo la mette in piedi ed io le passo un braccio dietro le spalle per sostenerla, mentre lui si china ad ispezionare i danni.
E Paola-Pulcra continua a piangere con lunghi singhiozzi.
— Bisogna disinfettare — diagnostica Gerardo. — C’è una farmacia in piazza.
Paola cerca di divincolarsi. — Lasciami stare, tu! Sporcotraditorechenonseialtro.
— Stai calma, Pupa.
— E tu, amicadelcavolo, lasciami stare.
Si libera ma noi due la riacchiappiamo subito vedendo che, da sola, in piedi non sta.
— Ora ti porto in farmacia, è aperta di turno — continua Gerardo, con la stessa voce rassicurante che forse usa con cani gatti e altri animali. — Vedrai che non ti farò male.
— Male me ne hai già fatto… — e riprende a piangere.
È proprio la Pupa di sempre, penso con affetto (ed irritazione): tendenza a conciarsi in modi impossibili, cadute, incidenti… E lacrime. Quando comincia non riesce a smettere.
La sorreggiamo fino alla farmacia, la facciamo sedere su uno sgabello; le rimbocco i pantaloni, per fortuna larghi, fin sopra il ginocchio, e Gerardo le si inginocchia davanti per medicarla.
Il farmacista si avvicina e chiede se abbiamo bisogno d’aiuto.
— No, grazie — risponde Gerardo. — Sono veterinario e me la cavo. — Si china con il tampone imbevuto di disinfettante. — È quello che non brucia, ma un po’ di male ti farà lo stesso.
— Fammi male, fammi male. Non sai fare altro — esclama Pupa e continua a piangere.
Il farmacista si avvicina di nuovo. — Sembra che stia davvero male, volete che chiami un’ambulanza?
Guardo Pupa. E poi Gerardo: come tanti uomini l’abbondanza di lacrime lo spiazza… Forse lui non sa come chiudere il rubinetto delle lacrime di Pupa, ma io sì; l’ho usato più di una volta, ma un po’ mi spiace… È anche pericoloso per chi lo chiude.
Mi metto davanti a Pupa e con decisione le dico: — Guardami, Pupa.
Come da copione la mia amica mi fissa, sempre piangendo. Prendo lo slancio e le mollo un ceffone. Non basta uno schiaffetto, ci si deve mettere forza, l’ho scoperto nel corso degli anni. C’è soltanto da sperare che la velocità di riflessi di Pupa sia diminuita.
Niente. Il pugno, un riflesso meccanico (secondo Pupa), mi colpisce allo zigomo. Dannazione, me l’aspettava e ho cercato di scansarsi per tempo, ma Pupa ha un gancio da pugile professionista.
E smette di piangere. — Ti ho fatto male? — chiede con voce quasi normale.
Mi frego lo zigomo, di certo mi verrà il solito livido, ma almeno Pupa ha smesso di piangere. — Passa.
Nel caos di schiaffo e pugno, Gerardo, ai piedi di Pupa, ha continuato a medicare ginocchia. — Fatto! — E si rialza.
Ora siamo tutti e tre zitti a guardarci, vertici di un triangolo.
— Voi due… — inizia Pupa. — Ti sei messo con lei?
Faccio un passo indietro: trovarsi in mezzo ad una lite fra innamorati è antipatico, ma fra due che non sanno se lo sono o no, è ancora peggio. Come con Aldo e Maura, ma peggio.
Pupa mi fulmina. — E tu, stronzetta, non cercare di defilarti. Ti vuoi vendicare prendendomi l’uomo?
La nostra rappresentazione comincia ad attirare pubblico. Prima i clienti della farmacia, ma ora anche quelli che passano, perché lo sgabello dove abbiamo fatto sedere Pupa è ben visibile dalla vetrina illuminata.
Dei turisti di passaggio cominciano anche a filmare la scena: tutto colore locale da riportarsi a casa.
Vedendo cinepresa in funzione altri cominciano a chiedere se stanno registrando uno spot. C’è scritto sul giornale che a Genova registrano degli spot. Qualcuno chiede se c’è bisogno di comparse.
Una signora più coraggiosa, anche fresca di parrucchiere, entra in farmacia chiedendo a gran voce delle aspirine: per vedere gli attori da vicino?
Racconterà a tutti “Ero sul set. Una storia di adulterio, molto drammatica. Gli attori proprio gente come noi. Lui, poi, un bell’uomo. Ben vestito.”? Insomma, ci vivrà di rendita per settimane?
Entra mentre Gerardo si piazza davanti a Pupa ferita e le dice con voce ben impostata: — Ti importa così tanto se ho una storia con un’altra?
Dalla faccia della donna fresca di parrucchiere capisco che si sta divertendo più che a teatro: soprattutto perché siamo così vicini che può toccarci.
Sono nella sua testa e nei suoi racconti futuri: “Nemmeno lo immaginate. Non un’incertezza.”
— Fai quello che vuoi, Jerry, non mi importa.
— E allora perché eri qui? Mi spiavi.
Pupa alza il viso. — Sì, ti spiavo, ma soltanto perché ero curiosa di sapere con chi ti eri messo. Non per altro. — Mi lancia un’occhiata. — Non immaginavo con Laura, la mia migliore amica.
La signora con la testa fresca spintona un po’ per seguire meglio. Proprio una bella storia. E come recitano bene! “Le migliori amiche, l’ho sempre detto, che bisogna guardarsene. Ti fregano gli uomini.”
Nel frattempo, cerco di arretrare e di farmi assorbire dalla folla… Folla? Perché c’è tanta gente? Cerco di richiamare l’attenzione di quei due disperati (innamorati forse sì forse no) ma niente: sono soli al mondo. Però qualcosa di buono è successo: Pupa mi ha di nuovo promossa al ruolo di “migliore amica”.
Lo sto pensando quando la signora impeccabile e con una testa fresca mi dà una gomitata. — Vergogna, rubare l’uomo ad un’amica. — Subito mi lancia un sorriso. — Mi scusi, ma siete così bravi che mi sono lasciata prendere. Posso sperare?
Mi trovo davanti un’agenda aperta, mentre la signora mi porge una penna. — Può farmi un autografo? Sa per la mia nipotina.
Ora che al mondo ci siano dei pazzi lo so, ma una così! Cosa vuole da me quella pazza?
— Lo so, sono sfacciata, ma un autografo, magari con dedica…
Prendo la penna, una bella Mont Blanc. — Il suo nome? — cercando di recitare la grande attrice.
— A Sandra, andrebbe benissimo.
Così scrivo “A Sandra” e firmò uno scarabocchio in cui è a fatica leggibile “Laura Arnolfini”: il mio primo (e ultimo) autografo.
Quella mi sorride.
Fra una cosa e l’altra mi sono distratta. Riporto l’attenzione su quei due pazzi…
— Ammetti che mi hai seguito perché sei innamorata di me.
— No, no e no — ripete Pupa.
— Se non lo ammetti ti stacco il cerotto. — Gerardo si mette in ginocchio davanti a Pupa, pronto alla tortura.
— Che scena romantica… — sussurra la felice proprietaria di autografo. — Uomini così non se ne trovano più!
— E tu? Cosa facevi con Laura?
— Gelosa?
— No, no e no.
Gerardo tende una mano e comincia a staccare un angolo. — Allora? La verità, please.
Dalla faccia di Pupa capisco quanto le fa male. In più nella stagione dei pantaloni Pupa si è sempre depilata a casaccio e il cerotto con i peli… — Sì, se lo vuoi sapere ero gelosa.
— Perché mi ami.
— No, no e no.
Di nuovo Gerardo comincia ad armeggiare intorno al cerotto.
— Sì, se lo vuoi sapere ti amo.
La folla comincia ad applaudire.
— E ora, Jerry, sei contento?
— Lasci casa tua e vieni da me, Paola.
— Perché?
— La mia è più grande. — Si schiarisce la voce. — Bella e grande.
— Ma stavi da me, per dividere le spese.
— Va che sei proprio scema! Lo facevo per stare con te. E già che ci sono… — Posa un ginocchio a terra, le prende una mano. — Paola Pulcra, detta Pupa, vuoi vivere con me? Non subaffitto.
— È grande?
Lui annuisce.
— Vista mare?
— Corso Italia, di fronte al Lido, ti va bene? E spicciati perché comincio ad avere i crampi al ginocchio.
— Noi due soli?
– Noi due. — Si massaggia la gamba. — Cavolo, Paola, mi fa male la gamba.
— Anche a me. Ti sta bene.
— Allora sì o no…
— Ad una condizione. Chiamami Pupa.
Li guardo allontanarsi insieme.
Tutti trovano la loro giusta metà. Tutti tranne me…
Pupa e Jerry, Maura ed Aldo, Lucy e Matteo.
Io sono spaiata.
Persino Clelia ha trovato in Umberto la giusta metà.
Fra una cosa e l’altra, torno a casa che sono quasi le dieci. Pupa e il suo Jerry mi hanno dimenticata in farmacia: ho pagato disinfettanti e garze.
Me ne sono tornata a casa lemme lemme. Sono molla: forse ho mangiato e bevuto troppo, forse il pugno di Pupa, forse lo spleen.
Dopo una seratina così una avrebbe bisogno di pace o coccole, soprattutto sapendo che il giorno dopo deve lavorare (e sono pure giorni determinanti per la carriera). Invece una si trova davanti alla porta l’origine di tutti i suoi guai.
Umberto ingegner Follini. In cappotto di cammello, abito gessato, camicia azzurrina e cravatta a disegnini minuti. (la biancheria intima non è visibile, ma se non ha cambiato abitudini è composta da calze lunghe di filo di scozia, boxer a righini bianchi e azzurri, canottiera lana cotone, di Hanno)
Lo guardo con distacco.
Lui guarda l’orologio. Non dice nulla ma è come se proclamasse che non è ora di ritornare a casa. Per una donna ben nata.
Non dico niente. Il silenzio è la tattica migliore.
Gli passo accanto con un regale cenno di saluto.
Mi blocca, posandomi una mano sul braccio. Abbasso lo sguardo fino ad incoccare la mano estranea. E zitta.
— Devo parlarti.
— Di cosa? — da attrice, in fondo, neppure un’ora prima mi hanno chiesto un autografo.
— Di noi. Insieme si stava bene. — Si guarda attorno. — Non mi pare il caso di parlarne per strada.
— Non ho niente di cui parlare con te, Umberto.
— Io devo scusarmi, non so cosa mi è preso…
— È finita, Umberto.
Mi posa le mani sulle spalle e stringe. — Devi ascoltarmi!
Lo dice a voce così alta che da sopra uno dice: — E piantala, ti ha detto che è finita.
— Dobbiamo ricominciare. Ti amo. Ho lasciato Clelia.
La tentazione… No, non c’è più. Mi sciolgo da quella specie di abbraccio e faccio le scale di corsa chiudendomi la porta alle spalle. Ma lui non mi ha seguita.
Perché dopo la scenata di pochi giorni fa quando mi ha chiamata “cagna” (fra l’altro i cani mi piacciono, avevo una bastardina simpatica ed intelligente), che sembrava conclusiva, è tornato all’attacco?
Mercoledì sera
Messaggio su segreteria telefonica: “Ciao, Laura. Mi richiami? Pupa.” Mi lascia un numero di cellulare.
Richiamo, mentre mi spoglio.
Subito: — Ciao, Laura. Ho provato a chiamarti tante volte, ma non c’eri mai. Così ti ho lasciato un messaggio.
Ha parlato così in fretta che in mezzo non sono neppure riuscita a mettere un boh. Ora che si è fermata, posso inserirmi: — Ero al lavoro, sono appena rientrata e ti ho chiamata subito. Come vanno le ginocchia?
— Bene. Jerry mi cura. — Borbottio lontano. — Mi dice di salutarti e mi ricorda che si chiama Gerardo.
— Lui ti chiama Paola.
— Lo so, è un tormento. — Esita. — Come stai?
— Abbastanza. Volevo dirti… — esito anch’io. — So che Umberto ha mentito. Lo sapevo anche allora, ma… L’ho mollato. O forse lui ha mollato me. Non so. Ho tante cose da dirti.
— Un attimo.
Remescio, rumori di sottofondo. Poi: — Ho chiuso la porta, non è il caso che Jerry lo senta. — Tiene la voce bassa, tono da cospiratrice come quando si parlottava negli angoli dei corridoi durante gli intervalli. — La foto, sai di quale parlo, vero?
Tossicchio.
— Sì, dai che l’hai sempre saputo che la tenevo ben nascosta e me la guardavo sempre: il mio sogno.
— Dietro i dizionari di latino.
— Vedi che lo sai. — Pausa. E poi voce ancora più bassa, un bisbiglio: — L’ho gettata stamattina. Tagliata a pezzetti e bruciata e buttate le ceneri nel water. Pira funebre.
— Bene. Con Jerry?
— Mi sono accorta che ci tenevo quando se ne è andato.
Il caro uomo ha fatto la mossa giusta. Perché non c’è un uomo giusto che faccia la mossa giusta con me? Forse non sono giusta per nessuno.
— Contenta per te.
— Per cosa mi hai chiamata?
— Ehi, Pupa! Mi hai lasciato un messaggio di chiamarti!
— Ehi, Laura! Non oggi, ma prima, quattro anni fa.
Ha ragione, ma sono sfasata. — Per dirti che sapevo che Umberto aveva mentito. E perché mi mancavi. Ho passato momenti così brutti che avevo bisogno di una vera amica.
— Ci si vede?
— Quando vuoi.
— Io e te. Ti conto e mi conti. Venerdì sera?
— E Jerry?
— Non siamo mica incollati. Al venerdì sera ha il suo bridge. Gli ho promesso che lo imparo, ma con calma.
Pupa ha difficoltà a concentrarsi anche nel rubamazzetto: se Jerry pensa che possa imparare il bridge con dichiarazioni, controdichiarazioni, eccetera… L’amore rende ciechi e istupidisce.
— Tu sapevi giocare a bridge, vero?
— Abbastanza, ma non ci impazzisco. — Preferisco lo scopone scientifico e la briscola.
— Potresti darmi qualche lezione. In fondo mi hai sempre dato lezioni di matematica e fisica, con buoni risultati. Perché non bridge?
Il suo ragionamento fila.
— Possiamo provare.
— Allora per venerdì?
— Sì, dove ci vediamo?
— Ma vieni da me. Ci facciamo portare una pizza e la mangiamo qui.
— Qui dove, Pupa?
— Da Jerry. Una casa da favola, fronte mare.
— Da mangiare lo porto io, uscendo passo in friggitoria. — Perché ho venduto quell’auto così scomoda e mi sono comprata uno Spiddi(2) che si infila dappertutto. — Ti va?
— Frittelle di baccalà, cuculli e panisse?
— Farinata.
— Io faccio il tiramisù.
È l’unica cosa che sa cucinare, ma lo fa bene.
Mi detta l’indirizzo e il problema è risolto.
Mi sento già meglio: Pupa è stata per anni la mia voce amica ed io la sua. Come se la mia vita, poco alla volta, torni sui suoi binari.
Venerdì
Scambio! Credevo che la mia vita avesse riacchiappato il binario giusto, invece no! Scossoni alla TEXA. Voci sempre più insistenti parlano di teste tagliate, nuove nomine, rimpasti.
Sangue che scorre.
Garavini mi ha spedito a Ginevra. Sono tornata: mi avesse chiesto “e lei, mia bella giovine, ha imparato qualcosa in quel di Ginevra o si è limitata a farsi quel ragazzuolo niente male che porta nome Tom?” perché ci giurerei che lo sa.
Niente.
Mi sono stati assegnati dei brevetti da seguire. L’ho fatto. Ora, di solito, le relazioni tornano indietro con annotazioni del tipo “puntualizzare meglio”, “correggere”, quando non si limitano a mettere un punto interrogativo che può voler dire qualsiasi cosa. Come sapere che sei colpevole, ma non individui il reato (nei sogni succede spesso). Mi fosse tornato indietro qualcosa: niente. Moloch ha inghiottito tutto, forse l’ha bruciato nella fornace ardente.
E così con tutti quei bei discorsetti su chi verrà sbattuto fuori e chi no, chiaro, che Laura Arnolfini si senta un pitinin a disagio.
Chiesto a Maura, che sa sempre tutto. Sta volta anche Maura è nell’ignoranza più totale. Forse perché è innamorata, forse perché, anche se lavora qui, ha già la testa fuori. Lei e Aldo diventeranno una coppia di agenti immobiliari.
Una coppia per ora un po’ sbalestrata: lui potrebbe andare a stare da lei. Ma Maura non ha casa propria, sta con zia, perché con padre e madre si sente morire. Come prenderebbe zia una convivenza? Anche la prendesse bene starebbero stretti: e una coppia recente ha bisogno di stare per i fatti suoi. Maura non può andare da Aldo, perché la casa di Aldo è prossima a scoppiare: padre e madre, fratello (divide camera con Aldo) e sorellina che divide camera con nonna. Maura non ci sta proprio.
I loro incontri richiedono tempismo e capacità di adattamento.
Ma una casa la troveranno.
Così, dicevo, Maura non sa nulla.
Neppure Rita. Ma già! Lei ci tiene aggiornati sugli umori della tribù Samperi: buoni non sembrano.
Venerdì sera
La casa di Jerry (e di Pupa) è fronte mare, ma così fronte mare che sembra di averlo in casa. Chiedo a Pupa cosa ha fatto della sua casa, perché potrebbe venir bene a Maura ed Aldo.
— Ho già disdetto l’affitto. Era da scema pagarlo e vivere qui.
Ha ragione. Mangiamo in terrazza (è ancora freddo, ma niente ci impedisce di tenerci il trapunto e gli scarponcini) e parliamo. Come abbiamo sempre fatto, come se neppure un giorno fosse passato da quando l’abbiamo fatto l’ultima volta.
— Ho provato, sai, a dirti che Umberto non era giusto per te.
Annuisco. — Volevo dirti che quella foto dovevi buttarla.
Ridiamo e peschiamo cuculli dal cartoccio unto. (Da quando ho lasciato Umberto (o lui ha lasciato me) mangio qualunque schifezza e non ingrasso. Neppure i brufoli mi vengono.)
Ci scoliamo anche una bottiglia di Rossese che Pupa ha saccheggiato dalla fornita cantina di Jerry.
E con il tiramisù un goccetto di Porto. Così racconto a Pupa di Giovanna (detta Nelly) e la storia rotola via e racconto racconto. Di Lucy che aspetta un terzo figlio (ma taccio di Marco). Anche di Clelia e poi di Maura e di Aldo e della casa e di lui che vorrebbe cominciare un lavoro nuovo. Che è un mago per trovare case alla gente.
— Chi è un mago?
Ci giriamo tutte e due verso la portafinestra. C’è Jerry. — Non avete freddo?
Pupa scuote il capo. — Si sta benissimo. — Versa un bel po’ di Porto nel suo bicchiere e lo porge a Jerry. — Vuoi?
Lui lo prende e lo vuota. Ci guarda, ride.
— Cosa hai da ridere? — è Pupa.
— Dovreste vedervi. Imbacuccate da bivacco in alta montagna, con vista mare e luna in ciel. — Alza il bicchiere. — Un grappino sarebbe stato più intonato.
Mi disincaglio dalla sedia (di quelle da giardino che quando ti siedi sono comode, ma quando ti alzi sei rotta). — Io vado.
Ovvio che a nessuno dei due venga voglia di trattenermi. Ma accompagnandomi alla porta Jerry mi chiede cosa dicevo di quel mago per trovare casa alla gente.
— Un amico. Vorrebbe aprire un’agenzia ma soldi… — concludo con un’alzata di spalle.
Domenica andrò a Rapallo. Da secoli non vedo i miei.
Mi sembra di vegetare in una specie di limbo: le cose succedono solo agli altri. Gli eventi mi sfiorano e si dimenticano di me.
Lunedì mattina
Gli eventi decidono di non scansare più Laura Arnolfini. Arrivata alla TEXA, la bella giovine, sottoscritta, trova una convocazione da Garavini.
(Ora mi caccia)
— Il corso di Ginevra? Ha imparato qualcosa?
— Spero di sì.
Garavini sposta un plico di fogli da una parte all’altra della scrivania. — Devo nominare il coordinatore di settore.
Non raccolgo: coordinatore del settore brevetti è l’incarico per cui Umberto fa periodicamente domanda.
— Lei ha i requisiti necessari, Arnolfini. Comincia da lunedì prossimo. — Mi porge un foglio piegato. — Questo è il suo organigramma.
— Io coordinatore di settore?
— Perché pensa che l’abbia mandata a Ginevra? Per vedere il lago? Non ho tempo da perdere, Arnolfini.
Esco cercando di correre. Probabilmente mi è salita la febbre e sto sognando. In anticamera apro il foglio.
Nell’organigramma c’è il mio nome ben in chiaro: ingegner Laura Arnolfini, Coordinatore del settore brevetti. Lo leggo due o tre volte, forse di più. Poi cerco il nome di Umberto.
Niente.
Senza pensare alle conseguenze, mi giro e busso alla porta di Garavini.
— Avanti.
Solo appena entrata mi rendo conto dell’enormità di quello che sto facendo…
Sto per dire “Umberto?” ma mi correggo in tempo dicendo: — L’ingegner Follini? Non compare nell’organigramma.
Garavini annuisce. — Ha dato le dimissioni venerdì sera, al mattino gli avevo comunicato che l’incarico di coordinatore era già stato assegnato e non a lui.
— Perché?
— Proprio lei, Arnolfini, che per anni ha cercato di correggerne gli errori… Mi sono ripreso tutti gli incartamenti, basta leggere con attenzione.
Esco dall’ufficio di Garavini. Coordinatore del settore brevetti: un posto impegnativo. No, non devo spaventarsi, per anni Umberto ha ricoperto quell’incarico come facente funzioni, ma dietro di lui ci sono stata sempre io.
Ritorno nel mio ufficio e mi siedo alla scrivania con l’organigramma in mano. Sentendomi un po’ confusa dalla novità.
— Cosa c’è, Laura?
Mi giro verso Maura e le porgo il foglio.
— Accidenti, Laura! Questo sì che è un bel colpo! — Continua a leggere. — E Umberto?
— Se ne è andato quando ha saputo che assegnavano ad un altro il posto che voleva da anni…
— Samperi un posto glielo trova di sicuro. E tu ti sei limitata a smettere di fare anche il suo lavoro.
Così da lunedì sarò coordinatore di settore… E non ho una persona speciale cui dirlo.
La sera, arrivata a casa, telefono ai miei.
— Ciao, pa’, come state?
— Bene — è chiaramente sorpreso dalla domanda: ci siamo visti ieri. — C’è qualcosa che non va?
— Niente. Anzi. Mi hanno promosso, pa’. Coordinatore di settore. Settore brevetti.
— Brava. È un lavoro che ti piace?
— Sì. Ma non ho mai sperato di ottenerlo. C’era anche un altro in lizza. — Pausa. — Non ho giocato sporco, pa’.
— Lo so, cocca, lo so. Non c’è da vergognarsi se si fa carriera. — Pausa. — Anche tua madre fa segno che è contenta.
— Dove è?
— Sta confortando una in crisi che ha chiamato sul cellulare.
Bene: tutto è normale, il mondo non ha cambiato asse. Mia madre è ancora Lamarinetta.
Sì. In poche settimane la mia vita è cambiata. Come è cambiata quella di chi mi sta vicino.
Però nel cambiamento stenta a fermarsi… Qualcosa deve ancora succedere: ha preso tanto slancio.
Trovo Clelia all’uscita dal lavoro. Due settimane dopo.
Non al posteggio, perché Spiddi(2) come il suo progenitore sta ovunque.
Certo, quando piove ci si bagna, ma ho comprato una tuta da motociclista che mi fa sentire valentinorossi.
Trovo Clelia al portone della TEXA.
— Salve, si ricorda di me? Sono Clelia Samperi.
È diversa. Meno inamidata. La pelliccia di visone è stata sostituita da un giaccone di montone e invece della classica gonna indossa pantaloni di fustagno. I capelli non hanno la lacca. Per contrasto il viso è meno smunto.
— Sì, certo.
— Potremmo prendere qualcosa insieme? Offro io, però.
— Sono in moto.
— Ha un casco anche per me?
Certo che l’ho. A volte do uno strappo a qualcuno, tengo sempre un casco di scorta, nello spazio sotto il sellino. Annuisco. — Non ha paura della moto?
— La sa portare?
— Sì.
— Allora sono pronta. — Senza esitare mi si arrampica dietro. — Penso che lei conosca la città meglio di me, Laura. Potremmo andare in un posto un po’ più divertente di Mangini.
Così la porto nel locale sotto San Lorenzo dove vado ogni tanto, dove mi ha portata Maura la prima sera. Ordino Negroni per due.
— Ho lasciato Umberto — esordisce Clelia, all’improvviso.
— Lui mi ha detto che è stato lui a lasciarla.
— Ho assunto un investigatore privato, quello che lei mi aveva raccontato di Parigi si è rivelato esatto. Sono stata zitta, per non perderlo.
La capisco, anch’io sono diventata un’esperta nell’ingoiare bocconi amari.
— Poi, per il viaggio di nozze… Mi scusi se ne parlo proprio con lei, Laura.
— Si figuri. Anzi, figurati: potremmo darci del tu — propongo.
— Anche quello ho provato ad accettarlo. Avrei accettato tutto, anche il suo fallimento professionale…
— Lo sapeva?
— È da qualche settimana che mio padre cerca di ritardare il momento decisivo. Ha rinunciato ad aiutarlo la settimana scorsa. Niente da fare. La candidatura di Umberto non era più sostenibile. Ma sarei rimasta lo stesso con lui: tramite mio padre un posto l’avrebbe trovato. In fondo non tutti possono aspirare a luminose carriere.
Annuisco.
— Ma poi non ce l’ho più fatta. E sai perché? Perché mia madre continuava a dirmi che non avrei trovato nessun altro. E lo pensa davvero. So di non essere bella, neppure simpatica o intelligente… Ma meglio sola.
Cosa dirle? Meglio tacere: anche se ora che comincia a tirar fuori la grinta Clelia è già più simpatica.
— Quando gliel’ho detto, che lo lasciavo, e tanto sicura di me non lo ero, lui ha urlato. Lui che tiene tanto al decoro. E mi sono chiesta chi me lo faceva fare. — Posa il bicchiere ormai vuoto. — Ecco, volevo dirtelo. Devo ringraziarti, Laura.
Ordino altri due Negroni.
— Mi vengono i brividi al pensiero di quanto ho rischiato. — Prende un lungo respiro prima di continuare. — Mi chiedo se ho vissuto davvero o se ho lasciato che altri vivessero al posto mio. Non ho deciso niente: asilo, medie alle Marcelline. Liceo al Vittorino. Università ma non ho mai frequentato: lettere l’ho smesse per inerzia. Volevo fare medicina, non ho mai avuto il coraggio di dirlo. Ormai è tardi.
— Perché?
— Ho vent’otto anni, Laura. Troppi anni.
— Un corso parauniversitario?
— Non è troppo tardi?
— Non mi sembra di vederti con un piede nella fossa.
— Potrei provare. Non mi ero mai impuntata perché pensavo di sposarmi. Anche il marito mi avevano trovato, è da tre anni che viene a casa nostra per un motivo o per l’altro.
Bello stronzo, mi dico. Ma me lo dico senza impegno: non è una novità.
Clelia si alza. — Questa volta offro io.
— Ti do un passaggio.
— Posso prendere un taxi.
La fisso. — Hai qualcosa contro gli autobus?
Clelia scoppia a ridere. La risata le illumina gli occhi. — No. Hai ragione. Vita nuova. Ti lascio il mio numero, potremmo sentirci qualche volta.
— Ti do il mio.
Commenti recenti